Ripensare il DNA spazzatura: nuove scoperte sul DNA noncoding
Il genoma, ovvero il codice genetico completo di un individuo è composto da circa tre miliardi di coppie di basi (adenina e timina, citosina e guanina) e codifica aminoacidi che legati assieme danno le proteine, indispensabili alla vita.
Queste basi formano la catena del DNA che aprendosi un po’ come una lampo permette di copiare le informazioni. Ora solo il 2% circa dell’intero genoma codifica per proteine, il resto è stato ritenuto inattivo. Per molto tempo non se ne comprendeva l’utilità tanto che si iniziò a chiamare questo 98% “DNA spazzatura”.
Ora se in un manuale di istruzioni composto da cento pagine ne possiamo leggere soltanto due in chiaro sorge il dubbio del perché lo scrittore abbia comunque rilegato tutte le altre pagine. Anche a livello evolutivo il tutto non aveva senso, la selezione naturale funziona anche sul DNA e solo i genomi più efficienti avrebbero dovuto sopravvivere. Poi, dopo svariati studi, si è iniziato a fare luce su questo genoma che non avrebbe dovuto esserci.
Partiamo dalle origini del DNA noncoding: una parte deriva da antichi virus con i quali l’uomo, nella sua evoluzione, è venuto a contatto e che hanno incorporato i loro codici genetici nel nostro genoma; questi virus sono piuttosto diffusi e infettano praticamente tutti i vertebrati. Sembra che gli effetti delle intrusioni da retrovirus siano quasi l’8% del genoma.
Sono poi stati rintracciati i retrotrasposoni, nome difficile per indicare altri segmenti virali che si riproducono con l’enzima trascrittasi inversa (cioè codificano a ritroso dal RNA al DNA – metodo tipico dei virus. Possiamo pensare al RNA come alla carta carbone che porta l’informazione copiata dal DNA) e che pare siano circa il 21% del genoma; poi ritroviamo altri segmenti noncoding come gli introni che separano le sezioni dei geni codificanti, i centromeri ed i telomeri rispettivamente al centro ed agli estremi dei cromosomi.
Infine gli studiosi hanno rintracciato i cosiddetti pseudo-geni che erano un tempo geni attivi ma sono poi decaduti, sono cioè le vestigia della nostra storia genetica e raccontano l’evoluzione (ne sono un esempio i geni della vista nelle talpe che, adattatesi al sottosuolo, avevano ormai una funzione obsoleta).
Chiarito di cosa si trattava iniziarono a farsi delle ipotesi sul ruolo del materiale noncoding tra cui un ruolo protettivo da mutazioni pericolose dovute a errori di ricombinazione. Altra ipotesi fu quella della riserva genetica da cui potrebbero evolvere nuovi geni, per esempio da un incrocio tra cromosomi in crossing-over (una sorta di scambio di porzioni di cromosoma) e parti del DNA noncoding; quindi una sorta di vocabolario in cui rintracciare nuove parole. Si ipotizzò poi un ruolo di regia della replicazione e quindi una funzione di controllo su come, quando e con che velocità codificare.
Poi una svolta grazie a studiosi svedesi del Karolinska Institutet: sono stati rintracciati nel DNA noncoding pseudo-geni che attiverebbero, se soggetti a mutazioni, tumori a organi quali seno e prostata. Se quindi è possibile identificare le singole mutazioni delle basi del DNA si potranno ricercare anche mutazioni che possono avere un ruolo in altre malattie a base genetica. I ricercatori hanno implementato un sistema informatico per la catalogazione di queste alterazioni.
Marco Ferrari
7 dicembre 2013