Non sempre “velenoso” è sinonimo di “pericoloso”: quali Ragni italiani sono realmente temibili?

Questo Ragno è velenoso?”

Un evergreen che si ripropone ogniqualvolta che si incontra un simpatico animaletto a 8 zampe, soprattutto se ad imbattercisi è un umano aracnofobico.
La risposta più logica e zoologicamente valida a questo quesito è “Sì, è velenoso come quasi tutti i Ragni…ma è pericoloso solo se sei un Grillo o una Mosca…“. D’altronde c’è relatività in tutto, compreso nel concetto di “velenoso”, troppo spesso considerato in sinonimia con “pericoloso” o, nel peggiore dei casi, con “mortale”.
Partiamo da un presupposto: in tutto il mondo sono state attualmente descritte 105 famiglie di Ragni e solo le famiglie Uloboridae, Holoarchaeidae e Symphytognatidae annoverano specie prive di ghiandole velenifere. Di questi taxa, solo la prima famiglia menzionata è ampiamente presente in Italia con 5 specie molto comuni nelle nostre abitazioni. Una percentuale irrisoria considerando che, stando alla Checklist dei Ragni italiani aggiornata al 2016, risultano presenti sul territorio italiano 1620 specie riconducibili a 54 famiglie di Ragni.
Circa il 99,7% dei Ragni italiani sono quindi velenosi. Numeri che possono far paura…ma solo in apparenza!

Uloborus plumipes, una delle 5 specie italiane totalmente prive di veleno (Ph. Olaf Leillinger)

Sebbene velenosi, la maggior parte di questi Aracnidi non ha neppure la forza (e spesso neppure la voglia) di bucare la nostra pelle; qualora dovessero riuscire a perforarci con i loro piccoli cheliceri, si tratterebbe di un veleno pericoloso solo per le loro prede, ma per noi totalmente innocuo.
Nonostante questo rincuorante dato, bisogna ricordare che in Italia sono presenti due specie potenzialmente pericolose anche per noi: Latrodectus tredecimguttatus (“Malmignatta” o “Vedova nera mediterranea”) e Loxosceles rufescens (“Ragno violino”). Due specie poco comuni che raramente mordono: stiamo infatti sempre a contatto, direttamente o indirettamente, con i Ragni, ma molto raramente sentiamo di persone colpite dal loro veleno, ancor più raramente capita che provochino la morte. Statisticamente è estremamente più pericoloso un Cane.

Come fare per riconoscere queste due specie?
L. tredecimguttatus ha un corpo che nella femmina può raggiungere i 15 mm di legspan (il maschio è molto più piccolo), contraddistinto dalla presenza di 13 macchie rosse. Una livrea particolarmente appariscente e tipicamente aposematica che dovrebbe farci desistere dall’infastidirla. Il morso della femmina, anche se meno pericoloso di quello della congenerica specie americana (Latrodectus mactans, la celebre “Vedova nera”), non è immediatamente doloroso, ma in seguito può provocare sudorazione, nausea, conati di vomito, febbre, cefalea, forti crampi addominali e, nei casi più gravi, perdita di sensi e talvolta morte. I casi mortali sono tuttavia veramente molto rari: ad oggi, si segnalano in Italia solo 4 possibili episodi di morte in seguito al loro morso, due dei quali avvenuti nel 1987 in provincia di Genova. Si tratta di una specie ovviamente potenzialmente pericolosa per i bambini in quanto la quantità di veleno iniettata deve essere rapportata alla corporatura e, per il corpo di un bambino, tale quantità può rivelarsi fatale. Il morso è potenzialmente pericoloso anche gli anziani ed eventualmente per gli adulti già indeboliti da malattie al momento del morso: una persona adulta non pienamente sana può non riuscire a salvarsi dagli effetti del veleno, che anche in questo caso può essere letale se non curato in tempo. Nei soggetti allergici può inoltre provocare shock anafilattico, come d’altronde le punture di molti Insetti ritenuti praticamente innocui per gran parte della popolazione (come ad esempio le Api o le Vespe). L’habitat ideale di questa specie è costituito da zone di macchia mediterranea bassa, spesso aride e pietrose, ma è relativamente comune anche fra rocce e muretti a secco, mentre è solita evitare le nostre abitazioni.

Giovane femmina di Latrodectus tredecimguttatus, la temibile “Malmignatta” (Ph. K. Korlevic)

La seconda specie potenzialmente pericolosa, L. rufescens, ha dimensioni comprese tra 8 e 13 mm nelle femmine, mentre il maschio, nel complesso più piccolo, è caratterizzato da zampe più lunghe. Spesso sul cefalotorace è presente una macchia scura che, con un po’ di fantasia, può ricordare un violino col manico che si estende verso l’addome, caratteristica da cui deriva il nome comune del Ragno.
Non è una specie aggressiva e, se disturbata, tende ad allontanarsi. Può tuttavia rintanarsi fra lenzuola o vestiti, aumentando le probabilità di doversi difendere tramite il morso qualora dovesse sentirsi minacciata. Il suo veleno è necrotizzante e, nei soggetti allergici, può dar vita al cosiddetto loxoscelismo: tende a formarsi un’ulcera che può estendersi per diversi centimetri; previo trattamento medico, la ferita guarisce dopo diverse settimane, lasciando tuttavia una cicatrice talvolta abbastanza estesa. Il potenziale pericolo è chiaramente dipendente dalla localizzazione del morso. Nel 2015 è stato riportato il primo caso in Europa di morte causata da questo Ragno. Gli effetti del veleno di L. rufescens sono simili a quelli della congenerica Loxosceles reclusa, specie diffusa nella parte meridionale degli Stati Uniti e nel nord del Messico, sebbene siano riportate segnalazioni anche in Europa. L. rufescens trova abitualmente riparo principalmente tra le rocce o sotto la corteccia degli alberi, ma non di rado viene rinvenuto anche nelle nostre abitazioni, in locali umidi come garage o cantine. Qui un’intervista a un ragazzo che ne ha “testato” il morso.

Il poco appariscente Loxosceles rufescens o “Ragno violino” (Ph. Luis Fernández García)

Due specie che sarebbe meglio evitare, sempre presupponendo che sono animali schivi e non aggressivi, quindi faranno di tutto per evitare di mordere, una difesa utilizzata solo come extrema ratio…camminare sotto un balcone con dei vasi non ben posizionati o guidare dopo aver bevuto un cocktail di troppo il sabato sera è probabilmente molto più pericoloso e basta un po’ di logica per capire quanto siano in realtà innocui i Ragni diffusi nel nostro Bel Paese. Gli atavici e obsoleti pregiudizi che li affliggono trovano terreno fertile nella spesso scarsa conoscenza che si ha di questi Artropodi, così come accade anche per i Serpenti, trasformando un timore poco sensato in un’incontrollabile fobia.
Alla luce delle constatazioni di stampo tossicologico relative al loro morso, quando vi chiederanno se un Ragno è velenoso, nel 99% dei casi potrete rispondere “Sì… ma non è pericoloso!”.

Andrea Bonifazi

Bilbiografia

Bellmann H. (2016). Guida ai ragni d’Europa. Roma, Franco Muzzio Editore, pp. 428.

Bonnet M.S. (2004). The toxicology of Latrodectus tredecimguttatus: the Mediterranean Black Widow Spider. Homeopathy, 93(1), 27-33.

Coddington J.A. (2005). Symphytognathidae. Spiders of North America: an identification manual. American Arachnological Society, pp. 377.

Pantini P., Isaia M. (2016). Checklist dei ragni italiani del Museo di Scienze Naturali di Bergamo.

Posada-Baltazar I., Avila-Villegas H. (2001). Preliminary Results on the Project of Medically Important Spiders in the Aguascalientes State, Mexico. Journal of Venomous Animals and Toxins, 7 (2), DOI: http://dx.doi.org/10.1590/S0104-79302001000200024

Che Insetto è questo? Heiko Bellmann. Ricca Editore.

Che Insetto è questo?
Una domanda frequentissima, dettata tanto da curiosità naturalistica quanto da timore che la specie osservata possa essere velenosa/aggressiva/mortale (et al.). I più lesti riescono anche ad immortalare in fotografia il soggetto di cui si vorrebbe arrivare all’identificazione, ma non è sempre facile capire con certezza che animale sia: in talune circostanze neppure una foto da premio aiuta a determinare la specie qualora non venga inquadrato uno specifico carattere diagnostico. Per arrivare almeno a un’identificazione che si fermi a taxa di livello superiore, come genere o famiglia, è necessario un “piccolo aiutino”. In nostro soccorso è arrivata la recentissima e davvero ben fatta è guida “Che Insetto è questo?” della Ricca Editore, un testo di scuola tedesca utilissimo sul campo (e non solo).

La copertina del testo

Vi sono descritte quasi 450 specie, ognuna delle quali è corredata da una scheda completa e di facile comprensione: oltre a molte foto di elevata qualità (circa 2000 in totale), nome comune, nome latino e famiglia, sono riportati alcuni aspetti morfologici come dimensioni, presenza di particolari strutture anatomiche, colore, caratteristiche più evidenti della specie, disegni stilizzati che permette di inquadrare per linee generali l’Insetto che stiamo osservando. Sono presenti anche le caratteristiche ecologiche della specie, come il periodo dell’anno in cui è possibile osservarla, l’habitat di riferimento e la distribuzione in Europa. E’ necessario mettere in evidenza un aspetto che in molti altri manuali è assente: la descrizione, con foto o disegno, della fase larvale o di ninfa, un’aggiunta fondamentale, considerando che molto spesso non troviamo Insetti adulti, ma in altri stadi di sviluppo. Oltre alle singole specie, è presente anche una sintetica introduzione che tratta in linea generale gli aspetti principali di questi ubiquitari e affascinanti Artropodi.
Per esperienza personale, non posso far altro che consigliare questo testo, fondamentale tanto sul campo quanto durante le fasi di identificazione a posteriori, magari su materiale fotografico (quando possibile).

Esempio di testo relativo rispettivamente ad alcune specie di Imenotteri e di Lepidotteri

Pro: Un testo abbastanza completo che prende in considerazione le specie che più comunemente possiamo incontrare durante le nostre escursioni. Un aiuto importante anche per permetterci di capire quali specie siano REALMENTE pericolose per noi, sfatando così molti miti. Utilissimo il righello disegnato direttamente sulla copertina, così da avere anche un immediato e preciso riferimento metrico, evitando “sindromi da pescatore” che portano spesso ad eccessive sovrastime dimensionali.

Contro: È chiaro che le specie menzionate siano solo una piccolissima percentuale di quelle diffuse nel Vecchio Continente: bisogna considerare che solo in Europa Centrale ne sono state attualmente descritte circa 50000. Ma è implicito che sul campo non possiamo portarci alcune decine di volumi di un’enciclopedia, quindi l’accurata selezione delle specie è molto più che sufficiente durante le nostre scampagnate. Insomma, un “contro” che in realtà si rivela un “pro”.

Andrea Bonifazi

La strana storia di una falena e delle mosche che le salvarono la vita

Immaginate di trovarvi soli, nudi e disarmati in una selvaggia foresta asiatica. Immaginate di dovervi salvare da molteplici predatori che non aspettano altro che banchettare con le vostre membra. Cosa fare per salvarsi? Facile: basta tatuarsi sulla schiena alcuni escrementi di uccello e due simpatiche mosche che se ne nutrono.
Una soluzione senza dubbio anomala, ma sicuramente efficace!

Questo è essenzialmente l’incredibile adattamento evolutivo che ha portato al particolare pattern di Macrocilix maia, una piccola Falena (37-45 mm di apertura alare) appartenente alla famiglia Drepanidae diffusa in Asia, dall’India al Borneo. Sulle sue chiare ali, quasi come se fossero dipinte con gli acquerelli, compaiono le simmetriche sagome di due mosche. Occhi, ali, arti, addirittura la strozzatura che divide il capo dal torace…non manca nulla in questa piccola opera d’arte degna di Haeckel!

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La piccola Macrocilix maia

Affascinante senza dubbio, ma non esaltante, dirà qualcuno. D’altronde sono numerosi gli esempi di animali che somigliano ad altri animali, basti pensare alle macchie che ricordano grossi occhi diffuse trasversalmente in centinaia di specie sia terrestri che marine. Ma il più delle volte la somiglianza è con animali più grossi, pericolosi o aggressivi, così che il predatore possa essere irretito e scoraggiato.
M. maia non si limita tuttavia al disegno dei simpatici e innocui Ditteri: questi sono posizionati in modo tale da far sembrare che si stiano nutrendo di escrementi di uccello grazie alla chiazza giallastra che compare sulla parte inferiore delle sue artistiche ali. Un osservatore non attento si lascia inevitabilmente ingannare: si è infatti convinti di aver avvistato due mosche che si nutrono delle succulente, viscide e biancastre deiezioni lasciate da qualche volatile. Se non si è coprofagi, meglio cambiare preda.

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Un Dittero che si nutre di escrementi di uccello (a sinistra) a confronto con il Dittero “disegnato” su un’ala di M. maia (a destra)

Non contenta dell’inganno visivo che gioca ai suoi eventuali predatori, la falena è solita posizionarsi proprio in corrispondenza di reali deiezioni di uccello, in modo da ingannarli anche a livello olfattivo. La naturalissima opera di “body painting”, frutto di una selezione naturale che appare quasi fantascientifica, è arricchita dal fastidioso odore di ammoniaca che essa stessa è in grado di emettere, diventando così una sorta di “escremento a 6 zampe”…il virtuosismo artistico è completato e lo scopo è così raggiunto: i predatori, più schifati che intimoriti, si tengono ben lontani da lei!
A proposito: i predatori più comuni di questa specie sono proprio gli uccelli, paradossalmente ingannati dai loro stessi escrementi!

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Il Lepidottero strategicamente posizionato sulle deiezioni di un suo potenziale predatore

E’ letteralmente una questione di vita o di morte: in Natura ciò che scoraggia le potenziali minacce deve essere imitato, ma non sempre servono denti e artigli per difendersi e salvarsi…qualche volta basta mascherarsi da mosche che banchettano su un escremento!

Andrea Bonifazi

Bibliografia

Brodie B.S. (2014). Inognito Insects: camouFLYged. www.bekkabrodie.com

Dalla lotta per la sopravvivenza all’eternità: l’ambra, la macchina del tempo della Natura

Bzzzzz Bzzzzz

“Avverto un ronzio in lontananza.”

Bzzzzz bzzzzzzzz

“Si fa sempre più vicino, lo percepisco chiaramente. In pochi secondi piomba su di me un apparentemente innocuo Insetto fitofago, tanto piccolo, quanto famelico! Mi perfora la corteccia, comincia a succhiare avidamente la mia linfa. Non sento dolore, ma devo reagire: a un attacco si risponde sempre con un contrattacco! Non riesco a muovermi, ma posso contare su altre strategie difensive: una luccicante sostanza fluida estremamente viscosa comincia a essudare dal mio corpo, colando ai lati del mio robusto fusto. Devo tentare di intrappolare e uccidere il nemico, chiunque si pone tra me e lui sarà sacrificato per lo status quo!”

Bzzz…bzz…bz…

“È morto! E ha trascinato con sé anche chi non c’entrava nulla! “In guerra non devi riuscire simpatico: devi soltanto avere ragione”, dirà qualcuno tra qualche anno.”

Questo reperto cela al suo interno un ecatombe di Formiche. Ambra dominicana proveniente dalla collezione privata di Andrea Bonifazi.
Questo reperto cela al suo interno un ecatombe di Formiche. Ambra dominicana proveniente dalla collezione privata di Andrea Bonifazi.

La guerra è una strategia collaudata da milioni di anni, non abbiamo inventato nulla di nuovo, solo i mezzi con cui combatterla. “La guerra c’è sempre stata. Prima che nascesse l’uomo, la guerra lo aspettava. Il mestiere per eccellenza attendeva il suo professionista per eccellenza. Così era e così sarà”, diceva lo scrittore Cormac McCarthy. In Natura la guerra è riscontrabile in qualsiasi Regno…ed è sempre senza esclusione di colpi. Anche le piante combattono quotidianamente, sebbene non usino cannoni e bombe, ma resina, spine e sostanze tossiche.
Ma è anche grazie a una guerra che è possibile ottenere l’immortalità. Proprio grazie a questo “mors tua vita mea vegetale” oggi possiamo ammirare il reperto fossile probabilmente più incredibile e spettacolare, quantomeno per lo stato di conservazione delle inclusioni che cela al suo interno: l’ambra. Foglie, fiori, frutti, funghi, Insetti, Aracnidi, Crostacei, addirittura Rettili e Anfibi, nulla era immune da queste inesorabili colate di resina che potevano trascinare con sé anche animali intenti a recitare scene di vita quotidiana come accoppiamenti, predazioni, deposizione delle uova, immortalandoli per l’eternità.

Ditteri in accoppiamento: l'eternizzazione di un atto incompiuto. Ambra baltica proveniente dalla collezione privata di Andrea Bonifazi.
Ditteri in accoppiamento: l’eternizzazione di un atto incompiuto. Ambra baltica proveniente dalla collezione privata di Andrea Bonifazi.

Oltre alla sua inopinabile bellezza e al suo indiscutibile fascino, enorme è anche la valenza scientifica dell’ambra, essendo il suo studio decisamente trasversale ed interdisciplinare: possono infatti orbitare attorno ad essa Paleontologia, Botanica, Entomologia, Mineralogia, Geologia…addirittura Archeologia!

Un duplice viaggio nel tempo: una colata di resina più antica conservata all'interno di una più recente. Ambra dominicana proveniente dalla collezione privata di Andrea Bonifazi.
Un duplice viaggio nel tempo: una colata di resina più antica conservata all’interno di una più recente. Ambra dominicana proveniente dalla collezione privata di Andrea Bonifazi.

Ma esattamente cos’è l’ambra?
Si tratta di una pietra di natura organica, composta principalmente da Carbonio, Ossigeno e Idrogeno e, secondariamente, da alcune impurità, originata di colate di resina fossilizzatesi nel corso di milioni di anni in seguito a processi di polimerizzazione. Tipicamente presenta una colorazione giallo-arancione, appunto il classico color ambra, ma le tonalità cromatiche in cui possiamo ammirarla sono molteplici, dal rosso scuro al bianco opaco, passando per il marrone, il verde, il nero e il blu. Il colore è generalmente relazionato alle inclusioni presenti al suo interno: la parziale decomposizione di un organismo animale o vegetale può infatti opacizzare la gemma, mentre inclusioni terrigene possono notevolmente scurirla, ma può dipendere anche da fattori esterni.

Non importa se sei preda o predatore: l'ambra non perdona. In questi due reperti un Ragno Salticide e una ragnatela. Ambre baltiche proveniente dalla collezione privata di Andrea Bonifazi.
Non importa se sei preda o predatore: l’ambra non perdona. In questi due reperti un Ragno Salticide e una ragnatela.
Ambre baltiche provenienti dalla collezione privata di Andrea Bonifazi.

La classificazione su base cromatica è immediata, ma non sempre accurata in quanto colorazioni simili possono essere rilevate in giacimenti molto distanti tra loro. Più precisa è la suddivisione su base cronologica e geografica, quest’ultimo aspetto ampiamente indagato attraverso la Paleobotanica.
L’incredibile fascino di questo reperto risiede nel fatto che può essere utilizzato come un orologio fermo da milioni di anni che ci permette di fare un repentino salto indietro nel tempo: le prime ambre di cui si ha notizia derivano da colate risalenti al Carbonifero, quindi di oltre 300 milioni di anni fa, molto prima della comparsa dei Dinosauri, ma si tratta di gemme prive di inclusioni animali. Queste si trovano principalmente in antichi giacimenti inglesi, francesi e nordamericani. Sempre risalenti al Paleozoico, ma più recenti (sembra quasi un eufemismo, considerandone l’età) sono le ambre del Permiano, di oltre 200 milioni di anni, presenti in giacimenti italiani e russi; le prime inclusioni compaiono proprio nelle pietre di questo periodo. Nel Mesozoico, Era della durata di circa 200 milioni di anni in cui prima compaiono, poi si estinguono i Dinosauri, abbiamo isolati giacimenti triassici e cretacici, mentre pressoché inesistente è l’ambra giurassica. Nel Cenozoico l’ambra diventa molto più comune: risale infatti all’Eocene (circa 30-40 milioni di anni fa) la celebre ambra baltica, di origine nordeuropea, mentre è oligocenica e miocenica (una ventina di milioni di anni fa) quella dominicana, con giacimenti centroamericani.

Meno frequenti sono i Crostacei conservati in ambra, rappresentati quasi esclusivamente da Isopodi. Ambra baltica proveniente dalla collezione privata di Andrea Bonifazi.
Meno frequenti sono i Crostacei conservati in ambra, rappresentati quasi esclusivamente da Isopodi. Ambra baltica proveniente dalla collezione privata di Andrea Bonifazi.

Ricordate la miniera Mano de Dios in Repubblica Dominicana da cui veniva estratta la celebre ambra con la Zanzara di Jurassic Park? Quello è un tipico giacimento miocenico del Centro America. Un’ambra miocenica che ha dato origine a un parco abitato da specie mesozoiche. Non notate alcuna incongruenza temporale in questa affermazione? Come già detto, il Giurassico è infatti un periodo pressoché privo di ambra: un errore non da poco per un capolavoro del genere! “Benvenuti…al Miocenic Park!” sarebbe stato più appropriato, ma probabilmente l’appeal sarebbe stato inferiore.
A seconda dell’area di rinvenimento e dei processi di formazione, l’ambra può assumere anche differente denominazione: tra i nomi più celebri con cui è rinominata vi è la burmite, ambra asiatica i cui giacimenti sorgono in quella che era la Birmania, la simetite siciliana, rinvenuta alla foce del Fiume Simeto, e la succinite baltica, comune lungo le coste del freddo Mar Baltico. Quest’ultima presenta ancora un alone di mistero riguardo la pianta che l’ha originata: secondo alcuni autori proviene da colate di resina del estinto Pinus succinifera, secondo altri da antiche Auracariacee.
Una peculiarità dell’ambra baltica, tanto da permetterne un immediato riconoscimento, è la costante presenza dei cosiddetti “peli stellati”(“stellate hairs” in lingua inglese): si tratta di tricomi, microscopiche inclusioni vegetali morfologicamente simili a “piccoli asterischi” provenienti da antichissime Querce, trasportati dal vento e spesso intrappolati dalle colate di resina di questi alberi.
Senza bisogno di interpellare la Dottoressa Ellie Sattler, è invece certa l’origine della non meno rinomata ambra dominicana: la resina era prodotta da Hymenaea protera, una Leguminosa estinta.

Petalo della Leguminosa Hymenaea protera. Ambra dominicana proveniente dalla collezione privata di Andrea Bonifazi.
Petalo della Leguminosa Hymenaea protera. Ambra dominicana proveniente dalla collezione privata di Andrea Bonifazi.

Oltre a queste “ambre D.O.C.G.”, in molte fiere, ma anche in negozi specializzati, è possibile imbattersi nelle fantomatiche “ambre della Colombia” e “ambre del Madagascar”. Cosa c’è di strano? In quelle zone non sono presenti giacimenti di ambra! Si tratta infatti del molto più giovane copale, un reperto che generalmente ha pochi secoli, se non decenni…praticamente ieri, geologicamente parlando. Sebbene sia oggettivamente affascinante in quanto ricco di inclusioni anche di notevoli dimensioni, il copale non ha completato i processi di fossilizzazione, quindi ancora non ha nulla a che fare con l’ambra, che deve avere almeno 5 milioni di anni per essere considerata tale.

I celebri "stellate hairs", inclusioni vegetali che permettono di riconoscere un'ambra vera da una artificiale con una buona sicurezza. Ambra baltica proveniente dalla collezione privata di Andrea Bonifazi.
I celebri “stellate hairs”, inclusioni vegetali che permettono di riconoscere un’ambra vera da una artificiale con una buona sicurezza. Ambra baltica proveniente dalla collezione privata di Andrea Bonifazi.

Non c’è bisogno dei soldi di John Hammond, della lungimiranza di Ian Malcolm o del coraggio di Alan Grant per farsi ammaliare dal fascino dell’ambra: basta avere una lente d’ingrandimento per fare un viaggio di milioni di anni e riscoprire un ecosistema concentrato e riassunto in una piccola pietra arancione.

Andrea Bonifazi

Bibliografia

Trevisani E. ed. (2007). Ambra. Il fascino di una gemma tra mito, scienza e vanità. Minerva Edizioni: 126 pp.

www.amberfossilshop.com di Giovanni Luca Cattaneo

Polpo vs. Polipo: come una vocale può cambiare un’esistenza

Una vocale, una singola lettera in più o in meno che per molti è considerata un accessorio di dubbia utilità.
“Polpo…polipo…ma che vuoi che cambi?? È sempre la stessa roba! ”
Facciamo un esempio analogo: se il film “Kramer vs. Kramer” si fosse chiamato “Kramer vs. Kriamer” la trama sarebbe stata ben differente, non credete?
Bene, parimenti considerate il copione zoologico di quel colossal che è la Natura: una vocale ne cambia totalmente la trama…anzi, in questo caso ne cambia proprio il phylum!
Curiosamente l’etimologia delle due parole è la stessa: entrambe derivano dal latino pōlypus, parola a sua volta proveniente dal greco antico polypous che significa “molti piedi”, con chiaro riferimento alle braccia e ai tentacoli di questi invertebrati. Sebbene la parola “polipo” sia rimasta pressoché invariata, il termine “polpo” è frutto di un’ulteriore modifica grammaticale: deriva dal tardo latino pŭlpus, con evidentemente accostamento semantico a “pulpa“, cioè “polpa”, ossia carne magra e senza osso. Una più scientifica etimologia di stampo zoologico che, nel corso dei secoli, è stata soppiantata da…un’insalata di Polpo!

Un esemplare di Octopus vulgaris ("Polpo comune") tra le alghe (Ph. Albert Kok)
Un esemplare di Octopus vulgaris (“Polpo comune”) tra le alghe (Ph. Albert Kok)

Il Polpo (talvolta chiamato anche “Piovra” quando si tratta di esemplari particolarmente grandi) è un Mollusco Cefalopode appartenente all’ordine Octopoda (“otto piedi”), un simpatico ed intelligente invertebrato con due grossi occhi molto sviluppati, una bocca rigida che ricorda il becco di un Pappagallo e 8 braccia dotate di una o più file di ventose,.
Sì, ho oculatamente scritto braccia e non tentacoli in quanto, da un punto di vista zoologico, anche in questo caso c’è una sostanziale differenza.
Quale migliore occasione per sfatare anche tale naturalistico luogo comune se non questo articolo?
Le braccia hanno prevalentemente funzione prensile e deambulatoria e sono dotate di file di ventose che si estendono per tutta la loro lunghezza. Nei maschi un particolare braccio, detto ectocotile, può essere implicato nella copula, essendo utilizzato per depositare la spermatofora nelle vicinanze degli organi riproduttivi femminili.
I tentacoli sono in genere più lunghi della braccia, hanno funzione sia tattilo-sensoriale che prensile, e sono dotati di ventose solo alla loro estremità terminale, che può essere più o meno allargata. Possono essere estesi fino a due volte la lunghezza complessiva dell’animale, venendo poi ritratti in apposite tasche.
Il Polpo è quindi privo di tentacoli, mentre Seppie e Calamari sono dotati di 8 braccia e 2 tentacoli e per questo motivo rientrano nel superordine dei Decapodiformes (appunto dotati di “dieci piedi”).

Corallium rubrum ("Corallo rosso") con i polipi estroflessi (Ph. Parent Géry)
Corallium rubrum (“Corallo rosso”) con i polipi estroflessi (Ph. Parent Géry)

E il polipo chi è?
Vengono definite polipi quelle forme in cui si presentano gli Cnidari (anemoni, attinie, coralli, madrepore…) sia durante temporanei stadi del loro ciclo vitale in alcune specie (appunto “forma polipoide”), sia da adulti in altri taxa: il celebre “Anemone di Nemo” è un polipo!
I polipi possono essere solitari come le attinie o coloniali come i coralli e sono quasi sempre sessili, quindi ancorati al substrato, tranne che nei casi delle planctoniche colonie galleggianti di alcuni Idrozoi come la piccola e indaco Velella velella (“Barchetta di San Pietro”) o la più grossa e talvolta letale Physalia physalis (“Caravella portoghese”).
Come molti Cefalopodi, anche i polipi degli Cnidari sono dotati di tentacoli: questi, lisci o pennati a seconda del taxon, circondano la cavità orale e hanno funzione essenzialmente prensile e predatoria.
Morfologicamente simili ai polipi degli Cnidari sono i polipidi dei Briozoi.

Anemonia sulcata, un polipo che in Mediterraneo viene anche mangiato (Ph. Andrea Bonifazi)
Anemonia sulcata, un polipo che in Mediterraneo viene anche mangiato (Ph. Andrea Bonifazi)

Siete ancora sicuri di voler ordinare al ristorante una ricca insalata di polipo?
Beh, se vi trovate in alcune regioni d’Italia potete tranquillamente ordinare polipo senza incorrere in errori e incomprensioni zoologiche: celebri e ricercate sono le orziadas sarde, frittelle ottenute impanando l’anemone Anemonia sulcata, specie che viene mangiata anche in Sicilia (ogghiu a mari, una specialità catanese) e nell’Isola d’Elba (ògliera).

Nomina si nescis, perit et cognitio rerum” (“Se non conosci il nome, muore anche la conoscenza delle cose”) diceva il buon Linneo, un aforisma che potrebbe tornare utile tanto durante una dotta disquisizione zoologica…quanto davanti il menù di un ristorante!

Andrea Bonifazi

Bibliografia

Ruppert E.E., Barnes R.D., Fox R.S. (2006). Zoologia degli Invertebrati. Nuova edizione italiana tradotta sulla VII edizione americana. Piccin: 1120 pp.

E’ bello vivere in “castelli di sabbia”: il Polichete Sabellaria alveolata

Ah che bella la vita del biocostruttore: puoi costruire come, quanto e dove vuoi senza essere accusato di abusivismo edilizio, non devi rispettare alcuna legge, non servono appalti, se lo fai in una riserva protetta è anche meglio e sei tutelato. Certo, se poi non ci fosse l’essere umano a distruggere ciò che erigi faticosamente sarebbe ancora meglio…
Ma cos’è esattamente un biocostruttore? Si tratta essenzialmente di un organismo marino, animale o vegetale, in grado di incrementare l’eterogeneità e il volume di un substrato edificando strutture scheletriche, di sostegno e/o di riparo.
Sono biocostruttori i coralli, le alghe, molti Molluschi e…alcuni vermi!
Tra questi ultimi svolge un ruolo fondamentale lungo le nostre coste l’Anellide Polichete Sabellaria alveolata, un verme lungo pochi centimetri, ma in grado di edificare strutture che si estendono per centinaia di metri!

Dettaglio di un reef a Sabellaria alveolata durante la bassa marea (Ph. Jonathan Wilkins)
Dettaglio di un reef a Sabellaria alveolata durante la bassa marea (Ph. Jonathan Wilkins)

Un vermetto che a molti può sembrare insignificante: piccolino, di un colore rosa pallido, senza tentacoli o ciuffi branchiali appariscenti e variopinti, sempre rintanato nella rigida celletta che costruisce faticosamente, oggettivamente bruttino. Eppure grazie a delle secrezioni ghiandolari è in grado di agglutinare i granelli di sabbia che si trovano nelle sue vicinanze, edificando tubicini lunghi una quindicina di centimetri dotati di un’apertura apicale da cui fuoriesce la sua bocca circondata da rigide setole con cui filtra l’acqua per cercare nutrimento.
Tutto qui?” direte voi. No, c’è ben altro: è un verme che, volendogli dare un’accezione politica, potrebbe essere definito “socialconservatore”. Infatti il suo punto di forza è il gregarismo: migliaia di individui concentrati per metro quadro portano alla formazione di mammelloni sabbiosi che ricordano delle arenarie poco compattate e bucherellate, morfologicamente simili a un alveare. Non a caso in lingua anglosassone questo Polichete è chiamato “Honeycomb Worm”, ovvero “Verme nido d’Ape”. Se le condizioni sono favorevoli, le biocostruzioni assumono la morfologia di cordoni che possono estendersi per centinaia e centinaia di metri parallelamente a costa!
Ma non è facile convivere con lui: essendo molto geloso degli spazi che è riuscito a conquistare, se qualche altra specie sessile prova a insediarsi nelle sue vicinanze il vermetto conservatore prova a scacciarla o addirittura a cibarsene, se questa è ancora allo stadio larvale!
Un verme che vive da socialista e ragiona da conservatore, mantenendo così un equilibrio dinamico per lui vitale.

Un individuo di S. alveolata parzialmente fuoriuscito dal suo tubo.
Un individuo di S. alveolata parzialmente fuoriuscito dal suo tubo (Ph. nature22.com)

La struttura che edifica non ha certamente la bellezza, i colori e soprattutto l’appeal di una barriera corallina, ma non è ecologicamente meno importante di un reef tropicale. Anzi, è una delle biocostruzioni più importanti e più sottovalutate presenti in Mediterraneo: sviluppandosi nell’infralitorale superiore, quindi nei primi metri d’acqua, spesso rimanendo addirittura emersa durante la bassa marea, può fungere da vera e propria barriera in grado di ammortizzare il moto ondoso e di limitare l’erosione della spiaggia, agendo essenzialmente come quelle sgradevoli e costose strutture artificiali posizionate a difesa della costa, spesso con risultati scadenti.
Inoltre il reef a Sabellaria, fungendo da substrato duro secondario, costituisce un vero e proprio hot spot di biodiversità: anche se, come già detto, l’insediamento di organismi sessili è limitato, le specie vagili abbondano e proliferano. Anfipodi, Isopodi, Decapodi, Gasteropodi, Bivalvi, altri Policheti, Echinodermi, Nemertini, tutti invertebrati che sfruttano a loro uso e consumo gli anfratti che regala loro questa complessa biocostruzione.

Tipica biocostruzione mammellonare (Ph. Daniele Ventura).
Tipica biocostruzione mammellonare (Ph. Daniele Ventura)

Nonostante la sua importanza ecologica e la sua indiretta utilità per l’essere umano, Sabellaria nel Mar Mediterraneo non gode di misure di protezione, anzi, spesso è percepita come un fastidio. Non è raro scorgere gente che ci cammina sopra, bambini che la rompono per mero divertimento, pescatori che la disgregano per cercare comode esche a costo zero, scambiandola per la più gustosa “Tremolina”, cioè il Polichete Serpulide Ficopomatus enigmaticus.
Il verme calpestato si rattrappisce. E questo è intelligente. Diminuisce infatti le probabilità di venir calpestato un’altra volta” diceva Friedrich Nietzsche. Un ragionamento che in linea teorica è corretto, ma non applicabile in toto a Sabellaria in quanto il calpestio può esserle fatale, danneggiando gravemente la biocostruzione, sebbene abbia una notevole resilienza.

Leggi ad hoc sono invece state promulgate fuori dal Mediterraneo: a Mont Saint-Michel, sulle coste atlantiche della Francia normanna, Sabellaria alveolata si estende per oltre 255 ettari, la più ampia biocostruzione europea, paradossalmente quasi sconosciuta al grande pubblico. Immaginate 255 campi di calcio e riempiteli di vermi e sabbia: avrete il paesaggio che può essere ammirato in quel tratto di costa francese. A questa ambientazione quasi surreale (soggettivamente sgradevole, per qualcuno) bisogna aggiungere un’escursione di marea che può arrivare a 14 metri: se siete abituati alle coste italiane, diventa difficile anche solo immaginare una situazione simile! Proteggere questi simpatici vermetti normanni è stato quasi un atto dovuto.

Vista dall'alto di Mont Saint-Michel e dettaglio dell'enorme biocostruzione che la caratterizza (Ph. doris.ffessm.fr - Dominique Reneric)
Vista dall’alto di Mont Saint-Michel e dettaglio dell’enorme biocostruzione che la caratterizza (Ph. doris.ffessm.fr – Dominique Reneric)

Un piccolo e setoloso vermetto rosa che ci aiuta a proteggere la costa, che incrementa la biodiversità delle nostre coste e che filtra continuamente l’acqua in cui ci facciamo il bagno. Ma si sa, “non è un mondo per vermi” e se fosse stato un cagnolino dagli occhi dolci avrebbe fatto indubbiamente più breccia nel cuore della gente comune.
Ma una cosa è certa: la prossima volta che insultate qualcuno definendolo “verme”, pensate che questo appellativo potrebbe anche essere considerato un gradevole complimento!

Andrea Bonifazi

Bilbiografia

Bonifazi A., Ventura D., Gravina M.F. (2015). Sabellaria from larvae to reef: growth, ecological role and habitat mapping. Atti S.It.E. – A.I.O.L., Abstract Book.

Dubois S., Retiere C. & Olivier F. (2002). Biodiversity associated with Sabellaria alveolata (L.) (Polychaeta: Sabellariidae) reefs. Effects of the human disturbance. Journal of the Marine Biological Association of the United Kingdom, 51, 817–826.

La Porta B., Nicoletti L. (2009). Sabellaria alveolata (Linnaeus) reefs in the central Tyrrhenian Sea (Italy) and associated polychaete fauna. Zoosymposia, 2: 527-536.

Lezzi M., Cardone F., Mikac B., Giangrande A. (2015). Variation and ontogenetic changes of opercular paleae in a population of Sabellaria spinulosa (Polychaeta: Sabellaridae) from the South Adriatic Sea, with remarks on larval development. Scientia Marina, 79 (1): 137-150.

Le egagropile: perché anche il dio Poseidone gioca a biglie

Palline pelose. Palline pelose ovunque.
Questo è lo spettacolo che spesso si staglia dinanzi a noi in spiaggia dopo una mareggiata. C’è chi ci gioca, c’è chi le ignora, c’è chi le considera un fastidio, c’è chi le osserva incuriosito…ma in quanti sanno di cosa si tratta realmente?

Nonostante i variopinti ed eterogenei nomi comuni con cui vengono frequentemente chiamate, da “polpette di mare” a “patate di mare”, possano far apparire quasi ridondante il più complesso nome scientifico, la loro corretta dicitura è “egagropile”.
D’altronde anche questo nome non è meno fantasioso di quelli utilizzati dal “grande pubblico”: deriva dal greco αἴγαγρος, “capra selvatica”, e πῖλος, “peli ammassati”…il motivo è abbastanza intuitivo, basta averne vista e maneggiata almeno una.

Egagropila spiaggiata (Ph. Andrea Bonifazi)
Egagropila spiaggiata (Ph. Andrea Bonifazi)

Questa simpatiche palline hanno un’origine vegetale, trattandosi di fibre di Posidonia oceanica, pianta marina dalle lunghe foglie endemica del Mar Mediterraneo, caratteristica del piano infralitorale.
Sì, si tratta proprio di una pianta, non di un’alga, come è consuetudine pensare: come le sue cugine terrestri, può riprodursi tramite fiori e frutti (questi ultimi simili a olive galleggianti), sebbene sia più frequente ed energicamente più conveniente una riproduzione vegetativa.
Alla base della formazione delle egagropile c’è una notevole complessità di processi fisici e biologici.
Infatti Ecologia Marina, Botanica, Zoologia Marina, Oceanografia Fisica e Geomorfologia sono solo alcune delle discipline scientifiche che possono essere implicate nella loro analisi, ma servirebbe quasi un intero corso di studi per poter comprendere adeguatamente cause e conseguenze della loro presenza sulla battigia.

Prateria di Posidonia oceanica (Ph. Alberto Romeo)
Prateria di Posidonia oceanica (Ph. Alberto Romeo)

I processi di formazione implicano necessariamente una serie di condizioni favorevoli: la prima è che, ovviamente, sia presente nelle vicinanze della costa una prateria di Posidonia. Crescendo, tale fanerogama perde le foglie, come la stragrande maggioranza delle piante, e il rizoma ne accumula i residui fibrosi. Questi ultimi, fragili e induriti, vengono erosi dalle correnti marine, che letteralmente li strappano dal fusto, sfibrandoli. Prese in carico dalle correnti e dall’eventuale risacca, dipendente anche dalla morfologia della spiaggia, le fibre vegetali vengono letteralmente appallottolate in un processo continuo: più c’è risacca, più aumentano di dimensioni (in taluni casi assumono anche morfologie più strane e allungate, quasi fusiformi).
Insomma, dei piccoli e naturalissimi gomitoli vegetali.

Accumuli di egagropile in spiaggia (Ph. Patrice78500)
Accumuli di egagropile in spiaggia (Ph. Patrice78500)

Molto spesso le troviamo in grandi quantitativi sulla spiaggia dopo una mareggiata in quanto l’elevato idrodinamismo ne velocizza il processo di formazione. Bisogna aggiungere che, seccandosi, diventano quasi impermeabili, quindi molto leggere, tanto da poter galleggiare per diverso tempo, venendo trasportate lontano dalla prateria di origine. Inoltre, accumulando anche un certo quantitativo di materia organica al loro interno, spesso sono “abitate” da piccoli invertebrati, come Isopodi, Anfipodi o Policheti.

Per rendere più intuitivo ed empirico questo trasversale processo, immaginate di strappare della fibra vegetale dal fusto di una palma e di arrotolarla con entrambe le mani: il risultato finale, dopo un po’ di tempo, sarà essenzialmente simile a quello che quotidianamente genera le egagropile.

Rizoma di Posidonia oceanica spiaggiato e le sue caratteristiche fibre vegetali (Ph. Tigerente)
Rizoma di Posidonia oceanica spiaggiato e le sue caratteristiche fibre vegetali (Ph. Tigerente)

Una serie di processi naturali, complessi e affascinanti, concorrono quindi alla loro formazione, permettendoci conseguentemente di ricostruire anche le condizioni idrodinamiche a cui è sottoposta una spiaggia e di dedurne la morfologia del fondale. Rappresentano un involontario emblema di come sia fondamentale saper “leggere” intuitivamente la Natura per poterne comprendere anche i più complicati processi.
Un sorta di piccolo laboratorio di Ecologia Marina concentrato in…una palla pelosa!

È bene aggiungere che spesso è possibile osservare in spiaggia anche grossi quantitativi di foglie e rizomi di Posidonia: questi spessi letti vegetali prendono il nome di banquettes e sono importanti da un punto di vista ecologico in quanto sono in grado di sostenere delle vere e proprie comunità costituite perlopiù da piccoli invertebrati marini e terrestri. Quello che spesso viene considerato “degrado” e “sporcizia” è in realtà basilare per la sopravvivenza di moltissime specie, a dimostrazione di come ciò che viene malamente interpretato da un punto di vista antropocentrico sia in realtà importantissimo se considerato in maniera più olistica.

Accumuli di foglie di Posidonia che originano le tipiche banquettes (Ph. Gerard Giraud)
Accumuli di foglie di Posidonia che originano le tipiche banquettes (Ph. Gerard Giraud)

Posidonia oceanica, una pianta che solo nel Mediterraneo abbiamo l’onore di poter ammirare, tanto fondamentale quando è in vita, quanto lo è quando è morta.
Un continuo cerchio della Vita che può essere emblematicamente rappresentato dalle nostre care e sferiche egagropile.

Andrea Bonifazi

Bibliografia

Kumar A. (2014). Origin and distribution of “Beach Balls” (Egagropili) of Brega, Libya, “Kedron Balls” of New Brunswick, Canada, and Carboniferous “Coal Balls”. Earth Science India, 7 (3): 1-12.

Suaria G., Aliani S. (2014). Floating debris in the Mediterranean Sea. Marine Pollution Bulletin, 86 (1-2): 494-504.