Verso la pillola per imparare più velocemente
- Marco Ferrari
- 31 Marzo 2014
- Ricerca & Scienza
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Gli scienziati stanno mettendo a punto farmaci per migliorare le capacità del cervello.
Il principio attivo si chiama donepezil e viene in genere utilizzato per trattare il morbo di Alzheimer. Il farmaco è un inibitore della colinesterasi e agisce aumentando la quantità di acetilcolina a livello delle terminazioni nervose. Il farmaco si è dimostrato in grado di migliorare la memoria in pazienti con disturbi delle funzioni intellettive.
Alcune sperimentazioni hanno dimostrato che il donepezil permette al cervello di apprendere nuove abilità più velocemente e con minore sforzo, similmente a come da bambini si apprendono meglio le lingue rispetto all’età adulta.
Takao Hensch, un professore di biologia cellulare di Harvard, ha scoperto che i farmaci comportamentali come donepezil possono aiutare il cervello dei bambini nei cosiddetti “periodi critici” dello sviluppo (i periodi durante la prima infanzia, quando il cervello è in rapida crescita).
Hensch e i suoi colleghi hanno anche scoperto che il valproato, un farmaco antiepilettico, può aiutare gli adulti con scarse competenze in musica a meglio distinguere le note musicali. Lo studio è controverso sia per via del campione ridotto dei soggetti studiati, che potrebbe essere non significativo, sia per il fatto che alcuni soggetti potessero avere una qualche predisposizione verso la musica essendo di fatto agevolati; nondimeno un certo miglioramento pare essere stato comunque apprezzato.
Altri studi su bambini affetti da ambliopia (un’alterazione della visione dello spazio che viene a manifestarsi inizialmente durante i primi anni di vita) hanno dimostrato l’efficacia del donepezil nel miglioramento nella percezione degli stimoli visivi.
La ricerca di Hensch è uno degli esempi più interessanti di come la nostra comprensione della plasticità cerebrale stia migliorando. Fino a circa venti anni fa, gli scienziati pensavano che dopo aver raggiunto la pubertà la struttura del nostro cervello fosse ormai poco plasmabile; ma studi più recenti hanno dimostrato che il nostro cervello continua ad essere flessibile per tutta la vita, anche se non nella misura dei primi anni di vita.
“Il cervello non perde la sua plasticità con l’invecchiamento”, ha spiegato Hensch, “diciamo che in determinati momenti e condizioni rallenta la sua adattabilità”; in modo particolare nel caso di stress ambientale e sociale, e tali effetti possono essere anche profondamente deleteri.
Questa categoria di farmaci funzionano agendo su molecole, quali serotonina e acetilcolina, che con l’avanzare dell’età possono subire variazioni. La supplementazione, in sostanza, permette al cervello di “ricablarsi” meglio elaborando più efficacemente gli stimoli.
Una critica mossa a questi studi è il timore che spingendo chimicamente sulle capacità intellettive si possano causare dei “sovraccarichi cerebrali” dovuti ai farmaci; il rischio temuto è che migliorando le prestazioni intellettive si possa, d’altra parte, rendere più percettive le persone ai fattori di stress per via, appunto, dell’aumentata sensibilità. E l’ipersensibilità potrebbe comportare disagi mentali.
Forse allora aveva ragione Schopenhauer quando sosteneva che genio e follia hanno qualcosa in comune.