Un nuovo marcatore per la Sindrome di Sanfilippo

Scritto da:
Adele Guariglia
Durata:
1 minuto

La sindrome di Sanfilippo è la terza variante del gruppo di malattie da accumulo lisosomiale (famiglia di circa 50 patologie dovute a diversi tipi di difetti genetici, accomunate dalla caratteristica di determinare un accumulo sindrome san filippodi metaboliti o sostanze nei lisosomi con conseguente perdita di funzionalità cellulare). La mucopolisaccaridosi di tipo III conduce ad un rapido e grave deterioramento mentale. Si tratta di una patologia genetica rara provocata dalla carenza di enzimi che svolgono un compito di degradazione di alcuni tipi di carboidrati. Il deficit di questi enzimi ha come effetto l’accumulo progressivo delle sostanze nei tessuti e nelle cellule con gravi conseguenze sulla salute delle persone colpite. L’epoca di esordio della malattia è intorno ai 2-4 anni di età, con una sintomatologia rappresentata da: disturbi del comportamento (ipercinesia, aggressività) e deterioramento mentale, disturbi del sonno e dismorfismi molto lievi. Il coinvolgimento neurologico diviene più evidente intorno ai 10 anni, con perdita delle capacità motorie e problemi di comunicazione. Non sono note terapie specifiche efficaci. È possibile solo la diagnosi prenatale con la ricerca dei deficit enzimatici nel trofoblasto e nell’aminiocita durante la gravidanza.

Secondo i risultati di una recente ricerca americana, si verifica anche un accumulo di metaboliti secondari che partecipano all’aggravarsi delle condizioni cliniche del paziente.

“Per ora la scoperta non cambia le attuali terapie per la malattia, ma migliora la nostra conoscenza sui suoi meccanismi d’azione e sulle possibilità di diagnosi” hanno affermato i  ricercatori Lamanna ed Esko dell‘Università della California a San Diego in un recente articolo pubblicato sul Journal of Biological Chemistry.

La patologia è scatenata dalla carenza degli enzimi che presiedono al catabolismo degli glicosamminoglicani, gli zuccheri complessi sfruttati dal metabolismo per produrre i costituenti dei tessuti ossei, cartilaginei e connettivi.

“Un’interferenza con uno qualunque di questi passi del processo enzimatico porta a un accumulo di metaboliti che provocano la disfunzione lisosomiale. Le cellule diventano costipate, subiscono cambiamenti interni e funzionano male”, si legge nell’articolo. La progressiva degenerazione che si verifica provoca una serie di conseguenze sulle capacità mentali, fisiche, sulla funzionalità degli organi e anche sull’aspetto: “i tre farmaci disponibili sul mercato, peraltro estremamente costosi, surrogano il difetto genetico fornendo gli enzimi mancanti e possono evitare l’accumulo in molti organi, ma non nel cervello dato che non sono in grado di superare la barriera ematoencefalica”, ha precisato Esko.

Per giungere alle loro conclusioni, i due ricercatori statunitensi hanno analizzato l‘attività enzimatica nei fibroblasti, cellule presenti soprattutto nei tessuti connettivi, scoprendo appunto che oltre all’accumulo dell’eparansolfato, un tipo di glicosamminoglicano, c’è anche l’accumulo del dermatansulfate, un metabolita secondario.