Plastic Buster: il laboratorio salva Mediterraneo

plastic-busterIl 5 luglio a Certosa di Pontignano (Siena), nella giornata conclusiva della conferenza internazionale First Siena Solutions Conference Sustainable Development for the Mediterranean Region, è stato presentato dai ricercatori dell’ Università di Siena coordinati dalla professoressa Maria Cristina Fossi, un progetto dal nome “Plastic Buster” con la finalità di monitorare la salute del Mare Nostrum e salvaguardarlo dall’inquinamento derivante dalla dispersione della plastica. L’ evento dedicato alla sostenibilità è stato promosso nell’ambito della rete ONU Sustainable Development Solutions Network.

Quanti di noi sono attratti dalla dolcezza delle tartarughe marine, o affascinati dagli squali e dal loro mondo degli abissi? Per non parlare delle balene e dei loro miti?
Bè, è proprio osservando la salute di queste specie che ci si è resi conto di quanto il Mare Nostrum (battezzato così dai Romani) sia invaso da sostanze tossiche come le plastiche.
Queste specie, definite “spazzine”, sono importantissime per l’ecologia degli habitat marini data la loro tipica alimentazione. Si cibano infatti di tutto ciò che viene lasciato in mare, da carcasse di pesci morti alla immondizia che, grazie all’inciviltà dell’uomo, purtroppo, invade tali ambienti.
Non a caso, il dato allarmante che ha fatto scoccare la scintilla negli scienziati è stata la scoperta di circa 140 frammenti (in media) di vari tipi di plastica nell’intestino delle tartarughe.

Così, sfruttando proprio le conoscenze su questi animali e sulle loro abitudini alimentari, si è cercato di analizzare cosa mangiassero e soprattutto in quali zone.
Nasce così il progetto dei ricercatori della Università di Siena che consiste nel monitorare queste specie definite sentinella, appunto perché son quelle che ingeriscono la maggior parte dei rifiuti, e studiare anche le zone di maggiore inquinamento da plastica per trovare poi una soluzione a tal fenomeno.
Ecco quindi la soluzione: “Plastic Buster”: laboratorio galleggiante eco sostenibile, plurispecialistico ed internazionale. Visto l’ampio bacino solcato dal mezzo e la divergente lingua che accomunerà le varie coste ogni specialista parlerà, oltre all’inglese, una delle lingue autoctone delle regioni d’approdo.

Solcherà il Mediterraneo dalla Toscana fino a Gibilterra, poi verso la Tunisia, l’Egitto, la Grecia e, dopo tre mesi di navigazione, risalendo l’Adriatico approderà a Venezia.
Lungo tutto il percorso  “acchiapperà” e mapperà la presenza e la distribuzione delle macro e microplastiche riversate nel Mediterraneo, con le loro conseguenze nefaste sull’ambiente marino e sulla salute della sua fauna. Verranno utilizzate a tal scopo sofisticate analisi eco tossicologiche per verificare i danni sull’ecosistema marino ma più nello specifico verranno eseguite delle autopsie, non dannose per gli animali, grazie a nuovissime tecnologie come ecografie 3D a colori, per monitorare lo stato di salute delle specie in questione che sono più soggette a questo tipo di inquinamento.

Il primo riscontro che caratterizzerà la fase iniziale sarà senz’altro un’analisi dettagliata dei tipi di plastiche, una rimozione delle stesse con relative possibilità di studio in nuove metodologie e tempi di intervento in maniera specifica e dettagliata per tutto ciò che inquina il nostro mare.

Tra le varie soluzioni, prime fra tutte sembra essere – per le zone più inquinate – quella di immettere specifici tipi di plastiche biodegradabili negli ambienti marini più inquinati. Questo permetterà uno sviluppo più celere di organismi e batteri deputati alla degradazione dei rifiuti con relativi vantaggi sulla diminuzione degli stessi.

Una volta raccolti ed archiviati tutti i dati raccolti saranno sottoposti ad analisi specifica con relative modalità di soluzione o intervento, sarà quindi necessario un summit fra tutti i paesi del Mediterraneo per affrontare il problema e capire come ridurlo tramite politiche di sensibilizzazione,  utilizzando migliori impianti di smaltimento, incentivando l’uso di plastiche e sostanze biodegradabili ed impegnandosi ulteriormente nel processo di sorveglianza con relativa ripercussione sulle pene, più drastiche o scoraggianti nei confronti di chi risulta poco attento o del tutto disinteressato alla tutela delle proprie acque.

Stando alle dichiarazioni rilasciate ogni paese si sente pronto nel mettere in atto interventi, anche drastici, per evitare bagni in mari “di plastica” senza più fauna o flora ad arricchirlo e consentirne la sua sopravvivenza.

Giuliano Centonza
8 agosto 2013

Specchi ed energia solare

impianto-solare-a-concentrazioneIl  3 luglio 2013 è una data che potrà rimanere nella storia della nostra Nazione e dell’ Umbria. Giorno in cui è stato inaugurato un “compendio di cervelli” italiani capace di dare lezione al mondo intero.

In questa data, infatti,  è stato inaugurato a Massa Martana l’impianto solare a concentrazione: la prima centrale solare termodinamico a Sali Fusi a 550° con tecnologia a specchi parabolici.

Il progetto, guidato dalla Archimede Solar Energy (ASE), nasce da una intuizione del premio Nobel Carlo Rubbia sull’utilizzo dei Sali fusi come accumulatori di calore piuttosto che dell’ olio diatermico.
La differenza tra i due materiali usati come accumulatori è notevole.

I sali fusi:
–        possono lavorare a temperature elevatissime (550°) senza che si infiammino;
–        non sono inquinanti e quindi al momento del loro smaltimento possono essere stoccati senza alcun problema per l’ambiente visto che sono dei fertilizzanti naturali;

L’ olio diatermico:
–        lavora al massimo a 400° (è facilmente infiammabile alle alte temperature);
–        altamente inquinante e di difficile stoccaggio;
–        resa più bassa per tali caratteristiche.

Il presidente di Ase Gianluigi Angelantoni, orgoglioso del traguardo raggiunto dichiara: “Lo scopo di questa centrale solare termodinamica che abbiamo inaugurato oggi non è commerciale, ma è quello di promuovere l’economia, la bancabilità e l’affidabilità degli impianti di energia solare a parabola”.

Un grande impianto come questo, va sostenuto con tutte le forze possibili dato che il suo miglioramento continuo può portare a produrre una energia dai costi molto più bassi rispetto a quella prodotta con le fonti fossili sempre più costose e in esaurimento.
Target di questo impianto sono i 50 MW di produttività ma può andare ben oltre sfruttando il suo funzionamento a ciclo continuo oltre alla concentrazione della luce solare grazie agli specchi.
Infatti, questa centrale, grazie alle proprietà dei Sali fusi, è dotata di 5 ore di  Stoccaggio di Energia Termica (TES) e ciò permette di soccombere al fabbisogno energetico anche quando ci sarà scarso irraggiamento solare o comunque, altro aspetto molto importante, il surplus di quelle 5 ore potrà essere utilizzato nei picchi di richiesta energetica.

La fiducia in questo progetto è tanta, e così il ministero dell’ ambiente ha attivato un fondo perduto dal valore di 1,5 milioni di euro per sostenerlo.
Da sottolineare è l’impegno che la ASE ha messo nell’usare questo mega impianto non solo come proprio investimento e fonte di guadagno ma come molla per il rilancio delle eccellenze italiane sia in ambito industriale che nella ricerca. In una intervista Mauro Vignolini, responsabile ricerca e sviluppo Solare termodinamico ENEA afferma: “I brevetti ci sono stati richiesti dalle società straniere, ma abbiamo scelto di darli a società italiane per far diventare le nostre aziende più competitive. L’impianto è realizzato con il 100% delle industrie italiane; credo che questo sia uno dei risultati più importanti, tanto più se lo si confronta con il fotovoltaico, la cui tecnologia viene acquistata all’estero per l’85%” e continua “..per quanto riguarda il tubo ricevitore, una società del gruppo Angelantoni, Archimede Solar Energy, con sede a Massa Martana e con partecipazioni Siemens, utilizza il brevetto ENEA a livello industriale e intende produrre 100 mila pezzi all’anno per l’esportazione. I proventi dai diritti di utilizzazione consentiranno all’ENEA di sviluppare ulteriori innovazioni per mantenere il prodotto italiano sempre competitivo rispetto alla concorrenza internazionale”.

C’è di che esserne orgogliosi di una iniziativa di una tal portata da coinvolgere tra i vari investitori, anche colossi della super economia Cina.

Giuliano Centonza
13 luglio 2013

Il tessuto adiposo come fonte di staminali

staminaliSe avete sempre odiato il grasso sul vostro corpo, fate marcia indietro e iniziate a guardarlo con occhi diversi.
Secondo una ricerca dell’Istituto dei tumori Regina Elena (sezione Laboratorio di Oncogenesi molecolare) e dell’Istituto San Gallicano, diretto dalla dottoressa Valentina Folgiero e pubblicata su “Cell Transplantation”, le cellule staminali prelevate dal tessuto adiposo possono essere usate per rigenerare la mammella in tutte quelle donne che sono state sottoposte a mastectomia o quadrantectomia.

Obiettivo dichiarato dai ricercatori è quello di capire come incrementare la rigenerazione del tessuto dopo l’asportazione chirurgica.
L’input di questa ricerca è costituito dagli oltre 400 mila pazienti che in America si sottopongono ad autotrapianti di tessuto adiposo, metodo che garantisce una migliore riuscita e qualità di vita futura del paziente.
Così i ricercatori in questione si stanno impegnando per trasferire tale pratica nella chirurgia rigenerativa e ricostruttiva.

Nello studio sono state coinvolte 15 donne sottoposte a rimozione chirurgica di parti del seno in seguito a mastectomia o quadrantectomia. Sono state prelevate le cellule staminali del tessuto adiposo di ciascuna paziente; queste cellule sono state isolate, purificate e caratterizzate per studiare i markers della staminalità e della capacità di differenziarsi  in cellule del tessuto adiposo, sia a breve che a lungo termine.

Secondo quanto affermato dalla dottoressa Folgiero, queste cellule hanno mostrato elevata capacità di differenziazione in cellule del tessuto adiposo e un elevato livello di markers di staminalità anche dopo tre mesi di coltura in vitro e ciò rafforza enormemente la potenzialità di queste staminali adipose.

La speranza di questi ricercatori è che al termine di ulteriori prove sul campo, tali staminali possano essere utilizzate non solo per rigenerazione della mammella ma anche di altre parti del corpo danneggiate da tumori o da altre lesioni.

Giuliano Centonza
11 luglio 2013

Sclerosi multipla: nuovo trattamento “inganna” il sistema immunitario

Nervo in condizioni fisiologiche (in alto a destra), nervo danneggiato dalla sclerosi multipla (in basso a destra).

Sconfiggere la sclerosi multipla ingannando il sistema immunitario, è questo l’obiettivo che si pongono i ricercatori della Northwestern’s Feinberg School negli Stati Uniti, del University Hospital di Zurigo e del University Medical Center Hamburg-Eppendorf in Germania.

La sclerosi multipla è una delle malattie autoimmunitarie e più precisamente è causata dal fatto che il sistema immunitario del paziente riconosca come fattore esterno e nocivo, la MIELINA, che è la proteina che circonda i neuroni responsabile della trasmissione del segnale, distruggendola.

Secondo lo studio pubblicato su pubblicato su Science Translational Medicine, sarebbe possibile tramite alcuni trattamenti delle cellule immunitarie del paziente, far si che la mielina non venga più riconosciuta come antigene ma come agente non estraneo.

Stephen Miller, Roland Martin e Mireia Sospedra, co-responsabili dello studio, hanno proposto una strategia totalmente diversa dalle cure fin ora studiate e usate:  indurre le cellule immunitarie “impazzite” a tollerare la mielina.
Questo nuovo processo consiste nell’ esporre il sistema immunitario alla mielina, presentata da cellule preparate in laboratorio, in modo che impari a riconoscerla come elemento non estraneo.
Secondo questo nuovo protocollo vengono prelevate  le cellule mononucleate del sangue periferico (Pbmc), ossia linfociti, monociti e macrofagi, vengono processate in vitro, attaccando sulla loro superficie dei peptidi della mielina considerati gli epitopi più immunogenetici della sclerosi multipla.
Queste cellule vengono poi re – iniettate nel paziente e il loro compito diventa realmente attivo quando raggiungono la milza. Qui vengono fagocitate dalla cellule dendritiche (che riconoscono quei peptidi inseriti); questo fenomeno permette la produzione di fattori necessari per bloccare le reazioni autoimmuni come ad esempio l’ interleuchina 10.

L’aspetto da sottolineare è che questa tecnica non agisce bloccando tutto il sistema immunitario mettendo a rischio di infezioni il paziente ma agisce attivamente solo su questo particolare obiettivo.

Lo studio è stato già testato su 9 pazienti i quali, durante i mesi successivi in cui son stati tenuti sotto controllo, non hanno mostrato peggioramenti o avuto recidive della malattia e le loro abilità cognitive sono rimaste stabili. Ma non finisce qui perché nei pazienti a cui è stata somministrata una dose più elevata di cellule immunitarie modificate si è osservata una riduzione di reattività alla mielina, riduzione di cellule immunitarie T  “impazzite” e aumento di quelle che controllano i fenomeni della tolleranza. Tutto ciò senza intaccare il normale funzionamento del sistema immunitario.

Tuttavia i ricercatori alzano ancora l’asticella affermando che l’obiettivo è quello di intervenire nelle fasi iniziali della Sm, prima che il danno mielinico sia troppo esteso e difficile da riparare”.

Se tale obiettivo dovesse essere raggiunto potremmo applicare tali terapie a tante altre malattie autoimmuni come diabete di tipo I, asma e allergie.

Giuliano Centonza
14 giugno 2013

Olio extravergine di oliva per un fritto di qualità

patatine-fritteBuone notizie per gli amanti delle patatine fritte. E’ stato da poco sdoganato il mito secondo cui le patatine fritte fanno male.

Come precedentemente accennato, in questo articolo, secondo un recente studio del dipartimento di Scienza degli alimenti della facoltà di Agraria dell’Università di Napoli, infatti, risulta che per ogni 100 grammi di patate fresche fritte ad una temperatura tra i 180° e i 200° per un tempo di 7-8 minuti, si estrarrebbero 3/8 mg di sostanze antiossidanti.

Cade così il mito che le patate fritte fanno solo ingrassare, grazie ai poteri dell’olio evo.
L’olio extravergine di oliva infatti contiene una gran quantità di antiossidanti che, al momento della frittura, si liberano venendo così trasferiti alle patate o ai cibi che friggiamo.
Tali qualità positive dell’ olio evo sono dovute anche al bassissimo quantitativo di grassi polinsaturi che tendono a rendere i nostri fritti molto più digeribili e leggeri.

Tra i principali fenoli antiossidanti contenuti nell’olio evo c’è l’ idrossitirosolo che è idrosolubile e quindi facilmente trasferibile agli alimenti.

Da non trascurare due aspetti molto importanti: le patate devono essere fresche e non surgelate perché abbiano la capacità di assorbire tali sostanze; l’olio evo mantiene molto bene tutte le sue caratteristiche grazie alla sua resistenza alle alte temperature.

L’ostacolo principale nell’utilizzo dell’ extravergine di oliva come base per friggere è costituito dai costi molto più elevati rispetto ad un olio di semi  misto o di unico tipo.

Quantomeno per le fritture fai da te è consigliabile quindi usare olio extravergine di oliva se ci teniamo un po’ alla nostra salute.

Giuliano Centonza
9 giugno 2013

Virus oncolitico JX-594: nuove speranze nel tumore al fegato

fegatoLo studio, da una equipe di ricercatori internazionali tra cui il dottore Riccardo Lencioni, docente di Diagnostica dell’Università di Pisa, è stato pubblicato anche su  “Nature medicine”.

Secondo quanto emerso, uno speciale virus mirato contro il tumore al fegato può arrestarne la crescita.
L’idea nasce dal fatto che le cellule neoplastiche non sono capaci di reagire ad un attacco da parte di virus seppur siano molto aggressive verso le cellule dell’organismo.

Il “protagonista” della vicenda è il virus oncolitico JX-594 che è stato somministrato a due diversi gruppi di pazienti con due dosaggi differenti: uno minimo e un sovradosaggio.

Il trattamento è già stato sperimentato sull’uomo, nel caso in particolare su 30 pazienti con tumore avanzato al fegato inoperabili e speranze di vita molto limitate.
Il risultato è stato molto incoraggiante: i pazienti a cui sono state somministrate alte dosi, hanno mostrato una sopravvivenza media di 14,1 mesi, raddoppiando quindi la prospettiva dei 6-7 mesi dei pazienti a cui era stata somministrata la dose minima.
Dati esplicitati in una nota dell’ Università di Pisa.

Il risultato più eclatante però è da osservare nel fatto che, a differenza di tutti i “soliti” trattamenti chemioterapici, questa cura non mostra effetti collaterali gravi se non uno stato simil-influenzale che dura appena 2 o 3 giorni.
Ciò è un risultato di notevole importanza in quanto dimostra che il virus, iniettato nel pazienta a mò di biopsia nella zona interessata dal tumore, va ad agire solo verso il particolare tipo di cellule verso cui è stato lanciato comprese quelle metastatiche.

“Per la prima volta –  afferma  Lencioni – un trattamento locale mini-invasivo dimostra efficacia non soltanto sul tumore bersaglio, ma sull’intero organismo, grazie alla reazione immunitaria che viene indotta contro tutte le cellule neoplastiche, incluse quelle metastatiche”.

Tuttavia, per far si che tale cura sostituisca la chemioterapia e simili trattamenti bisogna aspettare che termini la sperimentazione su larga scala.
Bisogna essere fiduciosi in queste ricerche e spingere i ricercatori verso nuove frontiere.

Giuliano Centonza
24 maggio 2013

lo sport corre più veloce del Parkinson

parkinsonIl morbo di Parkinson è una malattia degenerativa che compare solitamente tra i 59 e i 62 anni e di cui in Italia ne soffrono almeno 300mila persone, anche se si ritiene che molti anziani, non sono censiti.

Questa malattia è riconoscibile per una costante e continua perdita di elasticità articolare e muscolare, rigidità, lentezza nei movimenti e perdita di equilibrio e ciò è dovuto ad una produzione di dopamina ridotta al minimo o annullata data la morte di una percentuale di neuroni intorno al 50-60%. In modo particolare i neuroni ad essere interessati sono quelli che si trovano nella sostanza nera, una piccola zona del cervello atta a controllare tutti i movimenti, proprio attraverso il neurotrasmettitore dopamina.
Dato il manifestarsi così attardato, è necessario sottoporsi a controlli preventivi, soprattutto per chi ha altri casi in famiglia (possibilità che si sviluppi la malattia nei discendenti è del circa il 20%) anche se, tra le cause in studio, oltre a fattori genetici, ci sono fattori ambientali come ad esempio l’ esposizione a particolari sostanze contenenti metalli e pesticidi.

Come è facilmente intuibile, non si possono aspettare i primi sintomi per parlarne col medico in quanto vorrebbe dire prendere la malattia in uno stadio ormai avanzato e inarrestabile; ma vediamo come si può ridurre drasticamente la probabilità di sviluppare il Parkinson.

Uno studio della Scuola di salute pubblica della Harvard University, pubblicati sulla rivista Neurology, dimostrerebbe il rapporto tra il tenersi in esercizio e lo sviluppo del Parkinson.
Secondo questa ricerca infatti gli uomini che hanno affermato di aver fatto molto moto regolarmente da giovani hanno dimostrato di avere una probabilità di essere colpiti dal morbo di Parkinson molto inferiore (del 60%) rispetto agli uomini sedentari. Gli uomini che avevano fatto l´attività fisica più intensa solo all´inizio dello studio, durato 10 anni, sono riusciti a ridurre la probabilità del 50%. Allo studio hanno partecipato 125 mila uomini e donne. I risultati, però, non hanno dimostrato alcun beneficio per le donne.

Non a caso infatti tutti i medici si stanno battendo per inculcare la cultura della attività fisica.
Seppure questa non possa curare definitivamente questa malattia è molto utile in quanto si andrebbe a stimolare la produzione di dopamina e quindi tenere acceso questo sistema, in secondo luogo, anche quando la malattia ha lanciato i primi segnali, una moderata attività fisica andrebbe a rallentare la degenerazione oltre a migliorare la flessibilità delle articolazioni, la forza muscolare, il senso dell’ equilibro e soprattutto la coordinazione che mette più a dura prova il nostro cervello.
Molto importante risulta inoltre nel prevenire stipsi, disturbi del sonno ed osteoporosi, tutte conseguenze derivanti dalla ridotta attività motoria in seguito a degenerazione da Parkinson.

Inoltre altri studi più recenti hanno anche mostrato una stretta correlazione tra lo sviluppo della malattia e il Parkinson. I risultati di tale ricerca hanno messo in evidenza come la malattia si sviluppi meno in zone che seguono abbastanza rigorosamente la dieta mediterranea con elevato consumo di verdure e frutta stagionale ad alto contenuto di antiossidanti che hanno il ruolo di coadiuvare l’organismo ad eliminare le varie sostanze tossiche dovute al metabolismo.
A questi si contrappongono quei Paesi in cui è diffusa una alimentazione costituita principalmente da grassi e alimenti “spazzatura”.

Perciò quando la prossima volta il vostro medico vi dirà di fare attività fisica e seguire una dieta corretta ed equilibrata, prendetelo alla lettera.
Farete del bene non solo alla vostra linea ma a tutto il vostro organismo.

Giuliano Centonza
23 maggio 2013