Cecità spaziale

Successivamente al rientro da lunghe missioni spaziali, molti astronauti soffrono di problemi alla vista.

Una sindrome misteriosa sta compromettendo la vista agli astronauti a bordo della stazione spaziale internazionale causando una miopia che permane per mesi, anche dopo il rientro a terra.

Il problema è così grave che due terzi degli astronauti riferisce di aver avuto disturbi alla vista dopo lunghe permanenze in orbita. Qualche passo avanti nella comprensione del problema è stato fatto e non depone a favore delle lunghe missioni, come quella prevista per arrivare su Marte.

Dorit Donoviel del National Space Biomedical Research Institute non nasconde le preoccupazioni sulla salute degli astronauti impegnati in lunghe missioni. Un adattamento alla gravità zero comporta che il sangue non debba più vincere la gravità e la conseguente mancanza di resistenza al ritorno venoso comporta un accumulo sanguigno e linfatico nel corpo grosso (busto e testa). Di conseguenza gli astronauti appaiono come affetti da idropisia con viso gonfio e congestionato.

Ma torniamo agli occhi, organi che se danneggiati azzererebbero la funzionalità di un astronauta, e alla cosiddetta sindrome da deficit visivo da pressione intracranica. L’Università di Miami ha verificato che la microgravità causa una pressione elevata nel cranio a seguito di un anomalo accumulo di liquor cerebro-spinale, responsabile a sua volta del fenomeno di appiattimento dei bulbi oculari, con infiammazione conseguente, e come esito finale l’edema e lo stiramento del nervo ottico. L’aumento di pressione interessa anche il cervello con stordimenti e senso di nausea. Il liquor cerebro-spinale è utile per ammortizzare il cervello e il midollo spinale ma nello spazio le naturali variazioni di postura,  sdraiata, seduta ed eretta non vengono lette correttamente dal nostro organismo. In sostanza gli astronauti che hanno passato molti mesi in orbita hanno una quantità di liquor cerebro-spinale più alta, edema con ipertensione delle cavità orbitali, schiacciamento e protrusione del nervo ottico, situazione davvero angosciante. Ma come mai ce se ne accorge solo ora? La risposta è molto “umana”. Molti di coloro che volavano nello spazio non denunciavano i sintomi per non perdere l’idoneità al volo. D’altro canto chi sosteneva di vedere lampi o di avere la visone offuscata si vedeva la carriera troncata in un attimo.

La ricerca quindi, fornisce per la prima volta prove quantitative sulle modifiche di distribuzione dei liquidi corporali nelle permanenze di lunga durata nello spazio e degli effetti negativi sulla visione.

Occorre poi notare che mediamente le permanenze massime nello spazio degli astronauti, sui quali si sono verificate le sindromi ed i deficit visivi, sono di 10/12 mesi mentre non vi è alcuna conoscenza dei problemi che potrebbero verificarsi con periodi di 18 mesi, quanti ne sono richiesti per andare e tornare  su Marte (i tempi di andata e ritorno sono variabili a seconda dello scenario di volo da 180 a 400 giorni circa).

A complicar le cose ricordiamo inoltre, tra gli effetti spaziali anche la decalcificazione ossea, l’esposizione ai raggi cosmici e i livelli di stress della vita spaziale. E’ stato verificato che anche il cuore e altri organi subiscono modificazioni morfologiche a causa della mancanza di gravità, alcune non reversibili. I ricercatori della NASA comunque non disperano, sono infatti allo studio farmaci, che associati a diete specifiche e attività fisica adatta garantiranno un certo grado di incolumità ai coraggiosi astronauti che  colonizzeranno il pianeta rosso, mentre per i viaggi del futuro sono allo studio astronavi a gravità artificiale rotativa (studi di Oleg Orlov – Istituto russo studi biomedici spaziali) e scudi con intercapedini d’acqua per schermare le radiazioni (progetto Deep Space Habitat). I lettori di fantascienza vedranno forse realizzarsi molte delle visioni cosmiche a loro care.

Marco Ferrari

Individuate le onde dello spazio-tempo ipotizzate da Einstein

« Non ho particolari talenti, sono solo appassionatamente curioso. » A. E.

In natura, per quanto ne sappiamo al momento, esistono quattro forze con le quali possiamo descrivere in tutto l’universo le interazioni tra i corpi.

a-einstein

La forza nucleare forte che agisce all’interno dei nuclei atomici, la forza nucleare debole che agisce tra le particelle elementari quali quark e leptoni, la forza elettromagnetica che si occupa di magnetismo, di elettricità e della luce, e la gravità cioè quella per noi più evidente che ci mantiene coi piedi per terra e ci permette di osservare la  luna nelle notti limpide, trattenendola in orbita terrestre.

E’ di questi giorni la notizia che un team di ricerca internazionale, con grande lustro dei fisici italiani che hanno partecipato alla ricerca stessa,  è riuscito ad osservare alcuni mesi orsono le onde gravitazionali. Di tali onde  Albert Einstein aveva ipotizzato l’esistenza un secolo fa, con l’esposizione della teoria della relatività generale. Le onde individuate derivano da uno scontro cosmico tra due buchi neri.

Questa conferma ci permetterebbe idealmente di posare un nuovo tassello nel mosaico della teoria dei campi unificati che Einstein elaborò negli ultimi anni di vita. In tale teoria Einstein  tentò di unificare tutti i campi elettrici, magnetici e gravitazionali in uno unico; lo scienziato tedesco utilizzò nel suo contesto storico gli strumenti della teoria classica (non la corrente moderna meccanica quantistica); ma gli sforzi in tal senso furono vani a causa di complesse questioni matematiche.

Ciononostante, alla luce dell’odierna convalida, ad alcuni osservatori è parso di aver intravisto apparire, in alcune foto del famoso premio Nobel, un discreto sorriso.

Marco Ferrari

La lunga storia delle formiche come animali sociali

Come gli uomini, anche le formiche hanno costantemente combattuto per cibo e territorio.

formiche-animali-socialiLe formiche hanno iniziato la lotta per la sopravvivenza molto prima che gli esseri umani: almeno 99 milioni di anni fa, secondo Phillip Barden, un esperto di insetti fossili che lavora nell’Insect and Evolution Lab. del  Dipartimento di Scienze Biologiche presso la Rutgers University  di Newark.

“Questa è una caratteristica delle formiche”, spiega Barden. “Molte specie sono costantemente  in guerra sia con altri individui della stessa specie provenienti da diverse colonie o con specie diverse.”

La competizione tra le formiche ha  avuto inizio nel periodo Cretaceo, quando i dinosauri popolavano la Terra; questo è quanto affermato da uno studio pubblicato online sulla rivista Current Biology. Barden, l’autore principale, è collaboratore con il Museo Americano di Storia Naturale di New York City. Il coautore David A. Grimaldi è un curatore al museo e collabora con la Cornell University e la City University di New York.

Le formiche in lotta, incredibilmente intrappolate nell’antica ambra birmana della regione del Myanmar, sono tra i primi insetti antichi noti (Nella foto due formiche in combattimento intrappolate da 99 milioni di anni in ambra birmana. P. Barden).

Afferma Barden “Queste prime formiche appartengono a linee evolutive distinte rispetto alle formiche moderne, cioè non sono necessariamente le antenate dirette delle formiche moderne”. Lo studio fornisce anche una forte evidenza di come gli antichi imenotteri, similmente alle formiche moderne, fossero animali sociali.

“Abbiamo un pezzo di ambra con ben 21 formiche operaie intrappolate, e questo è significativo riguardo quel periodo, in quanto le formiche sono molto rare da trovare in fossili. Esse costituiscono meno dell’1 per cento di tutti gli insetti in ambra”, e continua “Quindi, trovare oltre venti esemplari in un unico pezzo è altamente indicativo di un comportamento sociale.”

Oggi, gli scienziati hanno descritto 13.000 specie di formiche viventi ma alcuni ricercatori ritengono che le specie esistenti siano almeno il doppio. Gli scienziati ipotizzano che alcune delle formiche di oggi possano essere legate evolutivamente a quelle che hanno vissuto 99 milioni di anni fa anche se al momento mancano le prove.

Il comportamento sociale delle formiche potrebbe essere quindi  uno dei motivi che ne hanno decretato il successo in termini evolutivi. La strategia è quella numerica, che evita la competizione di  un singolo individuo, facendola invece come colonia di decine di migliaia di soggetti, e la maggior parte di essi non si riproducono affatto. Il tutto è gestito da un controllo ormonale da parte della regina (la femmina fertile) che mantiene quindi il controllo di questo super-organismo.

Lo studio documenta anche caratteristiche anatomiche particolari, nelle cosiddette “formiche Hell”.

“In realtà avevano un apparato boccale comprendente una sorta di  mascelle a forma di zanna che pensiamo possano essere  state utilizzate per impalare la preda”, ha detto Barden.

“Nonostante il loro comportamento sociale e le temibili mascelle  le formiche di 99 milioni di anni fa si sono estinte e non conosciamo il motivo. Immaginiamo che probabilmente si estinsero a causa del clima”.

In uno studio separato pubblicato su Current Biology, diversi scienziati, tra cui Barden, descrivono anche il ritrovamento di esemplari di termiti di ben 100 milioni di anni di età; ad oggi gli esemplari fossili più antichi datavano tra i 17 e 20 milioni di anni.

Gli scienziati hanno individuato sei specie di termiti in ambra birmana, tra cui una nuova specie (Krishnatermes yoddha). Un’altra nuova specie comprende uno dei più grandi  esemplari di termite soldato. Il suo nome è Gigantotermes rex.

“Fondamentalmente nello stesso deposito, abbiamo trovato prove di colonie sociali di  termiti e pensiamo che le termiti fossero anche le prime società di insetti”, ha detto Barden e conclude “Pensiamo quindi che  formiche e  termiti abbiano combattuto costantemente nel corso degli ultimi 100 milioni di anni”.

Fonte: Rutgers State University

Marco Ferrari

Relazione tra attività antropiche e terremoti

Probabilmente tutti noi abbiamo sentito nominare la famosa e temuta faglia di Sant’Andrea. Si tratta di una “spaccatura” lunga oltre 1.300 Km che attraversa quasi tutta la California occidentale; è la zona di scorrimento tra le placche Pacifica e Nord-americana. I terremoti in questa zona sono stati a volte davvero devastanti. In particolare grandi città americane potrebbero essere interessate dai futuri movimenti tellurici quali Los Angeles e San Diego che sono sulla Placca Pacifica, Sacramento e San Francisco su quella Nord-americana.

Deformazioni da attività tettonica. Passo Cajon. Faglia di Sant’Andrea, California. Fonte: earthguide.ucsd.edu
Deformazioni da attività tettonica. Passo Cajon. Faglia di Sant’Andrea, California.
Fonte: earthguide.ucsd.edu

Al momento non esiste un metodo predittivo dei terremoti che possa essere applicato con una certa attendibilità e lo studio delle serie storiche permette solo ipotesi di massima, anche perché gli slittamenti di faglia contemplano un numero notevole di variabili quali natura della roccia profonda, senso e modalità di scorrimento, depositi idrici e/o gassosi, entità delle forze in gioco e tante altre.

Generalmente quindi siamo portati a pensare che i terremoti siano eventi ineluttabili e di scarsa predittività, e che quindi l’uomo non sia responsabile in alcuna misura dei disastri.

In California negli ultimi anni si stanno verificando temperature estive molto elevate, con ovvie ripercussioni sulle attività agricole e sui relativi fabbisogni di acqua da irrigazione a cui vanno aggiunti gli usi di una zona densamente popolata e le necessità idriche necessarie per spegnere i frequenti  incendi.

Fonte: Internazionale
Fonte: Internazionale

Le acque vengono reperite nel sottosuolo sempre più in profondità, sia per l’abbassarsi delle falde acquifere che per la riduzione delle portate fluviali. L’acqua viene pompata ad un tasso più elevato rispetto alla velocità di reintegro delle falde acquifere sotterranee, riducendo quindi massicciamente la presenza idrica nel sottosuolo.

A questo fatto si associa un incremento del numero di terremoti di ridotta entità (magnitudo Richter 3/4), a volte solo strumentali, che si possono correlare alle variazioni idriche stagionali nel terreno sottostante, così come indicato da uno studio dell’Università di Berkley del 2014. Inoltre da qualche tempo nella San Joaquin Valley il terreno, in svariati punti, ha iniziato a cedere a causa di fenomeni di subsidenza, in altre parole si tratta  di un abbassamento del piano di campagna probabilmente dovuto ad un assestamento dei materiali nel sottosuolo e ciò per via della riduzione dell’acqua interstiziale.

Rischio sismico. Fonte USGS
Rischio sismico. Fonte USGS

Contemporaneamente sono stati notati movimenti stagionali di innalzamento e abbassamento di alcuni millimetri nelle cime montuose prossimali alla valle, gli studi sono ancora in corso. Paul Lundgren, geofisico del JPL di Pasadena sostiene che “i cambiamenti indotti dall’uomo sono significativi e devono essere seriamente considerati nelle analisi dei rischi sismici”. La probabilità quindi che si tratti di sismi indotti col concorso dell’uomo è significativa, anche se serviranno ulteriori studi.

Marco Ferrari

Patate su Marte

Potrebbe davvero l’astronauta di “The Martian” sopravvivere di sole patate?

Nel film “Sopravissuto – The Martian”, il personaggio principale Mark Watney, che è per sua fortuna un botanico, viene abbandonato su Marte e deve contare solo sulla propria conoscenza per sopravvivere. L’equipaggio aveva preparato delle patate per la festa del Ringraziamento, Watney le recupera e crea un “orto”, ovviamente al chiuso, riportando il rosso suolo marziano, fertilizzandolo con gli escrementi, irrigandolo con acqua ottenuta dal combustibile, con un processo non certo privo di rischi, ed è poi in grado di sopravvivere grazie al raccolto.

patate
In linea di massima pare tutto plausibile ma occorre fare alcune considerazioni.

  • Le piante di solanacee sono terrestri, si sono evolute in condizioni di luce, gravità, particolari stati fisico-chimici e climatici tipici della Terra; e tali condizioni dovrebbero essere ricreate per evitare fitopatie da stress ambientali. Essendo una coltivazione extraterrestre inedita vi potrebbero essere dei collassi colturali per cause imprevedibili, e ciò sino a quando non disporremo di coltivazioni adatte alle condizioni del luogo oltre ad una tecnica colturale appropriata. Per questi motivi le rese potrebbero essere deludenti. Servirebbero serre riscaldate e illuminate con luci a spettro adatte meglio se a LED, basti pensare come l’irraggiamento solare massimo sul pianeta rosso sia di circa 590 W/m2 rispetto ai circa 1000 W/m2 sulla superficie della terra, senza tenere conto della polvere lasciata sulle strutture delle serre dopo le tempeste, da ripulire periodicamente.
Tramonto sul pianeta rosso dopo una tempesta di sabbia. Fonte NASA/Jpl
Tramonto sul pianeta rosso dopo una tempesta di sabbia. Fonte NASA/Jpl
  • Altra complicazione per il nostro sopravvissuto è che il suolo di Marte contiene composti perclorati, i quali sono caratterizzati da alta tossicità in quanto influenzano l’assorbimento dello iodio nel corpo umano. La presenza di tali perclorati nel terreno comprometterebbe, quindi, la salute dell’uomo danneggiando la funzionalità della tiroide. Sulla terra abbiamo taluni microbi che degradano i perclorati, e sono particolarmente utili per depurare l’acqua potabile, ottenendone energia. Tali microbi potrebbero in futuro essere impiegati in tal senso su Marte. Inoltre è stato riscontrato anche perossido di idrogeno, che è tossico. I terreni ad uso agricolo dovrebbero quindi essere preventivamente bonificati e migliorati strutturalmente, infatti hanno una tessitura eccessivamente fine. Sarebbe inoltre improbabile pensare di affrontare tutte le attività agricole marziane senza un minimo di meccanizzazione.
Panorama marziano. Fonte NASA
Panorama marziano. Fonte NASA
  • Essendo poi Marte un pianeta più piccolo della Terra dispone di atmosfera rarefatta, è pari a 1/100 di quella terrestre. Sul nostro pianeta l’azoto, indispensabile ai vegetali, è fissato anche da azoto-batteri simbiotici di alcune piante (ad es. alcune leguminose) prelevandolo dall’atmosfera e rendendolo poi disponibile sotto forma di nitrati. Sul pianeta rosso servono concimazioni azotate frazionate sul ciclo di sviluppo, in alternativa servono metodi chimico-fisici per rendere l’azoto presente assimilabile, oltre alla creazione di un ecosistema complesso che garantisca le opportune interazioni tra gli organismi per mantenere l’omeostasi (la stabilità del sistema biologico). La patata poi necessita anche di altri elementi, non basterebbero gli escrementi dell’equipaggio per rendere il suolo fertile. Fortunatamente l’acqua pare abbondare nel sottosuolo anche se salmastra o gelata, anch’essa andrebbe estratta e opportunamente trattata, lasciando stare l’idrazina.
Foto composta del suolo marziano scattata da Curiosity, Rover della Nasa inviato nel 2012. La granulometria del terreno fine comporta problemi di asfissia e ristagno idrico. Fonte Nasa/Jpl
Foto composta del suolo marziano scattata da Curiosity, Rover della Nasa inviato nel 2012. La granulometria del terreno fine comporta problemi di asfissia e ristagno idrico. Fonte Nasa/Jpl
  • Altra problematica legata ad una ridotta atmosfera è data dal livello di radiazioni GCR (raggi cosmici della galassia), SEP (particelle energetiche di fonte solare) tipiche delle tempeste solari. Non sarebbe possibile permanere all’esterno per lunghi periodi e sarebbe necessario disporre di serre schermate per le coltivazioni.
  • La dieta a base di sole patate la si può anche affrontare, ma non credo si possa resistere per ben quattro anni di vita attiva e con distanze da percorrere, aspettando di essere recuperati. Esistono popoli che si sostengono in larga parte con le patate, sulle Ande per esempio, oppure si rammenta come gli irlandesi nel diciottesimo secolo vivessero a patate ma entrambi possono e potevano fare integrazioni dietetiche con ridotte quantità di proteine e vitamine, quanto meno per evitare la carenza di vitamina A data da una mono-dieta a base di patate. Servirebbero integrazioni alimentari importanti per mantenere un buono stato di salute. Insomma un bel sacchetto di fagioli, ceci e piselli, fonti di fibre, proteine e minerali essenziali e antiossidanti da abbinare alle patate sarebbe stata proprio una bella idea. I fagioli ad esempio fissano l’azoto e richiedono pochissima acqua per crescere, inoltre ogni parte della pianta è commestibile.
Il Solar Heliospheric Observatory (SOHO) ha catturato queste immagini di espulsione di massa coronale (flare). Sulla sinistra è visibile Marte che non dispone di sufficiente atmosfera e di campi magnetici protettivi come il nostro pianeta. Fonte ESA/NASA/SOHO/GSF
Il Solar Heliospheric Observatory (SOHO) ha catturato queste immagini di espulsione di massa coronale (flare). Sulla sinistra è visibile Marte che non dispone di sufficiente atmosfera e di campi magnetici protettivi come il nostro pianeta. Fonte ESA/NASA/SOHO/GSF

  Sulla base di queste riflessioni appare abbastanza improbabile che nella realtà si possa vincere una sfida del genere, anche con un alleato di tutto rispetto come la patata.

Marco Ferrari

Scintille di vita: nuovi studi sull’origine della vita

Perseidi (Wikicommons)
Perseidi (Wikicommons)

Già da molti anni i ricercatori hanno formulato ipotesi su come si sia generata la vita sul nostro pianeta, a partire dal brodo primordiale ovvero dagli elementi chimici di base e di come le fonti di energia disponibili abbiano operato, ma questo “Lego” primordiale non è stato ancora del tutto compreso.

I primi studi di una certa rilevanza vennero riportati dal biochimico russo Aleksandr Oparin già negli anni ’20.

Vediamo allora, seguendo Oparin, cosa avremmo avuto a disposizione: l’ossigeno non era atmosferico, almeno come ossigeno molecolare a disponibilità gassosa così come lo intendiamo oggi, lo si rintracciava nell’acqua, negli ossidi e nell’anidride carbonica. Gli altri elementi, i cosiddetti CHNOPS, ovvero Carbonio, Idrogeno, Azoto, Ossigeno, Fosforo e Zolfo, indispensabili alla vita, erano in varie proporzioni disciolti appunto in questo brodo originario rintracciabile in mare e nei laghi. L’energia per permettere la ricombinazione chimica poteva provenire dal sole, dalle eruzioni vulcaniche e da elementi radioattivi. Vi era già un ciclo dell’acqua con riscaldamento, evaporazione, condensazione e precipitazioni grazie alla massa del pianeta che tratteneva l’atmosfera dell’epoca (siamo intorno ai 4-3,5 miliardi di anni fa). Ciò probabilmente comportava anche differenze di potenziale in atmosfera e violenti temporali e i fulmini erano frequenti, tali forze elettriche avrebbero potuto generare prima molecole organiche e poi talune strutture cellulari utili alla vita. Oparin valutando questo scenario ipotizzò la formazione di composti a base organica, che vista la scarsa presenza di ossigeno atmosferico non avrebbero subito il deleterio processo di ossidazione.

Inoltre il caso avrebbe permesso in talune zone l’aggregazione di molecole grazie al moto ondoso o a processi di concentrazione a seguito di evaporazione; vi sarebbero potuti essere anche fenomeni aggregativi grazie anche a strutture quali le particelle di argilla.

Oparin pubblico le sue ipotesi nel 1922, con grande indifferenza della comunità scientifica.

A. Oparin (Wikipedia)
A. Oparin (Wikipedia)

Successivamente un americano, Stanley Miller, segui la via sperimentale e negli anni ’50 simulò in laboratorio il brodo primordiale e le condizioni ambientali che con ogni probabilità vi erano sul pianeta. Miller “cucinò” un brodo a base di CHNOPS in un forno in cui metano, ammoniaca e il vapor d’acqua formavano l’atmosfera e come innesco utilizzò forti scariche elettriche a voler simulare i fulmini. Ebbene in questo ciclo iniziarono a formarsi molecole e fu possibile rintracciare aminoacidi e altre sostanze organiche. Con successivi esperimenti nei quali si variavano le condizioni (elementi chimici e variabili fisiche) all’interno di questo “alambicco della vita” furono rintracciati una buona parte degli aminoacidi che conosciamo oggi nonché alcuni nucleotidi facenti parte di DNA e RNA.

Altri studi hanno confermato il processo; ora abbiamo così raggiunto una ragionevole certezza “in termini probabilistici” che sia davvero andata così, anche se ancora sfuggono alla nostra comprensione alcune modalità di “montaggio”.

Comunque si potrebbe addirittura immaginare che, considerati gli elementi di base e le variabili fisiche in gioco, la vita non avrebbe che potuto nascere prima o poi se avesse avuto, come ha avuto nel nostro caso, a disposizione tempo, energia adatta e un numero sufficiente di rimescolamenti e ciò potrebbe essere logico in tutto l’universo.

S. Miller (Wikipedia)
S. Miller (Wikipedia)

E in questo conteso si innesta la ricerca del Prof. S. Civis che propone come fonte energetica per il montaggio della vita anche quella sprigionata dall’impatto di meteoriti sul pianeta. A quei tempi gli oggetti spaziali (comete e asteroidi) erano molto più numerosi il nostro sistema solare era alle origini e le forze aggregative gravitazionali avevano pertanto molti oggetti celesti da attrarre, alcuni sostengono dieci volte tanto.

In questo ultimo esperimento il bordo primordiale è stato dunque bombardato con un laser molto potente che ha simulato la potenza degli impatti generando di nuovo sostanze organiche. Gli studiosi hanno calcolato che, in quel periodo, piovvero sul nostro pianeta quantità enormi di materiale extraterrestre con impatti potentissimi e diversificati in base a dimensioni, angoli di impatto, materiali ferrosi o meno, e velocità paraboliche.

“Ancora una volta i risultati sperimentali suggeriscono che l’emergere della vita non sia il risultato di un fortunoso incidente ma una conseguenza delle condizioni della terra primordiale” così riporta lo studio pubblicato dal Prof. Svatopluk Civis dell’Istituto di chimica -fisica Heyrovsky di Praga su “Proceedings of the National Academy of Sciences”.

Asterix Laser.
Asterix Laser.

Il laser utilizzato dagli scienziati di Praga per ricreare gli esiti di impatti meteorici sul brodo primordiale che avrebbero concorso ad innescare la vita sul nostro pianeta. Fonte Prof. Svatopluk Civis.
Insomma si giunge di nuovo alla conclusione che coi giusti ingredienti (le sostanze inorganiche) e un buon forno (le condizioni ambientali) prima o poi la torta (i composti organici complessi) riuscirà a tutti. A questo punto rintracciare forme di vita nell’Universo non sarebbe più da vedere come un “se” ma come un “dove”.

Marco Ferrari
6 gennaio 2015

Come “aggraspare” un asteroide e portarlo in orbita lunare

Uno dei progetti piu ambiziosi della NASA prevede la ricerca, la cattura (“grasp” in inglese) e la messa in orbita intorno alla luna di un piccolo asteroide. La “Asteroid Redirect Mission”, questo il nome della missione, con lo studio di fattibilità quasi completato attende, di fatto, soltanto l’ingente investimento per la realizzazione.

Questa missione ha una dimensione cosmica affascinante in quanto rientra nel titanico progetto di conquista di Marte.

I vantaggi di una siffatta missione spaziale, decisamente complessa e che rilancerebbe l’astronautica dello spazio profondo sarebbero svariati, in primis l’opportunità di testare i nuovi vettori SLS (Space Launch System) destinati a portare l’uomo su Marte; sviluppare avionica e astronautica per grandi distanze spaziali; studiare le tecnologie adatte a catturare gli oggetti spaziali. Per la missione di studio dell’asteroide già posizionato in orbita si utilizzerà il modulo Orion, degno successore del pensionato Space Shuttle. L’Orion a propulsione SLS è un gigantesco missile del peso al decollo di 2500 tonnellate e di quasi 130 metri di altezza.

Orion al momento del distacco dal propulsore SLS  per il rientro in atmosfera. (Fonte NASA)
Orion al momento del distacco dal propulsore SLS per il rientro in atmosfera. (Fonte NASA)

Lavorare con gli asteroidi permetterebbe poi di affrontare la tematica relativa al rischio di collisione con la terra, che è tutt’altro da sottovalutare come si è recentemente visto con quello caduto in Russia, che ha causato ingenti danni materiali e un grande numero di feriti. L’idea sarebbe proprio quella di “catturare” o deviare gli asteroidi in rotta di collisione, grazie anche ad una rete di monitoraggio costante da terra ed a un telescopio ad hoc chiamato Sentinel, previsto in orbita nel sistema solare interno nel prossimo 2018.

Inoltre si potrebbero testare i sistemi di trivellamento per le prospezioni minerarie di acqua, minerali, metalli preziosi e altri elementi utili che potrebbero, in futuro, essere ricercati sui due satelliti di Marte (Phobos e Deimos). Con un poco di fortuna si potrebbe anche rintracciare del materiale organico e comprendere meglio la formazione e l’evoluzione del cosmo.

Assemblaggio di Orion (Fonte Astronautinews)
Assemblaggio di Orion (Fonte Astronautinews)

Ora gli sforzi sono concentrati nel rintraccio di un NEA (Near Earth Asteroid) ovvero di un asteroide adatto al recupero sia per dimensioni, caratteristiche e localizzazione; esistono già alcuni candidati con diametri da 6 a 10 metri.

Ad “aggraspare” l’asteroide sarebbe una navicella automatica, lanciata dal potente propulsore Atlas V, dotata di una sorta di “sacchetto” che trascinerebbe l’oggetto in orbita lunare, successivamente le missioni di ispezione, di studio e minerarie utilizzerebbero Orion per i viaggi di andata e ritorno.

Il modulo automatico senza equipaggio per la cattura dell’asteroide. (Fonte NASA)
Il modulo automatico senza equipaggio per la cattura dell’asteroide. (Fonte NASA)
Il modulo cattura asteroidi a “pieno carico”.  (Fonte NASA)
Il modulo cattura asteroidi a “pieno carico”. (Fonte NASA)
L’intera missione che prevede il lancio del modulo con propulsore Atlas V, il recupero dell’asteroide, l’arrivo in orbita lunare, il posizionamento  in orbita alta dell’oggetto (circa 10 metri di diametro per 500 tonnellate di peso, orbita stabile per alcuni decenni). (Fonte Phys.org/NASA)
L’intera missione che prevede il lancio del modulo con propulsore Atlas V, il recupero dell’asteroide, l’arrivo in orbita lunare, il posizionamento in orbita alta dell’oggetto (circa 10 metri di diametro per 500 tonnellate di peso, orbita stabile per alcuni decenni). (Fonte Phys.org/NASA)

I costi della missione ARM sono stimati, in un primo stanziamento, in 100 milioni di dollari ma col progredire della missione potrebbero passare ad alcuni miliardi di dollari; il lancio sarebbe previsto per il 2017, la missione Marte invece è prevista per il 2030. La tempistica stimata prevede circa sei/dieci anni per la presa ed il traino dell’asteroide verso la Luna e almeno altri due anni per gli studi. Visto l’andamento economico statunitense le joint venture con soggetti privati sono già state attivate.

Durante questa missione verrà anche collaudato un nuovo sistema a propulsione ionica.