Cancro: nuovo intervento con occhiali infrarossi ad alta tecnologia

Novità nel campo delle operazioni al cancro per la prima volta, negli Stati Uniti, i medici hanno rimosso la malattia indossando occhiali ad alta tecnologia realizzati ad hoc. L’intervento, com’è stato riportato dal giornale locale St Louis Post-Dispatch della città dove si è svolta l’operazione, è avvenuto lunedì scorso presso il Jewish Hospital di Saint Louis, nel Missouri, e ha permesso di togliere brillantemente tre linfonodi ad una paziente di 67 anni con cancro al seno.

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Un processo semplice, quello richiesto dalla tecnologia. Prima dell’operazione, infatti, è stato iniettato alla donna un particolare agente di contrasto in grado di colorare solo le cellule tumorali. Queste, hanno poi emanato una luce fluorescente in risposta ai raggi infrarossi mandati dagli occhiali al tessuto durante l’intervento. Gli specialisti, sotto la guida attenta di Julie Margenthaler, sono così riusciti a condurre un ottimo lavoro, riducendo il rischio di una seconda operazione proprio grazie alle speciali lenti high-tech.

Ennesima prova, questa, che la tecnologia ricopre davvero un ruolo fondamentale nel campo della chirurgia. Al momento, infatti, i medici, prima di operare, hanno sì la possibilità di eseguire delle risonanze magnetiche e radiografie per “mappare” il tumore, ma non godono delle tecniche di imaging quando usano il bisturi.

Gli occhiali sono poi stati testati sugli animali, ed è stato riscontrato che le lenti hanno permesso di visualizzare anche grumi tumorali piccolissimi, grandi appena un millimetro di diametro.

In attesa della sperimentazione, gli esperti hanno spiegato che, se questa tecnica dovesse venire approvata, verrà messo appunto su altre pazienti affette da tumore al seno o melanoma.

Come si legge sulla rivista scientifica Journal of Biomedic Optics, questo importante traguardo è stato reso possibile grazie alla collaborazione della struttura ospedaliera e la sede locale della Washington University School of Medicine.

Krizia Ribotta
18 febbraio 2014

Vitamine C ed E nemiche delle gare di resistenza

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Secondo uno studio condotto dalla Norwegian School of Sport Sciences di Oslo, l’assunzione delle vitamine C ed E prima di affrontare una gara di resistenza è una vera e propria controindicazione, in quanto sono in grado di modificare la reazione dei muscoli.

Per arrivare a questa scoperta, pubblicata sulla rivista scientifica Journal of Physiology, l’equipe ha condotto per 11 settimane un test su 54 atleti. Questi volontari, prima di ogni allenamento, hanno assunto una pillola contenente un grammo di vitamina C e 235 milligrammi di vitamina E o un placebo. Dosi, queste, pari a quelli che normalmente sono reperibili in commercio.

Dopodichè, i soggetti hanno effettuato un test di velocità, ed è emerso che i ragazzi che non avevano assunto integratori alimentari, hanno avuto una maggiore resistenza muscolare. Per gli altri, i risultati sono rimasti invariati.

Le anomalie si sono presentate nel momento in cui gli atleti si sono sottoposti alle analisi del sangue e a quello di un campione di tessuto muscolare.

È così emerso che coloro che avevano assunto le vitamine mostravano un numero minore di nuovi mitocondri, ovvero quegli organelli che si trovano all’interno delle cellule e che hanno il compito di produrre energia.

Al momento, sembra ancora essere sconosciuto agli scienziati il nesso tra il consumo delle due vitamine sopracitate e la minor produzione dei mitocondri, ma, come ha commentatoGoran Paulsen, tra gli autori della ricerca: “Questo indica che supplementi di vitamina C ed E debbano essere usati con cautela se si fa un allenamento di resistenza. Per capire il meccanismo serviranno studi ulteriori, ma l’ipotesi è che le vitamine interferiscano con l’espressione di alcuni geni”.

Questo proprio perché, seppure gli integratori ai dosaggi assunti non si sono rivelati nocivi per la salute, non hanno neppure migliorato in alcun modo la resistenza muscolare.

Krizia Ribotta
7 febbraio 2014

Pressione sanguigna alta? Se non trattata maggiori rischi nelle donne

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Secondo uno studio condotto dall’equipe di scienziati del Wake Forest Baptist Medical Center, la pressione sanguigna troppo alta risulta essere più pericolosa per le donne più degli uomini.

Come si può leggere sul numero di dicembre del magazine on-line Therapeutic Advances in Cardiovascular Disease, per la prima volta sono stati riscontrati delle differenze significative riguardo ai meccanismi che causano la pressione alta negli uomini e nelle donne.

Dall’analisi di un campione di cento volontari tra uomini e donne con un’età media di 53 anni e che non stavano seguendo alcun trattamento anti-ipertensivo, è emerso che il gentil sesso soffre dei disturbi vascolari circa il 30-40% in più degli uomini, a parità di pressione di sanguigna alta. I test specialistici per valutare lo stato di salute del cuore e dei vasi sanguigni, inoltre, hanno mostrato alcune differenze fisiologiche del sistema cardiovascolare da non sottovalutare, tra cui diversi tipi e livelli di ormoni coinvolti nella regolazione della pressione sanguigna.

Come precisato dagli scienziati: “La comunità medica ritiene che la pressione alta sia un problema identico per entrambi i sessi e i trattamenti si basano su questa premessa. La nostra è la prima ricerca a considerare il sesso come un elemento cardine nella scelta della giusta terapia con agenti antipertensivi”.

La ricerca è stata capeggiata da Carlos Ferrario, medico e professore di chirurgia presso la Wake Forest Baptist, che ha ribadito: “Questo è il primo studio che considera il genere sessuale come un elemento importante nella selezione di agenti antipertensivi, o nel basare la scelta di un farmaco specifico sui vari fattori che rappresentano l’elevazione della pressione sanguigna”.

Il principale autore di questa nuova scoperta, inoltre, ha voluto porre l’attenzione su un’altra questione: “I nostri risultati dello studio suggeriscono la necessità di comprendere meglio le basi specifiche dei processi ipertensivi nel sesso femminile per ritagliare trattamenti ottimali per questa popolazione vulnerabile- ha sottolineato- Abbiamo bisogno di valutare nuovi protocolli (quali farmaci, in quale combinazione e in quale dosaggio) al fine di trattare le donne con la pressione sanguigna alta”.

Naturalmente lo studio, visto il quantitativo di esaminati, risulta parzialmente attendibile se confrontato o riportato su una scala mondiale. Ricordiamo le ampie differenze date da variabili come l’alimentazione, l’attività fisica, l’etnia e quindi la genetica, l’area geografica di appartenenza e non per ultima l’attenzione medica nei processi di prevenzione e diagnosi. Se tuttavia, coadiuvato da altri studi si potrebbe pensare ad un interessante base per costruire un dato scientifico ad oggi non certo: in caso di pressione del sangue alta non trattata le donne rischiano maggiormente rispetto agli uomini.

Krizia Ribotta
20 gennaio 2014

Tumori: “bombe ad orologeria” per distruggerli

Secondo uno studio condotto dall’ Irccs Ospedale San Raffaele, sotto la direzione di Luigi Naldini, direttore dell’Istituto San Raffaele Telethon per la Terapia Genica, introducendo un gene terapeutico in alcune cellule del sangue, è possibile creare un ambiente ostile al tumore.

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Si tratterebbe di vere e proprie bombe ad orologeria nascoste in un “vettore” virale che, dopo averle trasportate a destinazione, le farebbe esplodere nei macrofagi, le cellule richiamate dal cancro per alimentare la sua crescita.

Il metodo utilizzato sarebbe quello con cui Naldini ha già dimestichezza, in quanto utilizzato per altri due casi di terapia genica in bambini affetti da gravi malattie genetiche, la leucodistrofia metacromatica e la sindrome di Wiskott-Aldrich. Come spiegato da lui stesso: “In questo nuovo lavoro abbiamo adattato la tecnica di trasferimento genico e ingegnerizzazione delle cellule del sangue al trattamento dei tumori”.

In particolare, l’equipe ha inserito nelle cellule staminali un gene in grado di svolgere “attività anti-tumorale nella loro progenie”, come legge sulla rivisita scientifica Science Translational Medicine, su cui è stato pubblicato lo studio. L’arma anti-tumorale è stata individuata nell’interferone alpha, una molecola che viene prodotta dall’organismo in risposta alle infezioni. La somministrazione classica attraverso iniezioni, flebo o pastiglie, avrebbe potuto causare effetti collaterali legati a problemi di intolleranza, quindi è stato necessario sviluppare un’alternativa.

La risposta è appunto stata il vettore virale, già sperimentato e quindi sicuro, che è stato modificato in laboratorio e ha seguito un iter ben preciso. Dopo essere stato caricato con il gene, viene indirizzato verso i macrofagi, che sono presenti nel sangue in grandi quantità nel caso in cui l’individuo abbia un tumore. Il che significa che la bomba ad orologeria non va a creare nessun tipo di effetto tossico per l’organismo, andando ad accumularsi solo dove può esercitare la sua funzione anti-tumorale.

L’esperimento è stato condotto sui topi, ed è stato possibile grazie anche alla collaborazione di Roberta Mazzieri, ricercatrice del San Raffaele recentemente trasferitasi all’Università del Queensland in Australia, ed è stato realizzato grazie ai finanziamenti dell’European Research Council (ERC), dell’Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro.

Krizia Ribotta
7 gennaio 2014

La dieta dell’Epifania, che i kg di troppo porta via

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Le feste stanno volgendo al termine, e secondo i dati elaborati dalla Coldiretti, gli italiani durante queste due settimane di Natale, sono ingrassati, assumendo circa 15-20mila calorie in più rispetto al fabbisogno quotidiano.

I cenoni sono decisamente stati extra-large, con un consumo nazionale complessivo di 20mila tonnellate di pasta, 100 milioni di chili tra pandori e panettoni, 6,5 milioni di chili tra cotechini, zamponi, frutta secca, pane, carne, salumi, formaggi e dolci. Per i brindisi vari sono state stappate 80 milioni di bottiglie di spumante, e gli italiani si sono trovati ad aver speso in totale quasi 4,2 miliardi di euro. Alla faccia della crisi.

Ma non solo: come souvenir dei momenti passati in compagnia a mangiare e bere, si sono ritrovati con 2 kg in più. Una stima per niente incoraggiante, che ha spinto l’associazione degli agricoltori a consigliare alcuni trucchi per riuscire a smaltire in breve tempo i kg in più senza dover ricorrere al rimedio estremo, che consiste nel saltare dei pasti.

Questo rimedio, infatti, a lungo andare, rischierebbe di diventare dannoso per il nostro organismo. Inoltre, una dieta corretta è sempre fatta con equilibrio, in modo che le rinunce ai dolci e agli altri peccati di gola risultino meno difficili. Così facendo sarà più semplice riuscire a resistere alle tentazioni e ad orientarsi verso altri cibi più genuini.

L’arma migliore per combattere i grassi, secondo la Coldiretti, è ricorrere a due alimenti a basso contenuto calorico: la frutta e la verdura, in particolare arance, mele, pere e kiwi, spinaci, cicoria, radicchio, zucche e zucchine, insalata, finocchi e carote.

“Nella dieta non vanno trascurati piatti a base di legumi (fagioli, ceci, piselli e lenticchie)- spiega l’organizzazione degli agricoltori- perché contengono ferro e sono ricchi di fibre che aiutano l’organismo a smaltire i sovraccarichi migliorando le funzionalità intestinali ma sono anche una notevole fonte di carboidrati a lento assorbimento, che forniscono energia che aiuta a combattere il freddo”.

Il nostro suggerimento è di seguire una dieta quanto più varia, ricca in cereali, legumi, frutta e verdura, di bere molta acqua e sopratutto di trovare, dopo questa pausa natalizia, l’energia per praticare attività fisica.

Krizia Ribotta
5 gennaio 2013

Masticare chewing gum provoca l’emicrania

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Secondo quanto emerso da uno studio condotto dai ricercatori del Meir Medical Center, dell’Università di Tel Aviv, gli adolescenti che masticano troppe gomme americane potrebbero essere più esposti al rischio di emicrania.

Gli esperti hanno condotto un esperimento coinvolgendo circa 30 adolescenti assidui masticatori e che presentavano problemi di mal di testa e cefalea tensiva. È poi stato chiesto loro di interrompere la masticazione di chewing gum per un mese, e al termine dei 30 giorni l’equipe ha riscontrato che ben 26 dei ragazzi avevano visto ridursi notevolmente l’emicrania.

Dopodiché gli scienziati hanno chiesto all’intero gruppo di ricominciare a consumare le gomme americane e hanno potuto riscontrare come il problema di cefalee fosse riapparso. Questo perché, stando a quanto riportato sulla rivista specializzata Pediatrics Neurology, la masticazione di questo tipo di sostanza mette sotto stress l’articolazione tra la mandibola e la zona temporale del cranio.

La prova del collegamento tra il masticamento del chewing gum ed il mal di testa è stata più che soddisfacente, e gli esperti ribadiscono quanto sia importante per la salute dei teenagers non consumare troppe gomme per evitare patologie sgradite che portano, conseguentemente, ad una minore concentrazione.

Affermazione, questa, che si dimostra essere opposta ai risultati di un altro studio, condotto questa volta dai giapponesi. Secondo i medici asiatici, infatti, la masticazione del chewing gum avrebbe aspetti positivi, in quanto renderebbe più intelligenti.

Questo perché la masticazione continua stimolerebbe il flusso di sangue nel cervello, fino ad aumentarne addirittura le capacità funzionali. Per arrivare a sostenere questa tesi, gli esperti hanno preso 17 volontari di età compresa fra i 20 e i 34 anni senza problemi di salute e li hanno coinvolti in una serie di esperimenti mirati alla valutazione della velocità del processo delle informazioni del cervello e la loro capacità di attenzione. Il test avrebbe dimostrato che la lucidità mentale è direttamente proporzionale alla masticazione.

Krizia Ribotta
31 dicembre 2013

Sindrome di Down: l’interazione con la fluoxetina potrebbe correggerne le alterazioni

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Secondo quanto sostenuto da un gruppo di ricercatori del Dipartimento di Scienze Biomediche e Neuromotorie dell’Università di Bologna, sarebbe possibile ripristinare lo sviluppo normale del cervello grazie ad un antidepressivo somministrato prima della nascita.

Lo studio, pubblicato sulla rivista di neuroscienze Brain, per la prima volta evidenzia come sia possibile correggere le alterazioni cerebrali e le disabilità cognitive causate dalla sindrome di Down, la malattia genetica ad alta incidenza provocata dalla triplicazione del cromosoma 21.

Renata Bartesaghi, team leader dell’equipe, ha spiegato come, anni fa, sono stati condotti i primi esperimenti sui topi modificati per replicare diverse caratteristiche tipiche della sindrome in questione, in modo da poter ripristinare il corretto sviluppo cerebrale tramite la somministrazione di un antidepressivo di largo uso, la fluoxetina.

La ricerca ha ottenuto ottimi risultati, e di conseguenza il team bolognese ha deciso di andare oltre, chiedendosi se il passaggio dagli animali all’umo sia poi così difficile. Questo per un semplice fatto: se fosse davvero possibile ripristinare durante la fase prenatale, lo sviluppo del cervello per mezzo di una terapia farmacologica? D’altronde è proprio durante la gravidanza che la maggior parte dei neuroni del cervello vengono generati nel feto, ad eccezion di quelli che interessano la regione ippocampica, che si formano dopo la nascita.

“Solo la sperimentazione clinica ci potrà dire, però, se tale terapia farmacologica, così efficace in questo modello di topo con sindrome di Down, potrà ottenere gli stessi positivi risultati sull’uomo” ha sottolineato Bartesaghi, facendo presente che gli studi proseguiranno proprio in tale direzione, in modo da tenere aperta ogni possibilità di prevenzione e cura contro la malattia.

Krizia Ribotta
14 dicembre 2013