La cometa si mette in mostra. La sonda europea Rosetta sta per raggiungerla

Una mattina di dieci anni fa, il 2 marzo 2004, stava per essere lanciato da Kourou, nella Guyana Francese, il razzo Ariane 5 che portava in orbita la sonda Rosetta dell’Agenzia Spaziale Europea per dare inizio al suo lungo viaggio verso la cometa nota come 67P/Churyumov-Gerasimenko. Questa missione, che al tempo era già in fase di progettazione da anni, ha il compito di rivelare i segreti delle comete, oggetti che, fino ad oggi, abbiamo potuto osservare solo da lontano.

Ciò che si sa delle comete è che sono corpi celesti composti da rocce, polveri e ghiaccio (da cui l’appellativo di “palle di neve sporche”). Ne sono state scoperte e viste molte in orbita attorno al nostro sole, tutte con periodi orbitali più o meno lunghi: la 67P/Churyumov-Gerasimenko è classificata come cometa periodica, cioè con periodi orbitali ridotti e da noi percepibili e documentabili: ogni 6.45 anni terrestri compie un giro attorno al Sole.

Tra i composti che sappiamo essere presenti in queste “palle di neve” ci sono, oltre a molti minerali che si suppongono rappresentativi della composizione generale del Sistema Solare (essendo nate insieme ai pianeti durante la condensazione della nebulosa da cui si è formato il resto del sistema), una grande quantità di acqua e sostanze come metano e anidride carbonica in forma solida. Ma non solo. Tra le molecole presenti sono stati registrati numerosi composti organici, ricchi di elementi che, sulla nostra Terra, sono alla base della vita: carbonio, idrogeno, ossigeno, azoto. Si pensa che siano presenti, congelate nelle comete, anche molecole più complesse come quelle che vanno poi a formare gli amminoacidi, i componenti delle proteine.

La cometa 67P/Churyumov-Gerasimenko vista il 30 aprile scorso da Rosetta. Il nucleo della cometa è di circa 4 km, mentre la chioma si estende già per più di 1300 km.
La cometa 67P/Churyumov-Gerasimenko vista il 30 aprile scorso da Rosetta. Il nucleo della cometa è di circa 4 km, mentre la chioma si estende già per più di 1300 km.

La tipica e spettacolare coda delle comete, che ci affascina nelle rare occasioni in cui riusciamo a vederle a occhio nudo (possiamo ricordare la ben nota cometa di Halley, nel 1986, e la famosissima e apprezzatissima cometa Hale-Bopp, nel 1997), è dovuta alla sublimazione degli strati più esterni ghiacciati. Passando vicino al Sole, infatti, le alte temperature fanno passare il ghiaccio direttamente in forma di vapore, spargendo così tutto ciò che era intrappolato all’interno della “palla di neve” nello spazio circostante in una specie di atmosfera che si deforma avvicinandosi alla stella.

Ed è proprio questo che sta accadendo, nelle ultime settimane, alla Churyumov-Gerasimenko: grazie al calore sempre maggiore che riceve dal Sole, si sta rapidamente formando la chioma della cometa, mentre il vento solare, formato da particelle ad alta energia, darà origine alla coda. Nonostante si trovi a una distanza che può sembrare grande, 600 milioni di chilometri (circa quattro volte la distanza tra la Terra e il Sole), la sua superficie sta già iniziando a riscaldarsi. 

Le straordinarie immagini che Rosetta sta inviando sulla Terra stanno aiutando gli scienziati che seguono la missione a sviluppare i modelli migliori per definire e progettare le prossime fasi, specialmente quelle finali, del volo di Rosetta.

Attualmente la sonda si trova a circa due milioni di chilometri di distanza dal suo obiettivo, ma nei prossimi mesi si avvicinerà sempre di più alla cometa, raccogliendo le informazioni da vicino, seguendola nel suo viaggio per il Sistema Solare, osservando le sue trasformazioni mentre viene vaporizzata dal calore del Sole e infine lanciando sulla sua superficie, nel prossimo novembre, il lander Philae, che si ancorerà alla cometa e analizzerà struttura e composizione del suo nucleo. Per fare ciò, quindi, la superficie della Churyumov-Gerasimenko dovrà essere nota agli scienziati, cosa che sarà possibile fare solo tramite le immagini e i dati che si avranno tra qualche mese.

Una delle scoperte che arrivano dagli ultimi dati ricevuti da Rosetta è il periodo di rotazione del nucleo della cometa: questo compie una rotazione su se stesso in 12.4 ore, un tempo inferiore di 20 minuti rispetto a quanto si credesse. Un dato fondamentale per la realizzazione della discesa del lander.

Il contributo italiano alla missione di Philae è fondamentale: è stato realizzato infatti nel nostro paese il dispositivo che perforerà il suolo della cometa e raccoglierà il materiale per poi distribuirlo agli appropriati strumenti di analisi del lander stesso.

Gli ultimi mesi del 2014 e il 2015 saranno molto importanti per questa storica missione: finalmente raccoglieremo immagini e dati per la prima volta direttamente da una cometa. E finalmente riusciremo a sapere qualcosa di più su questi oggetti così affascinanti. 

Giulia Pieraccini
20 maggio 2014

La storia esplosiva del pianeta Mercurio: una scoperta inaspettata

Per molto tempo si è pensato che il pianeta Mercurio non avesse avuto una lunga storia vulcanica, al contrario di altri pianeti, come la vicina Venere (tuttora ricoperta di vulcani notevolmente attivi) e la nostra Terra, in cui i vulcani, in passato, hanno contribuito alla formazione dell’atmosfera che ha favorito lo sviluppo della vita.

Due condotti vulcanici all’interno di un cratere di Mercurio. L’immagine sotto, in falsi colori, mostra i depositi piroclastici in marrone.
Due condotti vulcanici all’interno di un cratere di Mercurio. L’immagine sotto, in falsi colori, mostra i depositi piroclastici in marrone.

Si credeva che Mercurio non avesse potuto conservare al suo interno sufficienti quantità di gas tali da dare origine a esplosioni vulcaniche: durante la formazione del Sistema Solare, infatti, i pianeti più vicini al Sole, per le alte temperature, non sarebbero riusciti a trattenere gli elementi che avrebbero dato origine a molecole volatili come acqua o anidride carbonica. Sulla Terra è ben nota la correlazione tra i gas e l’attività vulcanica esplosiva: all’interno della camera magmatica di alcuni vulcani si accumulano gas e, quando la pressione diventa troppo elevata, esplodono. Sono, per questo motivo, i vulcani considerati più pericolosi sul nostro pianeta, come ad esempio il monte St. Helens, negli Stati Uniti, famoso per la disastrosa eruzione del 1980, e il Vesuvio, altrettanto famoso per la distruzione di Pompei del 79 d.C., ma anche per altre violente eruzioni avvenute in secoli più recenti.

La missione MESSENGER (MErcury Surface, Space ENvironment, GEochemistry and Ranging), lanciata nel 2004, ha analizzato e fotografato la superficie di Mercurio, rivelando un particolare inaspettato: la presenza di numerosi crateri e condotti vulcanici da eruzioni di tipo esplosivo, oltre a depositi di ceneri vulcaniche.

Il gruppo di ricercatori condotto da Timothy A. Goudge della Brown University di Rhode Island, USA, ha pubblicato i risultati dell’analisi dettagliata di queste immagini sul Journal of Geophysical Research: Planets.

I ricercatori hanno osservato e studiato 51 apparati vulcanici, analizzandone le dimensioni, le caratteristiche composizionali, il livello di erosione e la posizione.

È proprio la posizione ad aver mostrato una particolarità: quasi tutti gli apparati vulcanici, infatti, si trovano all’interno dei crateri da impatto di meteoriti; si sono perciò creati successivamente a tali impatti, o sarebbero, altrimenti, andati distrutti. Il motivo di questa disposizione è da attribuire al fatto che nei crateri la crosta del pianeta è assottigliata, favorendo così la risalita verso la superficie del magma e quindi dei gas che si trovano all’interno del pianeta.

Inoltre si pensa che Mercurio, a partire dalle prime fasi della sua vita, abbia subito dei fenomeni di contrazione per raffreddamento che avrebbero ridotto il suo diametro, oltre a una perdita degli strati più superficiali. La contrazione avrebbe provocato un inspessimento della crosta, facendo sì che fosse molto più semplice per il magma raggiungere la superficie nelle aree già alterate dai crateri.

La teoria della contrazione termica è supportata anche dalle dimensioni del nucleo stesso del pianeta, che sembra essere, in proporzione, molto grande se confrontato con quello di altri pianeti, oltre che dalla presenza di fenomeni tettonici antichi ma ancora visibili sulla superficie del pianeta.

La perdita degli strati più superficiali del pianeta potrebbe spiegare l’interruzione dei fenomeni vulcanici: potrebbero essere stati vaporizzati dalle intense radiazioni solari, essendo il pianeta così vicino al Sole, che si sarebbero così portate via anche i gas necessari alle esplosioni di magma.

I condotti vulcanici individuati sono stati datati, relativamente uno all’altro, a seconda del grado di erosione di ognuno. Se inizialmente si credeva che il vulcanismo Mercuriano fosse limitato ai primi milioni di anni di vita del pianeta, ci si è dovuti ricredere: gli apparati vulcanici possono essere datati in tutto un arco di tempo che va da più di 4 miliardi fino a circa 1 miliardo di anni fa: cioè dalla nascita stessa del pianeta (o poco dopo) fino a tempi molto più geologicamente recenti.

Questo studio stravolge le conoscenze su questo pianeta dalle condizioni termiche estreme, aprendo le porte a nuove ricerche non solo per quanto riguarda Mercurio stesso, ma anche per quanto riguarda un altro vicino corpo celeste che presenta strutture vulcaniche molto simili: la nostra Luna.

Giulia Pieraccini
9 maggio 2014

La crosta terrestre è più antica di quanto si credesse

Parlando dei primi “attimi” di vita del nostro pianeta è difficile fornire dati (e date) certi. Resti di quel tempo sono molto rari: 4,5 miliardi di anni fa la Terra era un globo di materiale quasi completamente fuso, ad alta temperatura e solo debolmente differenziato in un nucleo di elementi pesanti, un mantello e una sottile crosta. Orbitava in un sistema solare che era ancora poco più di un disco protoplanetario di frammenti e polveri.

Immagine di microscopio a falsi colori di uno zircone con 4 miliardi di anni. Di: John Valley.
Immagine di microscopio a falsi colori di uno zircone con 4 miliardi di anni. Di: John Valley

La Luna si stava per formare: la teoria più accreditata fa risalire la sua formazione a un impatto di enormi proporzioni tra la Terra e Theia, un corpo delle dimensioni di Marte originario dello stesso sistema. Dopodiché il pianeta si sarebbe gradualmente raffreddato, durante i successivi 600 milioni di anni, differenziandosi nuovamente e dando origine alla crosta che si sarebbe poi sviluppata fino a diventare più simile a quella che conosciamo oggi.

Tuttavia, anche se simile, nel corso dei miliardi di anni la crosta del nostro pianeta si è rinnovata più volte, andando a mescolarsi al mantello nelle zone di subduzione, formandosi negli oceani, deformandosi nella compressione del sollevamento di una catena montuosa.

Alcune delle rocce più antiche che possiamo trovare sul nostro pianeta sono nell’ovest dell’Australia, un’area particolarmente stabile e che si è potuta mantenere tale per più di 4 miliardi di anni.

Il gruppo di ricercatori guidato da John W. Valley, della University of Wisconsin, ha analizzato alcuni campioni contenenti cristalli di zircone provenienti da questo affioramento. Lo zircone, pur avendo una formula chimica semplice rispetto a molti altri minerali, riesce ad accogliere nel proprio reticolo cristallino una notevole quantità di elementi detti incompatibili, che cioè non andrebbero a formare nessun minerale, come ad esempio l’uranio.

L’elemento che si usa in questo tipo di datazioni è il piombo. Questo elemento ha un isotopo radiogenico, che si origina cioè per decadimento radioattivo dell’uranio dopo una serie di reazioni a catena che passano anche dal torio, a mano a mano che l’atomo perde neutroni cercando di raggiungere la stabilità. Per stimare un’età si misura la proporzione tra il piombo già presente e il piombo di origine radiogenica, più recente.

Una datazione di questi campioni era già stata effettuata con risultati che erano stati contestati ma, con questo ultimo studio, nuovamente confermati: gli zirconi hanno un’età di circa 4,374 miliardi di anni.

Inoltre, la cristallizzazione al bordo di questi cristalli indica un periodo di riscaldamento che può essere confermato dalla presenza di rocce di origine ignea e della stessa età affioranti nella stessa area. Anche le analisi sugli isotopi dell’ossigeno sono coerenti con questa datazione, messi in relazione con altri zirconi Adeani (l’Adeano è il periodo – o, meglio, eone – corrispondente ai primi seicento milioni di anni di storia terrestre). Quindi ogni dubbio sulla possibilità di avere valori non corretti e non affidabili è sciolto.

Un qualunque evento in grado di fondere l’intera crosta terrestre, quale il grande impatto che avrebbe dato origine alla Luna, non può essere successivo alla cristallizzazione di queste rocce, che altrimenti sarebbero andate perse.

Questi risultati fanno risalire il momento della formazione della crosta terrestre a circa 4,4 miliardi di anni fa, cioè solo 100 milioni di anni dopo la formazione del sistema Terra-Luna: la crosta terrestre è perciò più antica di quanto si credesse di ben 500 milioni di anni.

Giulia Pieraccini
23 marzo 2014