Rivalutata la funzione delle balene come stabilizzatrici dell’ecosistema marino

Una recente ricerca sulle balene mostra che questi cetacei hanno una forte influenza sulla funzionalità degli oceani, in particolare nello stoccaggio del carbonio a livello globale e favorendo il ricircolo degli elementi nutritivi, migliorando la disponibilità di risorse ittiche per la pesca commerciale. La tutela delle grandi balene, può contribuire ad aiutare gli ecosistemi marini stressati da sollecitazioni destabilizzanti, tra cui il cambiamento climatico, l’acidificazione e l’inquinamento.

Dopo l'alimentazione in profondità, capodogli al largo della costa dello Sri Lanka tornano in superficie per defecare. Questa attività di fertilizzazione marina fornisce molti nutrienti che favoriscono la crescita del plancton. E’ uno dei molti esempi di come le balene mantengano la salute degli oceani, descritti in un nuovo documento scientifico dell’Università del Vermont, a cura di Joe Romano e da altri nove biologi marini. (Credit Tony Wu)
Dopo l’alimentazione in profondità, capodogli al largo della costa dello Sri Lanka tornano in superficie per defecare. Questa attività di fertilizzazione marina fornisce molti nutrienti che favoriscono la crescita del plancton. E’ uno dei molti esempi di come le balene mantengano la salute degli oceani, descritti in un nuovo documento scientifico dell’Università del Vermont, a cura di Joe Roman e da altri nove biologi marini. (Credit Tony Wu)

“Si consideri la sottigliezza del mare, come la sua maggior parte delle creature temute scivolino sotto l’acqua, invisibili per la maggior parte e proditoriamente nascoste sotto le più belle tinte di azzurro.” scriveva Herman Melville in Moby Dick. 

Per molto tempo, le balene sono state considerate troppo rare per fare una grande differenza negli oceani”, osserva il biologo della conservazione Joe Roman. Questa è stata una grande sottovalutazione del ruolo di questi cetacei.

In un nuovo documento, Roman e un team internazionale di biologi marini, dimostra che le balene fanno una grande differenza, infatti, hanno una forte e positiva influenza sulla funzionalità degli oceani, a partire dallo stoccaggio del carbonio, sino alla funzione di dispersione di elementi utili all’ecosistema marino.

“Il calo del numero di balene, dovuto alla caccia intensiva degli scorsi decenni pre-moratoria, stimato in globalmente in oltre il 50% e forse per alcune specie addirittura sino al 90%, ha probabilmente alterato la struttura e la funzione degli oceani.” Attualmente, grazie alla forte pressione dell’opinione pubblica e di numerose organizzazioni scientifiche, è in vigore dal 1986 una moratoria che prevede però una deroga. Sono migliaia gli esemplari cacciabili per legge ogni anno. Giappone e Norvegia sono i due paesi balenieri più attivi.

Di molto ridotta la caccia alle balene è ancora permessa per motivi cosiddetti di studio (Fonte EPA).
Di molto ridotta la caccia alle balene è ancora permessa per motivi cosiddetti di studio (Fonte EPA).

L’incremento delle popolazioni di cetacei a lunga vita aumenta la prevedibilità e la stabilità degli ecosistemi marini”, continua Roman, “in modo particolare quando aumento delle temperature e acidificazione delle acque danneggiano gli ecosistemi.”

Balene, capodogli, megattere e altre grandi specie, note genericamente come le “grandi balene”, hanno enormi richieste metaboliche e si nutrono di krill, plancton e crostacei, molti pesci, invertebrati e a seconda della specie anche calamari giganti, filtrando tonnellate d’acqua in pieno mare o anche raschiano i fondali; sono esse stesse preda di altri predatori, come le orche. Anche le loro carcasse, scendendo al fondo del mare, sono l’habitat per molte specie che esistono solo su queste enormi biomasse.

Il riciclo delle sostanze nutritive si verifica per via dell’alimentazione attuata nelle profondità marine e nel successivo rilascio di pennacchi fecali in prossimità della superficie. Questo processo è molto più importante di quanto ritenuto in passato. Basti pensare a come le balene spostino i nutrienti a migliaia di chilometri, partendo dalle aree di alimentazione alle alte latitudini sino a quelle del parto in zone a latitudini più basse.

A volte, i pescatori hanno considerato le balene come una sgradita concorrenza. Ma questo nuovo documento sintetizza un forte corpo di prove che indicano esattamente il contrario: “sono stati verificati i più alti tassi di produttività ittica nei luoghi dove le balene si aggregano per nutrirsi e dare alla luce i loro piccoli” sostenendo, di fatto, la pesca.

Al momento della morte, le carcasse di balena che contengono una notevole quantità di carbonio, scendono nel mare profondo e forniscono habitat e cibo per un incredibile assortimento di creature che vivono solo su queste carcasse. “Decine, forse centinaia, di specie dipendono da queste balene decedute nel mare profondo”, osserva Roman. Il calo del numero delle balene ha probabilmente anche danneggiato la biodiversità in quanto molte specie saprofite delle carcasse sono probabilmente scomparse prima di poterle scoprire.

La grande varietà dei cetacei (Credit Smithsonian Institution)
La grande varietà dei cetacei (Credit Smithsonian Institution)

Nuove osservazioni sulle balene, anche grazie alle nuove tecnologie come radio localizzatori e satelliti forniranno una comprensione più accurata delle dinamiche delle popolazioni e dei ruoli funzionali di questi grandi abitanti degli ecosistemi marini e “sono suscettibili di fornire la prova di attività pro ecosistema sottovalutate o addirittura ancora non conosciute”.

Marco Ferrari

Bibliografia:

Roman J., Estes J.A., Morissette L., Smith C., Costa D., McCarthy J., … & Smetacek V. (2014). Whales as marine ecosystem engineers. Frontiers in Ecology and the Environment, 12(7), 377-385.

Il mio amato brontosauro. Vecchie ossa e nuova scienza. Brian Switek. Ed. Codice

Switek_RGBIl saggio “My Beloved Brontosaurus” del divulgatore americano Brian Switek è da oggi tradotto in italiano. Il libro ci accompagna tra le varie ipotesi di estinzione, e fa anche il punto di cosa rappresentino i dinosauri nell’immaginario collettivo.

Le ipotesi sulla fine dell’era dei dinosauri, che il giornalista ha raccolto nel suo saggio, spaziano dalle già note piogge di meteoriti agli scompensi ormonali che avrebbero ridotto la fertilità dei “lucertoloni” del passato, e ricomprendono anche un’intrigante quanto fantasiosa invasione di larve di lepidotteri, che avrebbe provocato un collasso nella catena alimentare. Quest’ultima ipotesi è stata anche oggetto di un articolo di approfondimento sul nostro sito.

Al di là della plausibilità di alcune cause di estinzione proposte, il saggio è un esempio di passione per la scienza, in questo caso la paleontologia, che come sempre per le persone curiose è fonte di ispirazione e gratificazione. Un ottimo esercizio mentale che ci permetterà di visitare i musei di storia naturale, commentare film e documentari sull’argomento, raccontando del passato e del presente di questi incredibili rettili, interessando e affascinando grandi e piccini.

Vi lascio ora ad un brano, tratto dal libro, che dimostra chiaramente l’inesauribile passione dell’autore per i giganti del passato:

“Per molti i dinosauri fanno parte del kitsch infantile o sono semplicemente mostri fantastici. Eppure senza di loro non saremmo quello che siamo. I dinosauri sono icone immediatamente riconoscibili dell’evoluzione e dell’estinzione, creature trionfali ed essenzialmente tragiche che illustrano magnificamente il dualismo contingente della linea della vita. Ci indicano la strada verso il passato e sono messaggeri di quello che ci riserverà il futuro. Sì, abbiamo proprio bisogno dei dinosauri.”

 http://www.scienze-naturali.it/ambiente-natura/nuova-ipotesi-sulla-fine-dei-dinosauri-lestinzione-potrebbe-essere-stata-causata-dagli-insetti

Marco Ferrari
17 luglio 2014

Si riduce l’isola di plastica del Pacifico.

La Pacific Trash Vortex è stimata per difetto in circa 4 milioni di tonnellate. (Credit: R. Carey / Shutterstock)
La Pacific Trash Vortex è stimata per difetto in circa 4 milioni di tonnellate. (Credit: R. Carey / Shutterstock)

L’Isola di plastica del Pacifico(in inglese Pacific Trash Vortex), è un incredibile ammasso di spazzatura buttato a mare, composto prevalentemente da plastica.

L’estensione di questa pattumiera galleggiante e il volume della plastica non sono certi, anche per via della variabilità delle condizioni marine, ma le dimensioni superano abbondantemente quelle della Spagna per un peso di svariati milioni di tonnellate.

L’immagine si commenta da sola…. (Credit Mongabay)
L’immagine si commenta da sola…. (Credit Mongabay)

La plastica buttata a mare da oltre 50 anni si è localizzata nel nord del pacifico per via di una corrente a spirale che ha favorito l’accentramento ed il mantenimento dell’immondezzaio marittimo. Altre macchie simili sono presenti più o meno in tutti i mari ove operano correnti concentriche.

La plastica arriva al mare al ritmo di decine di migliaia di tonnellate l’anno, nonostante gli sforzi di molti paesi per attuare politiche di recupero.

Localizzazione della c.d. zona di convergenza (Wikipedia)
Localizzazione della c.d. zona di convergenza (Wikipedia)

Il fenomeno, già di per sé sconcertante, si complica in quanto pare che la macchia si stia riducendo.

Questo studio, che ha comportato la circumnavigazione del globo, tiene conto sia della dinamica di degradazione della plastica in mare, che dei tassi di inquinamento e ha richiesto anni di verifiche.

Andrés Cozar, un ecologo dell’Università di Cadice in Spagna, sostiene che con ogni probabilità la plastica, dopo decenni di permanenza in mare e sotto l’azione dei raggi solari, si stia rompendo in piccoli pezzi che starebbero affondando nelle profondità oceaniche.

Gli effetti di questa nevicata plastica sugli ecosistemi marini sono assolutamente ignoti, non avendo di fatto precedenti. I detriti più piccoli, meno di 5 millimetri, potrebbero finire nella catena alimentare interagendo con la maggior parte degli organismi marini, con impatto sconosciuto su plancton e piccoli vertebrati.

Microplastiche (Credit SEA)
Microplastiche (Credit SEA)

L’oceano profondo è un grande sconosciuto” afferma Cozar “e purtroppo l’accumulo di micro frammenti di plastica nel fondale oceanico potrebbe modificare questo poco noto ecosistema prima che possiamo saperlo”.

Si ipotizzano, infatti, ripercussioni sulla riproduzione di pesci commerciali come tonno e pesce spada, che potrebbero avere problemi di salute a seguito di avvelenamento da PCB (un additivo delle plastiche riconosciuto tossico e tardivamente messo al bando ma usato massicciamente per decenni), il che complicherebbe, ancora di più, la già grave situazione di overfishing, che ha ridotto di molto le popolazioni di pescabile.

Una lezione già sentita, trascurare l’ambiente oggi potrebbe comportare in futuro ricadute economico-ambientali molto più gravose.

Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Proceedings of National Academy of Sciences.

Marco Ferrari
11 luglio 2014

Evoluzione: laboratorio del possibile

Il sito di Burgess Shale. (Credit W. Marler)
Il sito di Burgess Shale. (Credit W. Marler)

Burgess Shale, nella Columbia Britannica canadese, è una vecchia cava di ardesia, che si trova nel Parco Nazionale di Yoho. E’ famosa nel mondo dei paleontologi per ospitare un importante sito di fossili a corpo molle, appartenenti al periodo Cambriano (dai 570 ai 500 milioni di anni fa). Il periodo fu caratterizzato da una notevole profusione di forme di vita che ci hanno lasciato numerosi reperti fossili. 

Ora molti di noi sono abituati a considerare l’evoluzione come “la sopravvivenza del più adatto” e a credere che nuove forme di vita si possano rintracciare soltanto in giro per l’universo. Le cose non stanno proprio così: come vedremo il passato ci rivelerà esseri sorprendenti, assolutamente inimmaginabili ma sicuramente terrestri, che paiono realmente provenire da un altro pianeta. E spesso l’evoluzione è anche questione di fortuna oltre che di adattamento e molti degli esseri che vedremo, in condizioni ambientali più favorevoli, avrebbero potuto riscrivere la storia evolutiva a loro favore, rimandandoci nell’elenco delle forme di vita estinte o mai esistite.

Charles D. Walcott (Credit: Smithsonian Institution)
Charles D. Walcott (Credit: Smithsonian Institution)

Corre l’anno 1909 quando Charles D. Walcott, paleontologo statunitense, rintraccia i primi fossili nelle argilloscisti di Burgess, fossili che arriveranno alla notevole cifra di 65.000 tra cui molti esemplari decisamente unici. Walcott raccoglie i fossili rintracciati nello Smithsonian Institution di Washington, dove è curatore e si occupa della nomenclatura. Come vedremo la galleria delle creature è stupefacente ma all’epoca non viene riconosciuta tale. Soltanto negli anni ’70 le scoperte di Walcott vengono rivalutate nella loro sorprendente varietà evolutiva.

I reperti risultarono così strani che a volte i paleontologi non avevano idea se si trattasse di organismi interi o di parti staccatisi, alcuni avevano cinque occhi e per alcuni non era chiaro quale fosse la parte anteriore e quella posteriore. Dubbi anche se fossero organismi ancorati al substrato o se potessero nuotare. Uno venne addirittura “ribaltato”.

Ma sbirciamo quindi nel Cambriano:

Opabinia (Credit Wikicommons)
Opabinia (Credit Wikicommons)

Opabinia è davvero un enigma affascinante: cinque occhi sul capo, un rostro flessibile che termina con una chela (forse anche con funzione di aspirazione), l’apparato boccale in posizione ventrale e raggiungibile dalla chela, i segmenti caudali che si organizzano in un timone, ogni segmento ha dorsalmente una doppia branchia respiratoria. Walcott pensò di trovarsi davanti un antico artropode o forse ad un anellide. Gould in un suo scritto afferma“nessuno ci ha insegnato tanto sull’evoluzione come Opabinia”. Estinto.

Anomalocaris (Credit Wikicommons)
Anomalocaris (Credit Wikicommons)

Il più impressionante mostro cambriano (quasi un metro di lunghezza) era stato inizialmente interpretato da Walcott come tre esseri diversi, per via della frammentazione dei resti fossili. Il nome deriva dall’ipotesi di trovarsi al cospetto di un insolito gambero, ma vi erano state viste anche caratteristiche tipiche degli echinodermi (il cetriolo di mare per citarne uno) e pure delle meduse. Con gli occhi peduncolati e appendici boccali protese in avanti si scoprì essere imparentato con Opabinia. Gli studi correnti sono concentrati sull’ipotesi di un numero limitato di specie, con dimorfismo sessuale degli apparati boccali, facenti parte del gruppo Dinocarida. Anche questo essere, che dominò i mari per milioni di anni, si estinse senza discendenza alcuna.

Hallucigenia (Credit Wikicommons)
Hallucigenia (Credit Wikicommons)

Hallucigenia un nome adatto per la creatura forse più enigmatica di Burgess Shale. Walcott l’aveva classificato come un verme polichete e l’aveva chiamato in origine Canadia sparsa.

Qui la classificazione era proprio un campo minato, l’essere dotato di sette coppie di spine le usava per camminare o erano difensive per cui la deambulazione era delegata ai sette tentacoli molli dall’altra parte del corpo? Era quindi il caso di ribaltare il punto di vista? Il capo poteva essere la globosità all’estremità? Un vero guazzabuglio. Negli studi degli anni ’70 Conway Morris, revisore delle conclusioni di Walcott, giunse a collocare l’essere nel gruppo degli attuali onicofori ma solo negli anni ’90 si decise di “ribaltare” l’essere, ribattezzato in Hallucigenia sparsa dal precedente studioso, anche grazie ad alcuni ritrovamenti comparativi delle modalità di ambulazione. Alcuni esperti, visto che i resti sono lunghi circa tre centimetri, ipotizzano che gli stessi siano parti di un organismo più grande non ancora rintracciato, un po’ come capitò a Walcott coi resti frammentati di Anomalocaris. Estinto.

Wiwaxia (Credit Wikicommons)
Wiwaxia (Credit Wikicommons)

 Wiwaxia  dall’aspetto ovale somiglia ad una conchiglia ben armata. Ma non c’è guscio calcareo, solo un organismo molle ricoperto di scleriti protettive, che si muoveva grazie a brachiopodi (corti organi di movimento ventrali). Qui è stato necessario creare un phylum ad hoc nuovo di zecca. Estinto.

E fino a qui alcuni di quelli che, per condizioni avverse, non ce l’hanno fatta. Presentiamo ora un paio dei fortunelli della lotteria evolutiva.

Aysheaia (Credit Wikicommons)
Aysheaia (Credit Wikicommons)

Aysheaia è dai più considerato il presunto antenato di tutti gli insetti. Walcott lo classificò come un verme anellide. Dopo svariate discussioni lo si colloca oggi tra i lobopodi ovvero proprio gli antenati più o meno diretti degli artropodi e degli onicofori (tra cui si ricordano i peripatidi).

Pikaia (Credit Wikicommons)
Pikaia (Credit Wikicommons)

Anche Pikaia venne da Walcott inserita negli anellidi. In realtà Conway Morris, verifico che gli anelli erano fasce muscolari tipiche dei cordati. La notocorda che si intravede è l’antenata della colonna vertebrale. L’animale, che è simile all’odierno anfiosso, è con ogni probabilità antenato dei vertebrati e dei mammiferi e pertanto anche nostro.

Alcune considerazioni escono da queste note; la vita è in continua e incessante evoluzione e pare evidente che non siamo certo noi l’apice del processo, il caso e l’imprevedibilità degli eventi (un grosso asteroide o l’ignorata prevedibilità di certi disastri ambientali) potrebbero anche favorire strade evolutive alternative e quindi esseri diversi.

Abbiamo inoltre origini umili, un verme di fondale. Dovremmo quindi quantomeno abbandonare atteggiamenti di presunzione e orgoglio e guardare al mondo con umiltà sempre rinnovata, con l’impegno di capire e tutelare, ma anche con un grande senso di gratitudine per essere parte di questo meraviglioso spettacolo.

http://burgess-shale.rom.on.ca/en/index.php

Insetti al servizio della legge: ovvero come funziona l’entomologia forense

Se non siete deboli di stomaco e la curiosità è il vostro stile di vita continuate a leggere come alcuni insetti siano davvero utili per le indagini medico-legali.

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Le mosche, in particolare le specie dette necrofage, sono utili nella datazione della morte specialmente quando si arriva tardi sul luogo del delitto e le indagini necroscopiche non possono più determinare il periodo post-mortem dalla temperatura degli organi (entro le dodici ore dal decesso) o da altri riscontri ematici e di rigidità.

Alcuni degli insetti che possono rivelarsi utili sono appartenenti alla famiglia dei ditteri calliforidi, oltre ad altre famiglie di insetti necrofagi (per lo più mosche e coleotteri).

I calliforidi sono mosconi compatti e veloci, in genere dotati di colorazione metallica blu/verde e sono anche noti come mosconi della carne. In Italia sono diffuse le specie Calliphora vomitoria e Lucilia caesar.

Calliphora vomitoria (Wikicommons)
Calliphora vomitoria (Wikicommons)

Al momento del rinvenimento del cadavere, il medico legale stima in maniera accurata le modalità di decesso quali omicidio, suicidio o incidente e l’ora della morte utilizzando la temperatura del corpo; quest’ultima cala nel tempo (circa mezzo grado/ora per le prime ore e un grado/ora nelle successive) ma risente anche della temperatura ambientale; verifica poi il raccoglimento del sangue nella parte bassa del corpo per via della gravità (lividi ipostatici) e il rigor mortis che dopo un certo tempo (24/48 ore) porta al rilassamento muscolare diffuso. In ambulatorio si può procedere con esami chimico-batteriologici e con l’autopsia agli organi interni che spesso permette, oltre che l’esame delle eventuali ferite, anche di verificare le patologie preesistenti.

Lucilia caesar (Wikicommons)
Lucilia caesar (Wikicommons)

In caso di ritardo nel ritrovamento del corpo, di oltre due giorni, entrano in scena le mosche. Le femmine sono attratte dall’odore ad oltre duecento metri di distanza e anche oltre, se siamo all’aperto e c’è vento a favore. L’ovideposizione è concentrata sulle ferite, nelle zone a cute sottile come palpebre, cavi ascellari e pieghe cutanee, se raggiungibili, oltre alle mucose. Nel giro di un paio di giorni si sviluppano le larve che nutrendosi aumentano di dimensioni. Le larve di colore bianco hanno uno sviluppo multistadio (instar nello schema) e sono dotate di piccole spine per spingersi in profondità nella carne, crescono rapidamente sino a quadruplicare il loro volume, poi si impupano al suolo nel giro di due settimane. La conoscenza precisa del ciclo dei ditteri sotto esame permette di risalire all’inizio dell’ovideposizione, in genere con un errore di circa un giorno.

Contrariamente a quanto si crede i cadaveri sotterrati sono difficilmente raggiungibili dalla maggior parte dei ditteri, mentre alcune specie ovideponendo sul terreno, possono colonizzare corpi a circa 10-15 cm di profondità.

La presenza di altri insetti a ciclo noto, che di solito si avvicendano sia sul cadavere che come parassiti dei demolitori primari, permette poi di confrontare le tempistiche e di dare un valore più certo sul momento del decesso. Si stimano mediamente in oltre duecento le specie animali che si andranno ad avvicendare (ditteri, coleotteri, formiche, vespe, blatte, acari, ragni e così via).

La mancanza di una specie, presente localmente ma assente sul cadavere, può fare supporre lo spostamento del corpo.

Queste situazioni su descritte non devono inorridirci ma rammentarci il funzionamento dell’ecosistema e l’importanza degli esseri adibiti alla trasformazione della sostanza organica.

Ovviamente tutti i rilievi devono tenere conto del contesto, quindi se ci si trova in campagna, in montagna, dentro abitazioni, oltre che del tipo di fauna e microfauna entomologica, della stagione, ecc. La temperatura è uno dei fattori limitanti lo sviluppo degli insetti, pertanto è opportuno rapportare le temperature reali, per i calcoli sull’ovideposizione, alle temperature medie ideali di sviluppo.

L’esame accurato degli insetti ed un’analisi gascromatografica degli stessi permetterà anche di verificare la presenza di arsenico, mercurio, veleni, farmaci e droghe da comparare, se possibile, con gli esami sulla vittima.

Termina qui questo piccolo viaggio nel misterioso mondo dell’entomologia forense, dove le scienze naturali danno una mano alle indagini di polizia, affinché il delitto perfetto lo sia sempre meno.

Marco Ferrari
28 giugno 2014

Tattiche di disimpegno dei moscerini della frutta

Se sorpresi dai predatori i piccoli moscerini della frutta attuano le stesse manovre evasive degli aerei da caccia. Nel bel mezzo di una curva sopraelevata, le mosche possono scartare su un fianco di 90 gradi o più, quasi volando a testa in giù. I ricercatori hanno usato una serie di telecamere ad alta velocità che operano a 7.500 fotogrammi al secondo per catturare il movimento delle mosche, dopo aver generato un’ombra che simula un predatore in avvicinamento.

time-lapse
Immagine in time lapse da un video ad alta velocità che mostra come una mosca della frutta, spaventata da un’ombra incombente (fuori campo in basso a destra) possa eseguire una rapida virata per evitare la minaccia. Credit: F. Muijres, University of Washington

“Anche se sono stati descritti come volatori tranquilli, le minuscole mosche in realtà possono “rotolare” i loro corpi proprio come aerei in virata e manovrare lontano da minacce imminenti”, spiega Michael Dickinson, professore di biologia e co-autore della ricerca.

“Abbiamo scoperto che i moscerini della frutta alterano il loro percorso in meno di un centesimo di secondo, 50 volte più velocemente del nostro batter d’occhi, decisamente molto più velocemente di quanto mai immaginato.”

Florian Muijres, un ricercatore post-dottorato e autore primario della ricerca afferma inoltre che:”Queste mosche normalmente sbattono le ali 200 volte al secondo e, in quasi un unico colpo d’ala, l’animale può riorientare il suo corpo per generare una forza adatta all’allontanamento dallo stimolo minaccioso e poi continuare ad accelerare in fuga”.

Le mosche della frutta, una specie chiamata Drosophila hydei che sono grandi poco più di un seme di sesamo, dispongono di un sistema visivo ad alta reattività per individuare i predatori che si avvicinano.

“Il cervello della mosca esegue un calcolo molto sofisticato, in un brevissimo lasso di tempo, per determinare dove sia il pericolo e reagendo adeguatamente sia con minaccia in arrivo di lato, frontalmente o posteriormente “, afferma Dickinson.

Drosophila hydei (Wikicommons)
Drosophila hydei (Wikicommons)

“Ma come può un cervello così piccolo generare comportamenti complessi? Una mosca con un cervello delle dimensioni di un granello di sale dispone di un repertorio comportamentale paragonabile ad un animale molto più grande come un topo. Comprendere questi meccanismi sarà molto interessante da un punto di vista ingegneristico”, ha detto Dickinson.

Ecco le modalità di ricerca; i ricercatori hanno sincronizzato tre telecamere ad alta velocità ognuna in grado di catturare 7.500 fotogrammi al secondo, o 40 fotogrammi a battito d’ali. Le telecamere si sono concentrate su una piccola regione nel mezzo di un’arena di volo cilindrica dove 40-50 moscerini della frutta svolazzavano liberamente. Quando una mosca passava attraverso l’intersezione di due raggi laser, esattamente al centro dell’arena, innescava un’ombra in espansione che obbligava la mosca ad effettuare una schivata per evitare una collisione o essere predata.

Come il cervello ed i muscoli della mosca controllino queste manovre evasive straordinariamente veloci e accurate è la prossima cosa che i ricercatori vorrebbero indagare, ha detto Dickinson. Occorre notare che a questa ricerca è interessata addirittura l’aviazione militare.

Marco Ferrari
15 giugno 2014

Progetto Life Mipp c’è bisogno anche di te…

Se siete naturalisti di nome e di fatto, potete fare la vostra parte nel progetto LIFE MIPP (Monitoring of insects with public participation) del Corpo Forestale dello Stato, che ha lo scopo di tutelare una cinquina di coleotteri italiani. A causa del degrado degli habitat naturali, infatti, alcune specie di insetti sono seriamente minacciate, conoscerne la dinamica di popolazione è utile per la loro tutela.

Fonte Life Mipp
Fonte Life Mipp

E’ quindi stato approntato un apposito sito:

http://lifemipp.eu/mipp/new/index.jsp

nel quale, dopo la registrazione, è possibile scaricare una app che permette di identificare, fotografare e segnalare gli insetti oggetto dello studio Osmoderma eremita, Lucanus cervus, Cerambyx cerdo, Rosalia alpina e Morimus funereus.

E’ uno dei primi esempi di scienza a partecipazione popolare che può aiutare la stesura di questo censimento entomologico e offrire un modo utile e interessante di vivere i nostri boschi.

Ogni segnalazione confluirà nel database nazionale per la Biodiversità del Ministero Ambiente.

Il progetto è coordinato dal Corpo Forestale dello Stato e finanziato dalla Commissione Europea; partecipano il Centro Nazionale Biodiversità Forestale di Bosco Fontana, l’Università La Sapienza di Roma, l’Università degli Studi Roma Tre, il Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, la Regione Lombardia e il Consiglio per la Ricerca e la sperimentazione in Agricoltura di Firenze.

Marco Ferrari
11 maggio 2014