Ci liberermo dal lavoro grazie al costo marginale vicino allo zero

Ci liberemo sia dal lavoro che dal bisogno, grazie ad Internet e a costi di produzione sempre più bassi. Questo è ciò che ci dice il teorico sociale Jeremy Rifkin.

Ma poi che cosa faremo?

Stephen Jay Gould di un dei suoi primi libri ha detto: “un tratto abilmente costruito di propaganda anti-intellettuale mascherato da borsa di studio”.

rifkin

Negli ultimi 30 anni Jeremy Rifkin si e’ impegnato a preparare governi, corporazioni e lettori di ogni singolo giornale globalmente significativo, ad un futuro distintamente post-capitalistico.

Rifkin non è né un calcolatore, né un utopico visionario, ma occupa un posto tutto suo nel panorama futuristico, e la sua visione, ora, è sorprendentemente chiara.

Il suo libro è intitolato “La società del Costo Marginale a zero” perché?

Il costo marginale è il costo per produrre un’unità aggiuntiva di un bene, dopo l’assorbimento delle spese di produzione. IDa sempre i venditori sono alla ricerca di tecnologie che incrementano la produttività e facciano presa sui consumatori offrendo prodotti più economici.

Nessuno prima d’ora aveva però mai immaginato che i costi marginali di produzione, di distribuzione e di servizio dei beni potessero avvicinarsi allo zero, rendendo i prodotti o i servizi potenzialmente gratis e quindi oltre il mercato.

E questo è la morte del capitalismo?

Eclisse” sarebbe una parola migliore. Il capitalismo ci sarà ancora nel futuro, in una parte da giocatore robusto e potente, solo che probabilmente non sarà più dominante.

Che cosa sta guidando questo cambiamento?

E’ iniziato negli ultimi 15 anni dal momento che milioni di consumatori sono diventati quello che io chiamo “Prosumatori”, producendo e consumando e condividendo i propri beni digitali: musica, film, video, intrattenimento, blogs, conoscenza.

Questo passaggio tra consumatore e prosumatore ha devastato le industrie della musica e dei media, che viste le loro alte spese hanno molta difficoltà a competere. Per un pò gli osservatori hanno assunto che più viene offerto, e più le persone saranno interessate ad iscriversi ai servizi premium a pagamento. Questo però non è accaduto su larga scala.

In che ambiti sta prendendo più piede l’idea di “free”?

Sta incidendo sulla provigione di energia e sui beni fisici e creerà una produttivtà estrema come mai era successo prima. Ci sono più di 3 milardi di sensori in tutto il mondo, incorporati dappertutto, dai magazzini alle linee di assemblaggio fino alle TV domestiche e lavatrici, sensori che continuano a nutrire l’”internet delle cose” con i dati.

La Fairchild Industries, grande società di produzione statunitense, stima che entro il 2030 ci saranno più di 100mila miliardi (100trilioni) di sensori a livello globale. Negli anni che ci separano, l’Internet delle cose avrà evoluto 3 diverse piattaforme: una per la comunicazione, l’altra per l’energia e infine per la logistica.

Prendete quella per l’energia. Quarant’anni fa produrre 1 watt di elettricità dal sole costava 66 dollari. Ora costa 66 centesimi e il prezzo è in continuo ribasso. Il pagamento avviene solo nella prima fase, quando c’è da installare il pannello solare, la turbina eolica o la pompa geotermica, una volta che il vostro investimento è stato ammortizzato però, inizierete a produrre la vostra energia a un costo marginale vicino allo zero.

In Germania, dove lavoro con il governo, stiamo vedendo che i costi marginali vicino allo zero stanno devastando le aziende energetiche e quelle di servizi.

Solo il 7 % della nuova energia in circolazione arriva dalle grandi società energetiche, la maggior parte viene da piccoli giocatori, cooperative di consumatori, cooperative di produttori, agricoltori e persone che vivono nelle città.

Il grande business sarà capace di difendersi oppure queste tecnologie sono in qualche modo irresistibili ?

Irresistibile è proprio la parola giusta. Abbiamo sempre detto che in un economia efficiente l’ideale è vendere a margini di costo bassi, ma nè Karl Marx , nè economisti pionieri come Adam Smith hanno anticipato che il margine di costo sarebbe sceso a zero o vicino ad esso.

Quindi le persone hanno ragione a preoccuparsi di poter perdere il lavoro?

Nei prossimi 30 anni dobbiamo stendere l’infrastruttura per questi 3 tipi di Internet. Dobbiamo spingere la tecnologia di stoccaggio energetico e convertire l’elettricità mondiale e le griglie di trasmissione in un “internet dell’energia”. Ci sarà molta opportunità di lavoro nello stendere i cavi e ammodernare gli edifici, generi di lavori che i robot non sono (ancora) in grado di fare. Le industrie della logistica e del trasporto dovranno convertirsi dai motori a combustione interna a celle a combustibili e guida autonoma. Per essere chiari però, questa sarà l’ultima grande ondata di lavoro di massa.

Cosa accadrà ai lavori professionali?

La trasformazione verso fabbriche senza operai iniziò nel 1960 ma ci sono voluti 40 anni per implementarsi pienamente.

Si pensava che i lavoratori concettuali e intellettuali ne fossero immuni, la cosa spaventosa però è che questo tipo di lavoratori sta svanendo a un ritmo ancora più veloce di quelli delle fabbriche. Algoritmi e analitica stanno lasciando a casa avvocati, radiologi e ragioneri in tutto il mondo.

Che cosa mangeremo quindi?

Dal momento che milioni di persone inizieranno a produrre da sè la propria energia e i propri ben fisici, avranno anche bisogno di meno reddito.

La vecchia distinzione che c’era tra venditore e acquirente, proprietario o lavoratore, si spezzerà. Ci saranno ancora molti beni e servizi non free, quindi ci sarà ancora bisogno di un lavoro.

Di che lavori si avrà ancora bisogno ?

Esiste un meccanismo istituzionale che noi tutti usiamo ogni giorno per ottenere una vasta gamma di beni e servizi che non ci vengono forniti nè dai governi nè da imprese private. Gli economisti, quelle rare volte che ne parlano, lo chiamano il settore “no profit”, che è però ancora molto più grande di questo. Copre di tutto, andando dalla produzione alla condivisione di cose, all’educazione, salute, asili nidi, assistenza per gli anziani, eventi culturali, sport, arte e attività ambientali.

Si tratta di un settore enorme, anche visto che tutte queste attività generano un capitale pari a un’entrata mondiale di 2.2 trilioni di dollari. E si parla solo della parte che conosciamo e sappiamo quantificare. Negli ultimi 20 anni il settore no-profit è cresciuto più velocemente del settore privato. Più del 10 per cento della forza lavoro in UK, US e Canada opera in questo settore.

Hai detto che questo focalizzarsi sul capitale sociale cambia il nostro modo di pensare. Come?

Stiamo assistendo a un emergere di un “collaborative commons” assieme a un “social commons”. Le generazioni più giovani studiano in classi globali, socializzando con i compagni, globalmente su Facebook o spettegolando su Twitter, condividendo cose, oggetti, vestiti e più o meno tutto, in rete. Stanno iniziando a generare e condividere elettricità verde sul “internet dell’energia”, e condividono macchine, bici e trasporto pubblico sulla piattaforma in evoluzione del “internet della logistica”. In questo processo si inizia a passare da una fedeltà incrollabile alla crescita materiale illimitata e senza freno a un impegno per uno sviluppo economico sostenibile.

Che cosa c’è in serbo per noi nel futuro come individui ?

La nuova economia emergente ci offre potenzialità più grandi per un un’auto-sviluppo e promette ricopense più intense dell’occupazione tradizionale. Dal momento che la tecnologia intelligente farà la maggior parte del duro lavoro e di sollevamento, in una economia centrata sull’abbondanza sostenibile piuttosto che sulla scarsità, da qui a mezzo secolo i nostri pro nipoti potranno guardarsi indietro e vedere l’occupazione del mercato di massa con la stessa miscredenza con cui noi guardiamo lo schiavismo o la servitù della gleba. L’idea che il valore di un essere umano fosse misurato in base alla sua produttività di beni, servizi o benessere materiale sembrerà primitiva o addirittura barbarica.

Che cosa potrebbe impedire questa utopia?Il cambiamento climantico, e quindi l’insicurezza alimentare, e il cyberterrorismo.

Ed è ottimista che potremmo superare questi rischi velocemente?

Sono cautamente fiducioso, ma non ingenuo. Il nostro mondo sta diventando disfunzionale, in termini dell’ambiente che abbiamo creato e delle disuguaglianze che abbiamo ideato. Se non intraprendiamo questo viaggio, quale sarebbe l’alternativa?

[1] http://www.newscientist.com/article/dn25584-lowcost-production-will-mean-the-end-of-jobs.html?full=true#.U3jHt1jJ4h1

Daniel Iversen
27 maggio 2014

La OMS lancia l’allarme: cresce in tutto il mondo la resistenza agli antibiotici

I progressi fatti in medicina nell’ultimo secolo rischiano di venire a meno per colpa di batteri e altri organismi patogeni resistenti agli antibiotici che stanno emergendo sempre più in ogni parte del mondo. Questo, in sintesi, è il messaggio dell’Organizzazione Mondiale della Sanità contenuto nel primo rapporto mondiale su questo problema, il quale si basa su dati sulla farmaco-resistenza di 114 paesi.

pneumococco

“Una era post-antibiotica non è una fantasia apocalittica, bensì una reale possibilità in un ventunesimo secolo dove infezioni comuni e lievi ferite possono tornare a uccidere”, scrive Keiji Fukuda, assisente direttore generale dell’OMS per la Health Security, in un’introduzione al rapporto. Questa crisi è il frutto di decenni di eccessivo affidamento ai farmaci e pratiche di prescrizione negligenti così come l’uso di routine di farmaci negli allevamenti di bestiame, osserva il rapporto.

La resistenza agli antibiotici sta mettendo in pericolo i pazienti sia dei paesi in sviluppo sia di quelli sviluppati, con batteri responsabili di una serie di pericolose infezioni che stanno evolvendo resistenza a farmaci che anni prima erano efficaci.

La gonorrea per esempio, una volta trattata con successo tramite gli antibiotici, è ritornata ad essere una grande minaccia per la salute pubblica con la comparsa di nuovi ceppi resistenti. Medicinali che una volta erano l’ultima risorsa per il trattamento di questa malattia sessualmente trasmissibile, che può causare infertilità, cecità e aumentare la trasmissione dell’HIV se non trattata, sono ora diventati di prima linea per la sua cura e talvolta sono inefficaci in paesi come UK, Canada, Australia, Francia, Giappones, Norvegia, Sud Africa, Slovenia e Svezia.

In alcuni paesi, i medicinali per curare Klebsiella pneumoniae, un batterio intestinale piuttosto comune che può causare infezioni a rischio di vita per pazienti in cura intensiva o neonati, non stanno più funzionando in più della metà degli individui.

Anche il fluoroquinolone, medicinale usato per curare infezioni al tratto urinario,  ha smesso di essere efficiente in più di metà dei pazienti in tante parti nel mondo.

Gli sforzi per limitare la diffusione della tubercolosi multi-resistente, della malaria e dell’HIV sono tutti sotto minaccia a causa della crescente resistenza batterica.

Anche se lo sviluppo di resistenze è noto da tempo, l’abuso dei farmaci ha accelerato il processo favorendo una pressione selettiva, spiega il rapporto dell’OMS, scritto da una team esteso di ricercatori.

Attualmente esistono pochi medicinali che possono sostituire quelli ora diventati inefficienti: secondo il rapporto, l’ultima scoperta di una nuova classe di farmaci antibatterici è stata 27 anni fa.

La OMS avverte che questa situazione potrebbe avere effetti radicali sulla medicina globale, sull’economia e sulla società. Questo a meno che non vengano prese rapidamente delle azioni globali. Carenza di antibiotici significa che i pazienti richiederanno cure più intensive, avranno bisogno di ricoveri più lunghi e moriranno in numero maggiore.

Per affrontare il problema il report richiede che ci siano delle azioni globali e coordinate sulla stessa scala di quelle adottate per far fronte ai cambiamenti climatici.

Il rapporto inoltre raccomanda un approccio su più fronti. In molti casi, fa notare la OMS, è già possibile usare test diagnostici per aiutare ad identificare i batteri di una infezione, permettendo così ai medici di selezionare medicinali e trattamenti meglio mirati, invece di ricorrere a farmaci ad ampio spettro che aggravano la resistenza ai farmaci.

Il problema di questi test tuttavia è che richiedono un pò di tempo per funzionare e quindi chi prescrive i medicinali spesso vi rinuncia e migra verso farmaci ad ampio spettro. E’ cruciale quindi, secondo il rapporto, sviluppare test che siano più rapidi. L’agenzia propone anche di rinnovare il focus e i metodi standardizzati per tracciare i ceppi resistenti in tutto il mondo. Attualmente infatti non esiste un consenso globale sulla metodologia e la raccolta dei dati in questo settore.

Esistono anche soluzioni essenziali che si dovrebbero applicare giornalmente, che la comunità e i medici dovrebbero adottare, come migliorare le pratiche igieniche per gli operatori sanitari, lavarsi le mani più frequentemente e vaccinare la popolazione contro le malattie principali per ridurre il bisogno di antibiotici.

Anche i pazienti hanno un ruolo vitale e dovrebbero usare gli antibiotici solo quando gli vengono prescritti, dicei la OMS.

La valutazione presente nel rapporto ha raccolto dati di 9 batteri particolarmente problematici da 114 paesi che tracciano dati di almeno uno di questi microrganismi e gli antibiotici usati per trattarli.

Anche se limitato da alcune lacune nei dati significative, il report ha fatto notare che nel caso di molti di questi batteri, il livello di resistenza ai medicinali di prima linea ha raggiunto il 50 per cento o più, in almeno metà dei paesi analizzati. Come risultato gli operatori sanitari devono spesso affidarsi a medicinali di ultima istanza.

“E’ di una portata terrificante. Questo è un problema di salute pubblica molto grande, che sta a malapena iniziando a bollire in superficie”, dice Brad Spellberg, professore associato di medicina alla Los Angeles Biomedical Research Institute alla Harbor-U.C.L.A. Medical Center.

Mentre aumenta l’uso dei medicinali di ultima istanza, aumenta anche la resistenza a questi ultimi, aggravando il problema. Con meno opzioni in medicinali, spiega la OMS, i pazienti che vivono in povertà o che non hanno assicurazione sanitaria non hanno nessuno a cui rivolgersi per trattamenti efficaci.

“Lo stiamo già vedendo” dice Stuart Levy, direttore del Center for Adaptation Genetics and Drug Resistance allaTufts University School of Medicine, il quale ha assistito il rapporto OMS. “In Uganda, nell’ambito delle malattie respiratorie, abbiamo avuto a che fare con un pneumococco resistente a un multifarmaco. Si è poi scelto un trattamento con un farmaco consigliato, il batterio però era già resistente al 90%.” In un contesto di questo genere, i farmaci alternativi non erano facilmente disponibili.”

Daniel Iversen

È ora possibile tracciare il Paese di provenienza dei vostri antenati fino a 1000 anni fa

Un team di scienziati ha sviluppato uno strumento (GPS) che ci permette di identificare la locazione dei nostri antenati migliaia di anni fa.

Si tratta di un nuovo algoritmo capace di individuare la vostra provenienza geografica usando i bit dei vostri dati genetici, restringendo il campo fino allo Stato di appartenenza e in alcuni casi anche anche all’esatto villaggio.

Photo credit: World map with human genetic signatures overlaid / University of Sheffield
Photo credit: World map with human genetic signatures overlaid / University of Sheffield

Le informazioni genetiche sono utilissime per studiare le migrazioni umane del passato e dedurre gli spostamenti dei nostri avi: a iniziare dal primo out-of-Africa, seguito poi dal momento in cui gli umani si avventurarono per la prima volta in Asia, fino all’origine dei moderni europei.

È sempre stato limitato tuttavia usare il DNA per individuare l’esatta provenienza dei singoli individui.

Gli algoritmi biogeografici attuali permettono di individuare dove si è formato il vostro DNA con una precisione di circa  700 km che, in Europa, è una distanza troppo ampia per riuscire a focalizzarsi su uno stato ben preciso. In altri posti del mondo poi, il margine di errore è addirittura più grande.

Per sviluppare un test più preciso per l’ascendenza genetica, un team guidato da Eran Elhaik dell’Università di Sheffield, in UK, ha creato il Geographical Population Structure algorithm [1] (con appunto la sigla GPS). Si basa su una mescolanza genetica, che si verifica quando diverse popolazioni iniziano a interfecondarsi per creare nuovi pool genetici che rappresenteranno poi una miscela dei pool dei fondatori; la miscela di tratti che ne risulta può essere utilizzata per misurare la distanza da casa. Le mescolanze genetiche sono avvenute spesso, generalmente quando qualcuno si muoveva in un posto nuovo iniziando ad accoppiarsi con i locali. Ciò accadde per esempio durante le invasioni vichinghe in Britannia ed Europa nel XI secolo: alcuni si mescolarono con i locali formando un nuovo pool genetico Vichingo-Anglosassone, ma alcuni si sposarono con altri Vichinghi mantenendo il loro pool genetico originale, e permettendo al GPS di tracciare le loro origini scandinave.

“Quello che abbiamo scoperto modellando questi processi di mescolanza”, spiega Elhaik in un comunicato stampa [2] “non è un modo per scoprire dove si è nati, visto che questa informazione c’è già sul vostro passaporto, ma dove si è formato il vostro DNA andando a ritroso fino a 1000 anni fa“.

Questa nuova tecnica ha avuto successo il 98% delle volte nel localizzare popolazioni di tutto il mondo alla loro regione geografica d’origine, arrivando delle volte a definire il loro villaggio o isola di provenienza.

Il team ha sviluppato questo algoritmo di mescolanza usando informazioni genetiche e geografiche presi da 54 partecipanti al Genographic Project [3], e hanno poi testato il loro strumento GPS con 600 campioni genetici composti da 98 sub-popolazioni globali. Usando sequenze di DNA, il GPS riesce a piazzare in maniera accurata gli individui nel loro paese di origine l’83 % delle volte.

Quando hanno analizzato dati di 10 villaggi in Sardegna e una ventina di isole in Oceania, la squadra è stata capace di tracciare un quarto dei sardi al loro paese d’origine e la maggior parte dei rimanenti entro 50 km di distanza da essi.

Per i soggetti provenienti dall’Oceania sono riusciti a individuare la loro isola di origine il 90% delle volte.

Questo è un grande passo in avanti rispetto a prima, quando si posizionavano gli abitanti dell’Oceania in India, spiega Elhaik.

Per le persone di discendenza mista, i cui genitori hanno origine in luoghi diversi, l’algoritmo prevede l’ascendenza nel punto centrale geografico di entrambi i luoghi. Nella prossima versione dell’algoritmo, chiamato GPS2, i ricercatori mirano a predire il paese di origine di ciascun genitore.

Sapere dove si è mescolato l’ultima volta il pool genetico che creò il tuo DNA  ha enormi implicazioni per la medicina personalizzata salva-vita e nella scienza forense avanzata. Si stima che circa un milione di persone negli Stati Uniti ha il proprio DNA genotipato da aziende come 23andme e ancestry.com.

Il team ha sviluppato un sito web [4] che rende GPS accessibile al pubblico, quindi, se avete già fatto genotipizzare il vostro DNA, potete caricare i vostri risultati per trovare la vostra antica casa.

Si tratta di una grande svolta nel mondo della genomica, che permetterà forse di fare chiarezza sull’origine di popolazioni come gli Afroamericani, i Rom e gli ebrei europei.

Significa anche che non potremmo più identificare facilmente l’etnia delle persone con una  sola etichetta.  E’ impossibile per chiunque spuntare una casella su un modulo con scritto “Bianco inglese” o “african” visto che siamo dei modelli molto più complessi, con identità uniche. Non è semplicemente plausibile avere una nozione di “razze”.

Il lavoro [1] è stato pubblicato su Nature Communications.

[1] http://www.nature.com/ncomms/2014/140429/ncomms4513/full/ncomms4513.html
[2] http://www.sheffield.ac.uk/news/nr/dna-sat-nav-gps-tool-find-your-ancestors-home-1.370846
[3] https://genographic.nationalgeographic.com/
[4] http://www.prosapiagenetics.com/

Daniel Iversen
10 maggio 2014

La morte dell’individualità

L’idea che siamo individui dal pensiero libero ha plasmato la società occidentale per secoli. I dati però ci mostrano che ciò che domina realmente è il pensiero di gruppo.

Per gran parte della nostra storia ci è stato insegnato che la verità e la morale vengono da Dio e dal Re, e che il libero arbitrio è solo una questione teologica. Nel 1700 ciò ha iniziato a cambiare e si è fatta strada, nei sistemi di credenze delle alte sfere, l’idea che gli esseri umani sono individui liberi con una libertà di scelta razionale.

Nel corso del tempo i concetti di razionalità e individualità hanno profondamente modellato i governi e le culture dell’Occidente.

social

Ma fino a che punto siamo individui con libertà di pensiero ? Questa domanda è importante visto che l’economia e pure molta scienza cognitiva hanno alla loro base il concetto di un individuo indipendente. Forse è proprio questa ipotesi che ha portato alle difficoltà riscontrate in queste discipline su fenomeni come bolle finanziarie, movimenti politici, panico di massa o mode tecnologiche.

Una recente ricerca sta iniziando a scoprire il grado in cui ci comportiamo come individui indipendenti. Combinando i dati dai cellulari, dalle carte di credito, dai social media e altre fonti, possiamo osservare gli esseri umani nello stesso modo in cui i biologi osservano gli animali nel loro habitat naturale con telecamere e sonar. Studiando le persone in questo modo possiamo derivare alcune regole matematiche di comportamento, una “fisica sociale” che fornisce una conoscenza attendibile su come le informazioni e le idee scorrono da persona a persona. Questa disciplina ci mostra come il fluire delle idee modella la cultura, la produttività e la produzione creativa delle aziende, delle città e delle società.

Per sviluppare questa nuova scienza sono stati studiati dei veri e propri laboratori viventi. Distribuendo, infatti, in piccole comunità e ad ogni abitante degli smartphone con installato uno speciale software, si sono potute tracciare le interazioni sociali con i loro coetanei, sia amici che conoscenti, e allo stesso tempo fare domande sulla loro salute, opinione politica e preferenze d’acquisto. Per esempio, quando è stato esaminato l’aumento di peso, si è visto visto che le persone prendevano nuove abitudini dall’esposizione a quelle dei loro coetanei, e non solo tramite interazione con gli amici.

Ciò significa che se nell’ufficio tutti gli altri mangiano le ciambelle, anche tu probabilmente inizierai a farlo. In realtà, è emerso che questo tipo di interazione è molto più rilevante di tutti gli altri fattori combinati, il che sottolinea l’importanza dell’apprendimento sociale automatico nel plasmare le nostre vite. Abbiamo visto il ripetersi dello stesso schema per il voto e il comportamento nel consumo.

Il fattore più trainante nell’adozione di nuovi comportamenti è stato il comportamento dei coetanei. In altre parole, gli effetti di questo tipo di apprendimento sociale implicito erano all’incirca della stessa misura dell’influenza dei geni sul vostro comportamento, o del vostro QI sul vostro rendimento scolastico.

La logica dietro a tutto questo è semplice. Se qualcun altro ha già investito dello sforzo nell’ imparare un comportamento utile, è più facile copiarlo che impararlo da soli. Se per esempio dovete imparare a usare un nuovo sistema operativo, perché leggersi il manuale quando potete guardare qualcun’altro che l’ha già imparato? Le persone si affidano prevalentemente all’insegnamento sociale e per questo sono anche maggiormente efficienti.Esperimenti come questo ci mostrano che nel tempo sviluppiamo un insieme condiviso di abitudini utili a reagire e comportarci in molte situazioni diverse. Queste abitudini d’azione, in gran parte automatiche, rappresentano la stragrande maggioranza del nostro comportamento quotidiano.

Alla luce di questo dovremmo forse chiederci quanto sono importanti le scelte individuali in confronto alle abitudini condivise, visto che sembra chiaro il potere di queste ultime in opposizione al pensiero individuale. Quando studiamo come le decisioni vengono prese in piccoli gruppi vediamo che lo schema della comunicazione, cioè chi ha parlato con chi e quanto, è molto più importante delle caratteristiche degli individui singoli. Negli studi sui luoghi di lavoro, che vanno dai call centers ai gruppi accademici di ricerca su medicinali, gli schemi di comunicazione sono solitamente il fattore singolo più importante sia nella produttività che nell’output creativo. Nel nostro recente studio, su 300 città negli USA e in Europa, la differenza tra retribuzione medie diverse era dovuta quasi totalmente alle differenti forme di comunicazione. Questa differenza era molto più significativa delle difformità tra i tipi di istruzione o di classe.

Importante sottolineare che il reddito per persona cresce esponenzialmente più le persone condividono idee, quindi è la condivisione che causa la crescita, e non solo il fatto di avere il contributo di più individui.

Invece di individualità razionale la nostra società sembra governata da una intelligenza collettiva che arriva dal flusso circostante delle idee e degli esempi; impariamo dagli altri nel nostro ambiente, e gli altri imparano da noi. Quello che la fisica sociale mostra è che, mentre il flusso delle idee incorpora anche una corrente costante delle idee provenienti dall’esterno, gli individui nella comunità prendono migliori decisioni di quello che farebbero ragionando le cose loro stessi.

Non è nuova l’idea di una intelligenza collettiva che si sviluppa all’interno di comunità. Essa è incorporata anche nella lingua inglese e tedesca. Si consideri infatti la parola”kith”, conosciuta da chi parla inglese moderno, dalla frase “kith and kin” Deriva dalla parola “conoscenza”, dell’inglese e del tedesco antico, e si riferisce a un gruppo più o meno coeso con credenze e abitudini comuni. E’ anche radice per “couth” che vuol dire possedere un alto grado di sofisticazione, forse il suo opposto “uncouth” può essere piu famigliare. Cosi, il nostro “kith” è il nostro circolo di coetanei, non soltanto gli amici, dai quale impariamo i “corretti” modi di fare.

La nostra cultura, e le abitudini della nostra società sono dei contratti sociali, e entrambi dipendono in primo luogo dall’apprendimento sociale. Come risultato la maggior parte delle nostre credenze e abitudini sono state apprese osservando le abitudini, le azioni e i successi dei coetanei e dei conoscenti, più che grazie alla logica o ad una discussione. Imparare e rinforzare questo contratto sociale è ciò che permette a un gruppo di persone di coordinare in maniera efficiente le loro azioni.

Fabbrica sociale
E’ tempo di lasciarsi alle spalle la finzione dell’individuo come unità razionale, riconoscendo che la nostra razionalità è determinata in gran parte dalla fabbrica sociale che abbiamo intorno.

Invece di diventare attori nel mercato siamo collaboratori nel determinare il bene pubblico.

La nostra ricerca ha infatti dimostrato che le persone sono influenzate molto più dalle loro reti sociali che da incentivi individuali.

Per esempio, in un esperimento incentrato a promuovere una vita più sana abbiamo confrontato due diverse strategie, quella di dare del denaro ai partecipanti ogni volta che miglioravano il loro comportamento in tal senso, e di darlo invece agli amici dei partecipanti.

Abbiamo visto che dare denaro agli amici era efficace quattro volte tanto quello di darlo direttamente ai partecipanti.

Simili incentivi alla rete sociale hanno portato a risultati ancora più netti quando si trattava di incoraggiare un voto o il risparmio energetico.

Il potere della “fabbrica sociale” sulla decisione individuale è, infatti, la vera ragione per cui la privacy è così importante. Come dimostrò il lavoro di Stanley Milgram sulla conformità sociale molti anni fa, il potere dell’influenza sociale può portare le persone ad avere sia comportamenti buoni che comportamenti terribili, e può trasformarli in qualcosa a cui è davvero difficile credere.

Senza la privacy il potere che avrebbero le corporation o i governi nel manipolare i nostri comportamenti sarebbe virtualmente illimitato.

La risposta ai problemi legati a ciò è di adoperare le interfacce informatiche usate dalle banche per trasferire denaro senza rilevare informazioni non necessarie. Reti di questo tipo permettono di controllare le informazioni che ti riguardano e limitare di conseguenza la facoltà degli altri di manipolarti. Questa però è un’altra storia.

articolo ripreso da Alex ‘Sandy’ Pentland , per il suo nuovo libro “Social Physics”

Daniel Iversen
1 maggio 2014

Ridurre il pregiudizio? Provate un approccio più sottile

Un team guidato dal ricercatore UA, Jeff Stone, ha cercato di espandere ciò che si conosce nelle strategie di riduzione del pregiudizio, scoprendo che una chiave utile da utilizzare di fronte a un individuo con pregiudizi è quella di fargli delle domande retoriche e riflessive (self-affirming questions).

Provateci. La prossima volta che vi confrontate con un individuo che ha dei pregiudizi (con dei bias) e, presi dalla rabbia sentite il bisogno attaccarlo verbalmente, provate a scegliere un approccio più fine e intelligente.

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Il ricercatore Jeff Stone, della University of Arizona, ha diretto una squadra per studiare gli individui che hanno pregiudizi nei confronti degli arabo-americani.

Il gruppo ha riscontrato che le persone con forti pregiudizi possono essere più soggetti a cogliere le ingiustizie, provare empatia e senso di colpa, se prima venivano loro rivolte domande che implicavano una conferma di se stessi, invece di scegliere una strada che implicava avere una conversazione più diretta sul tema dei pregiudizi.

Quando un bersaglio si sente discriminato, l’ultima cosa che desidera la persona che ha pregiudizi nei suoi riguardi, è che stia bene con se stessa” dice Stone, professore associato di psicologia sociale presso la UA psychology department.

Fare domande retorico/riflessive non mira a far diventare più amichevole la vittima del pregiudizio agli occhi di chi è pregiudizioso, ma aiuta a entrare nel suo subconscio cercando di trovare un collegamento empatico, fornendo una nuova prospettiva prima che nasca della tensione.  Si tratta di entrare in un “piano” diverso di comunicazione, basato sull’empatia.

Lo studio è stato pubblicato iin un articolo a cura di due autori, che si intitola “Thanks for asking: Self-affirming Questions Reduce Backlash when Stigmatized Targets Confront Prejudice“, nella rivista “Journal of Experimental Social Psychology

I co-autori di Stone sono: Elizabeth Focella, studentessa di psicologia, Jessica Whitehead, laureata presso l’UA, con un dottorato in psicologia, e Toni Schmader, professore associato di psicologia presso l’Università della British Columbia, in Canada.

Per le indagini il team ha condotto due esperimenti su 170 studenti universitari, chiedendo ai partecipanti di compilare un breve questionario per sondare il loro pregiudizio verso gli arabi-americani.

E’ stato chiesto loro di guardare 3 pagine MySpace, presumibilmente creati da studenti – Jason, Chris e Ahmad – contenenti informazioni personali e domande.

Sulla pagina che nell’esperimento chiave è stata postata da “Ahmad”, ai lettori è stato chiesto di considerare le situazioni in cui siano stati equi con gli altri e le situazioni in cui siano stati trattati in maniera equa dagli altri. Dopodiché è stato domandato di considerare come ci si possa sentire nell’essere alienati in base alla razza.

Le persone con molti pregiudizi sentono che i gruppi che non gli piacciono sono semplicemente diversi; che hanno valori diversi, che sono li per rubargli le risorse e che sono una minaccia”, dice Stone, che lo segnala anche alla UA Self and Attitude Lab and the Social Psychology of Sport Lab.

Le persone pensano di saper controllare i propri bias, ma non si rendono conto fino a che punto questi fanno realmente parte di loro” spiega Stone.

Se io supporto i valori che a te sono cari, diventi più resiliente ed elastico alle minacce”

I valori sono stati ribaditi attraverso le domande che probabilmente hanno lasciato credere ai partecipanti che anche “Ahmad” ha valutato di essere trattato in modo equo.

Ciò che probabilmente accade quando gli si abbassa la minaccia è che essi credono “Non lascierò che il mio atteggiamento influenzi il modo in cui ti tratto”, dice Stone, aggiungendo star conducendo, insieme ad altri, delle ricerche per determinare se lo stesso vale anche per altre popolazioni spesso vittime di pregiudizio, incluse le donne o individui omosessuali.

In questo modo il team ha misurato quanto interesse c’era in ogni partecipante ad incontrare “Ahmad”, scoprendo che chi nel questionario era risultato come pregiudizievole verso gli arabo-americani, ora era più aperto a questa idea.

Quando si tratta di strategie di riduzione dei pregiudizi, bisogna procedere in modo che le persone non si accorgano che glielo si sta facendo fare”, dice Focella, laureata del terzo anno e che ha dato il suo contributo agli esperimenti.

Molte volte, quando affronti qualcuno sui pregiudizi, ti si ritorce contro. Non funziona proprio”, ha detto.

Precedenti ricerche hanno riportato che, persino quando individui con pregiudizi provano vergogna o senso di colpa, questi sentimenti diminuivano in una certa misura quando l’individuo si sente attaccato, con la conseguenza che queste persone si sentono alienate o diventano bersagli di una reazione negativa.

Alcune affermazioni sembrano avere molto successo, come affermare di avere un valore egualitario o di creatività”, spiega Focella, aggiungendo che devono essere condotte maggiori ricerche per capire perché ciò funziona così bene.

Ha aggiunto: “Pensiamo che sia possibile far sì che le persone non pensino solo al proprio gruppo ristretto, ma che ragionino al di fuori della loro “scatola”. Pensiamo sia una via sottile per incoraggiare le persone ad aprire la loro mente

La squadra è anche arrivata a una scoperta problematica: pur se i partecipanti hanno riportato di sentirsi a loro agio incontrando Ahmad, hanno mantenuto le loro associazioni negative verso gli arabi-americani.

Questo crea un enigma interessante, specialmente per coloro che lavorano attivamente per ridurre l’effetto dei pregiudizi.

Anche se rifiutiamo fermamente l’idea che i soggetti target siano tenuti a farsi carico di ridurre il pregiudizio verso se stessi, è importante fornire ai soggetti opzioni efficaci da utilizzare quando scelgono di affrontare i pregiudizi degli altri”, ha affermato il team nell’articolo a firma dei due studiosi.

L’indagine non mirava a capire perché gli individui ottenessero punteggi alti o bassi su una scala di misurazione del pregiudizio o nemmeno il perché si sentissero minacciati.

I risultati offrono però implicazioni importanti per le persone che lavorano per ridurre i casi di pregiudizio e discriminazione.

Devono essere fatti dei cambiamenti macrostrutturali a livello della comunità” dice Stone. “Può avvenire nelle scuole o nelle organizzazioni, il cambiamento però sarà lento”

Stone ha riferito poi che il team sta considerando di sviluppare delle strategie da usare per individui presi di mira quando vengono a contatto con persone che hanno pregiudizi.

Queste sono competenze che una persona può imparare come qualsiasi altra cosa”, dice Stone. “È questione di rafforzare le persone a combattere contro i pregiudizi e di farlo in maniera efficiente”.

[1] http://uanews.org/story/want-reduce-prejudice-try-subtlety

In arrivo le sementi open source

Sta per partire una campagna [1] portata avanti da un gruppo di scienziati e attivisti alimentari mirata a cambiare le regole che attualmente governano le sementi.

Stanno per essere rilasciate 29 nuove varietà di culture in “Open Source”, per salvaguardare la libertà di condivisione da parte dei coltivatori e degli agricoltori.

vegetable-seeds (1)

L’ispirazione viene dal software Open Source, liberamente disponibile per chiunque lo voglia utilizzare, ma non legalmente convertibile in un prodotto di proprietà.

Ad un evento al campus della Università del Wisconsin, a Madison, i sostenitori di questa iniziativa rilasceranno 29 nuove varietà di 14 diverse colture, incluse carote, cavoli, broccoli e quinoa.

Chiunque riceva queste sementi ha l’obbligo di impegnarsi a non limitarne l’uso e la distribuzione per mezzo di brevetti, licenze o qualsiasi tipo di proprietà intellettuale. Infatti, tutte le future piante che cresceranno da queste sementi open source dovranno rimanere anch’esse liberamente disponibili.

Irwin Goldman [2], coltivatore dell’Università di Wisconsin a Madison, ha contribuito a organizzare questa campagna, che è un tentativo di ripristinare la pratica di condivisione aperta che era la regola tra i coltivatori quando intraprese la professione  oltre 20 anni fa.

“Se altri agricoltori ci chiedessero il nostro materiale, manderemmo loro un pacchetto di semi, e loro farebbero lo stesso per noi,” dice. “Questo era un modo meraviglioso di lavorare, che però non si usa più.”

Oggi i semi sono una proprietà intellettuale. Alcuni sono brevettati come invenzioni. Per usarli è necessario un permesso dal detentore del brevetto ed è vietato raccogliere i semi per poi reimpiantarli l’anno successivo.

Perfino i coltivatori universitari operano a queste regole. Quando Goldwin crea una nuova varietà di cipolle, carote o di barbabietole, un reparto di trasferimento tecnologico universitario applica una licenza per le aziende sementiere.

Questo porta del denaro che aiuta a pagare il lavoro di Golman, ma a lui non piacciono le conseguenze che si hanno nel limitare l’accesso ai geni delle piante, che egli chiama germplasma.

Se non condividiamo e ci scambiamo liberamente il germplasma, allora limiteremo la nostra abilità nel migliorare il raccolto.”, dice.

Anche il sociologo Jack Kloppenburg [3], della stessa Università, ha condotto una campagna contro i brevetti sulle semenze, per 30 anni. Le sue ragioni vanno oltre quelle di Goldman.

Dice che aver trasformato i semi in proprietà privata ha contribuito all’ascesa delle grandi multinazionali delle sementi che a loro volta promuovono aziende specializzate sempre più grandi. “Il problema è la concentrazione e l’insieme ristretto di usi in cui viene usata questa tecnologia e queste coltivazioni”, dice.

Kloppenburg spiega che un obiettivo importante di questa iniziativa è semplicemente quello di far pensare le persone a come i semi vengono controllati. “C’è da aprire la mente alle gente,” dice. “E’ una specie di meme biologico, si dovrebbe dire: “Semi Liberi! Che i semi possano essere usati da chiunque!”

L’impatto pratico sugli agricoltori dell’iniziativa di semi open source potrebbe essere, però, limitato. Anche se chiunque può utilizzare tali sementi, la maggior parte delle persone probabilmente non sarà in grado di reperirli.

Le aziende che dominano nel commercio di sementi continueranno a vendere i loro ibridi e le loro varietà proprietarie: ci si fa più soldi con quei tipi di sementi.

Molti semi di verdure commerciali sono ibridi, ossia dotati di una specie di blocco di sicurezza; se si ripianta un seme di un ibrido non si otterà esattamente la stessa pianta. (e per questo motivo molte aziende non si preoccupano di brevettare i propri ibridi).

John Shoenecker, direttore della proprietà intellettuale dell’azienda di sementi HM Clause, e presidente entrante della American Seed Trade Association, dice che la sua azienda potrà evitare di usare semi Open Source per coltivare nuove varietà commerciali “perché hanno un limitato potenziale per recuperare l’investimento iniziale.”

Questo è perché le piante germogliate da semi open source dovranno essere anch’esse condivise alla stessa maniera, e ogni altra azienda di semenze potrebbe immediatamente vendere la stessa varietà.

L’iniziativa ha probabilmente un importanza maggiore per i coltivatori, specialmente nelle università. Goldman afferma di aspettarsi che molti coltivatori universitari si uniscano a questo sforzo open source.

Nel frattempo due piccole aziende sementiera la High Mowing Organic Seeds [4] in Hardwick, Vt., e la Wild Garden Seed [5] in Philomath, Ore., specializzati alla vendita di prodotti biologici, stanno aggiungendo alcuni semi open source al loro catalogo di quest’anno.

[1] http://www.news.wisc.edu/22748
[2] http://www.nutrisci.wisc.edu/facultypages/f_goldman.html
[3] http://www.drs.wisc.edu/faculty/kloppenburg/index.php
[4] http://www.highmowingseeds.com/
[5] http://www.wildgardenseed.com/

Daniel Iversen
23 aprile 2014

Lo stress altera il genoma nei bambini

Uno studio su ragazzi afro-americani ha rivelato che crescere in un ambiente sociale stressante lascia segni duraturi su giovani cromosomi.

I telomeri, ossia sequenze ripetitive di DNA atte a proteggere la fine dei cromosomi dalla degradazione progressiva del tempo, sono più corti in bambini cresciuti in case povere e instabili che in quelli provenienti da famiglie più amorevoli.

I ricercatori hanno esaminato il DNA di 40 bambini dell’età di 9 anni provenienti dalle maggiori città americane e hanno visto che i telomeri di quelli provenienti da ambienti casalinghi severi e difficili erano più corti del 19% di quelli dei bambini provenienti da famiglie più amorevoli e ambienti più stabili.

I telomeri (in rosso) proteggono le estremità dei cromosomi dal deterioramento nel tempo Pasieka/Science Photo Library
I telomeri (in rosso) proteggono le estremità dei cromosomi dal deterioramento nel tempo.
Pasieka/Science Photo Library

La lunghezza dei telomeri viene spesso considerata come un biomarcatore dello stress cronico.

Lo studio, pubblicato oggi su Proceedings of National Academy of Sciences [1] , porta i ricercatori a comprendere più da vicino come le condizioni sociali vissute nell’infanzia possano condizionare la salute a lungo termine, spiega Elissa Epel, psicologa della salute della University of California, a San Francisco, che non era però coinvolta nella ricerca.

Come parte di un’altro studio, “Fragile Families and Child Wellbeing Study”, è stato raccolto il DNA ai partecipanti, insieme ai loro dati socio-economici.

Fondato dalla US National Institutes of Health, quest’ultimo studio mira a monitorare circa 5000 bambini, la maggior parte dei quali provenienti da genitori non sposati, in grandi città americane, nel periodo dal 1998 al 2000.

L’ambiente famigliare dei bambini è stato valutato in base al livello di istruzione della madre, al rapporto tra i bisogni e il reddito famigliare, se hanno avuto una educazione severa, e se la struttura famigliare è stabile, dice l’autore Daniel Notterman, biologo molecolare alla Pennsylvania State University a Hershey.

I telomeri dei bambini con madri diplomate erano del 32% più lunghi rispetto ai bambini dove le madri non avevano finito la high school.

I bambini provenienti da famiglie stabili avevano i telomeri più lunghi del 40% rispetto ai bambini passati attraverso molti cambiamenti nella struttura famigliare, come quelli aventi genitori con partner multipli.

Collegamento genetico

Lo studio ha visto che il collegamento tra ambienti famigliari stressanti e la lunghezza dei telomeri viene moderato da varianti genetiche nelle vie che elaborano due trasmettitori chimici nel cervello: la serotonina e la dopamina. Studi precedenti avevano correlato varianti in alcuni dei geni studiati, come il gene TPH2, correlato con la depressione, disordini bipolari e altre malattie mentali. Varianti di un’altro gene invece, 5-HTT, riducono la quantità di proteine che riciclano la serotonina nelle sinapsi nervose. Si pensa che alcuni alleli di questi geni servano ad aumentare la sensibilità dei vettori di rischi esterni.

In quest’ultimo studio i ricercatori hanno visto che le varianti “sensibilizzanti” di questi geni proteggevano i telomeri nei bambini provenienti da ambienti stimolanti e affettuosi e causavano danni più grandi nei bambini provenienti da famiglie disagiate. Coloro a cui mancavano questi alleli avevano invece poca differenza nei loro telomeri, indipendentemente dalle condizioni di vita.

I bambini che però avevano più di due alleli sensibilizzanti erano influenzati in maniera forte dai loro ambienti famigliari.

Avevano i telomeri più corti in ambienti stressanti, e i telomeri più lunghi negli ambienti tranquilli. Anche se era noto che queste varianti influenzavano le risposte chimiche allo stress nel cervello, non si pensava fossero collegati anche alla lunghezza dei telomeri, spiega Notterman.

La squadra prevede di ampliare la propria analisi a circa 2500 bambini e madri per controllare se questi risultati preliminari sono attendibili. Tuttavia, poiché gli effetti dello stress sono tangibili all’età di 9 anni, Notterman suggerisce che le pratiche di intervento precoce sui bambini possa aiutarli a moderare gli effetti delle avversità sulla loro salute.

“Questo era un piccolo studio per testare una grande teoria”, dice Epel. “E’ un primo grande e importante passo per comprendere come le disparità sociali incidono sulla salute per tutta la vitacc

[1] Mitchell, C. et al. Proc. Natl. Acad. Sci. USA http://dx.doi.org/10.1073/pnas.1404293111

Daniel Iversen
19 aprile 2014