L’alcol aumenta i rischi di demenza per gli over 65

In base ai risultati di un recente studio, bere alcol, anche facendone un uso moderato, accrescerebbe il rischio di demenze, soprattutto in una certa fase della vita. Questa conclusione è emersa in base ai risultati raccolti dallo studio del Veterans Health Research Institute di San Francisco, presentato durante l’Alzheimer’s Association International Conference. Questa ricerca americana ha analizzato lo stato di salute di un gruppo di 1300 donne, a partire da 65 anni di età, nel corso di un’osservazione di circa 20 anni. Analizzando questo campione si è potuto osservare che il rischio di ammalarsi di disturbi che andavano dal lieve deficit cognitivo alla demenza era maggiore in quelle donne che bevevano più alcolici.

Inoltre, lo studio ha messo in evidenza che le donne che passavano dall’astinenza ad un consumo anche moderato di alcol entravano in una fascia di maggiore rischio per la loro salute. Anche le donne che di solito bevevano con moderazione (da 7 a 14 drink alcolici alla settimana) hanno comprovato di avere maggiori probabilità di sviluppare deficit funzionali del cervello e problemi relativi alla memoria, dei segni che preannunciano il rischio di una demenza. Grazie a questo campione si è registrato, inoltre, che le donne anziane bevevano alcol non come una forma di protezione; in base a questo loro comportamento, gli scienziati hanno dedotto che il cervello probabilmente, con l’avanzare dell’età, diventa più vulnerabile agli effetti dell’alcol.

Caterina Stabile

Il cervello suggerisce quali sono le carezze piacevoli

Le carezze che consideriamo piacevoli non vengono oggettivamente registrate dal cervello perché non sono le carezze in sé ad attivare l’area responsabile del piacere, ma i significati emozionali che gli attribuiamo, per questo alcune carezze piacciono di più rispetto ad altre. Infatti, l’area del cervello che si attiva quando qualcuno ci accarezza procurandoci piacere è la corteccia somatosensoriale primaria: una zona del cervello non interessata solo al senso basico del tatto, ma anche alle sue qualità emozionali. Quindi la valutazione del piacere dipende da chi ci coccola e dal contesto in cui ci si trova: le sensazioni tattili che provocano piacere non prescindono dalle emozioni che si avvertono in quel momento. Questa scoperta proviene da alcuni neuroscienziati del California Institute of Technology (Caltech), i quali hanno realizzato uno studio volto ad esaminare i legami tra tatto ed emozioni, positive o negative che siano, in base al soggetto che produce lo stimolo e a quello che lo riceve.

I ricercatori hanno sottolineato che il piacere provocato dalle carezze non è svincolato dal soggetto che le donava dopo avere misurato, attraverso uno scanner per la risonanza magnetica funzionale, l’attivazione cerebrale in soggetti di sesso maschile ed eterosessuali. I partecipanti hanno preso parte ad un esperimento che prevedeva la ricezione di carezze sulle gambe in due situazioni diverse: nella prima, mentre osservavano un video di una donna attraente chinata su di loro per accarezzarli; nella seconda, invece, osservavano un video di un uomo intento nella stessa attività. La mano che accarezzava era sempre la stessa mano femminile. I volontari hanno definito l’esperienza piacevole nel primo caso e spiacevole nel secondo caso e l’attività della corteccia somatosensoriale primaria ha evidenziato come l’esperienza fosse stata diversamente vissuta dai partecipanti. Michael Spezio, visiting professor al Caltech ha dichiarato: “Abbiamo dimostrato per la prima volta che questa area della corteccia, la regione cerebrale che codifica le proprietà di base del tatto (ruvido/liscio) è sensibile anche al significato sociale. Si è sempre pensato che ci fossero schemi separati per gli aspetti fisici del contatto fisico e per il modo in cui lo interpretiamo dal punto di vista emozionale, cioè piacevole o negativo. Lo studio dimostra invece che l’emozione è coinvolta negli stadi primari del tatto”.

 Caterina Stabile

 

Italiani-longevità: negli ultimi 50 anni abbiamo guadagnato 14 anni di vita

Gli italiani, tra il 1960 e il 2010, hanno guadagnato circa 14 anni di vita in più. Hanno favorito la longevità la prevenzione e la maggiore cura delle malattie cardiovascolari. Dagli anni ’80 ai nostri giorni si sono registrate ogni anno circa 42 mila morti in meno a causa di malattie cardiovascolari, si è ritardata l’età di insorgenza di molte malattie di cuore: le patologie che si avvertivano in passato attorno ai 55-60 anni, attualmente si verificano attorno ai 70 anni in forma meno grave rispetto al passato. Si ipotizza nel prossimo futuro un limite biologico di 120 anni, aggiungendo 40 anni di vita in più rispetto all’attuale vita media. Questi dati sono stati resi pubblici in occasione del primo congresso nazionale, svoltosi a Verona, della Società Italiana di Cardiologia Geriatrica (SICGe).


Il presidente SICGe, Niccolò Marchionni ha spiegato che: ”In 50 anni l’attesa di vita è cresciuta di 14 anni. I motivi sono presto detti: una maggiore prevenzione delle malattie cardiovascolari (solo questa incide per il 52% nella riduzione della mortalità), con maggior cura di ipertensione e ipercolesterolemia, successo delle campagne anti-fumo, e migliori cure e procedure della cardiochirurgia che hanno consentito di programmare interventi fino a qualche anno impensabili anche nei 70enni, oggi eseguiti con successo anche nei 90enni. Non possiamo dimenticare – prosegue Marchionni – che quelle cardiovascolari sono epidemiologicamente le patologie più rilevanti, quelle per cui si ricorre maggiormente all’ospedale e si muore di più, con un forte impegno economico per il sistema sanitario. Ecco perché abbiamo deciso di occuparci di questa popolazione sempre più numerosa con una società scientifica ad hoc”.

Aggiunge Alessandro Boccanelli, vicepresidente SICGe: ”Sempre più spesso ci troviamo a confrontarci con i problemi delle malattie di cuore associati con quelli tipici dell’età avanzata. Questo perché, in senso positivo, abbiamo creato dei ‘mostri tecnologici’. Dal punto di vista farmacologico, delle procedure, della prevenzione, abbiamo cioè portato le persone a vivere fino a 90 anni senza problemi. Ora dunque iniziamo a confrontarci con le avanguardie dei centenari sempre piu’ numerosi e in forma. A fronte di questo, però, non abbiamo riempito il vuoto che c’è tra la nuova aspettativa di vita e i vecchi problemi dell’anziano. Che resta tale per altre problematiche, di tipomotorio, cognitivo, per patologie di altri organi e per problemi socio-sanitari e organizzativi tipici dell’eta’ avanzata. Questa è la sfida del futuro”.

Marchionni, infine, conclude il suo intervento dichiarando che: ”I nonni oggi non sono più solo nonni, ma uomini e donne che organizzano la propria attività. Il passaggio al ‘se devo vivere di più tanto vale cercare di vivere meglio’ è stato quasi automatico. Con il risultato che la fitness dei 70enni di oggi è quella dei 50enni di ieri”.

Caterina Stabile

In aumento i casi di shock allergici nei bambini

Più di 17 milioni di persone in Europa soffrono di allergie alimentari, e circa 3,5 milioni hanno meno di 25 anni. Ma il dato più allarmante riguarda il fatto che sono principalmente i bambini a rischiare di più. Secondo i dati resi pubblici dall’Eaaci (l’Accademia europea di allergia e immunologia clinicale reazioni allergiche) le anafilassi che potrebbero essere letali per i più piccoli sono aumentate di sette volte negli ultimi 10 anni. Il rischio di uno shock anafilattico è più alto a scuola, dove si manifestano per la prima volta un terzo delle allergie: il contatto con cibi nuovi e potenzialmente pericolosi e l’incapacità degli insegnanti di far fronte a situazioni di questo genere rendono potenzialmente fatali gli episodi di anafilassi nei bambini. Per sensibilizzare su tale argomento, l’Eaaci ha lanciato una campagna contro le allergie alimentari con l’obiettivo di promuovere la conoscenza di tale problema, educando le persone a riconoscere i sintomi e le cause che li provocano, insegnando, inoltre, gli interventi di primo soccorso come l’utilizzo della penna adrenalinica salvavita.

Cezmi Akdis, presidente Eaaci spiega che: “Il primo elemento di questa campagna è il lancio degli ‘Standard minimi internazionali per i bambini allergici a scuola’, che stabiliscono i requisiti di base per la sicurezza. Crediamo di riuscire a formulare gli standard, e la loro versione del documento rivolta ai pazienti, entro i prossimi mesi”. Per seguire la campagna online, basta collegarsi al sito www.stopanaphylaxis.com, dove è disponibile anche materiale informativo da scaricare. Evocatica e significativa l’immagine simbolo dell’iniziativa che apre il portale: un bambino che sta per morsicare un pezzo di cibo e accanto lo slogan che recita “Dietro i più dolci momenti della sua vita potrebbe esserci un pericolo imminente”.

Un’atra priorità è quella di coinvolgere le autorità europee per apportare dei miglioramenti sulle etichette alimentari: le diciture riportate su alcune confezioni, del tipo ‘Può contenere arachidi’ o ‘Può contenere latte’, sono oggi utilizzate dai produttori non seguendo gli stessi criteri, si celano così diversi livelli di contaminazione e diversi livelli di rischio. Nell’Europa continentale la forma di allergia alimentare più diffusa fra i bambini sono quella da uovo, da latte di mucca e da noccioline, mentre negli adulti riguardano frutta fresca, noccioline e verdura. In Gran Bretagna, noci, nocciole e arachidi rappresentano la minaccia principale, causando il 50% di tutte le reazioni allergiche più importanti. In Scandinavia e nell’Europa del nord prevale l’allergia a crostacei e merluzzo. La campagna si propone anche un’ulteriore intento: evidenziare la differenza tra intolleranze e allergie alimentari: le intolleranze alimentari non coinvolgono direttamente il sistema immunitario, non possono essere misurate tramite il test per le allergie; mentre l’intolleranza al lattosio è un’ipersensibilizzazione non allergica e le reazioni agli addittivi alimentari sono per lo più non allergiche, i sintomi della ipersensibilizzazione non allergica sono più lievi e in rari casi provocano reazioni letali.

Caterina Stabile

Autismo: studio italiano sui pulcini per scoprirne le cause

Uno studio sui pulcini potrebbe far emergere le cause che provocano l’autismo. Il promotore di tale ricerca è Giorgio Vallortigara, direttore vicario del Centro Mente/Cervello dell’Università di Trento, che ha da poco tempo ricevuto un finanziamento economico da parte dell’European Research Council di 2,5 milioni di euro per un progetto sui meccanismi del comportamento sociale. Alla base dello studio c’è la considerazione che alcuni “primitivi” della mente, come la capacità di distinguere un viso da una figura simile o di percepire il movimento di un essere vivente, sono innati nel cervello, ossia sono già presenti al momento della nascita, ma nei bambini colpiti da alcune patologie come l’autismo risultano modificati. “L’intenzione è di condurre le ricerche in parallelo sul modello animale e su bambini nati da poche ore per capire innanzitutto quali sono le aree del cervello impegnate, e poi per cercare di comprendere in un secondo momento quali geni sono coinvolti – spiega Vallortigara -, questo potrebbe farci capire le cause dei disturbi di queste facoltà cognitive, per sviluppare ad esempio dei test non invasivi per una diagnosi precoce”.

Durante gli esperimenti si mostreranno ai soggetti, sia animali che umani, delle forme stilizzate di volti: “Sia il bambino di poche ore che il pulcino, che pur essendo molto diverso dall’uomo dal punto di vista filogenetico, ha caratteristiche cognitive simili all’inizio dello sviluppo, associano a un ovale con tre “macchie” disposte opportunamente la forma di un volto – sottolinea l’esperto – mentre questa associazione non viene fatta se, ad esempio, le tre macchie sono disposte non all’altezza degli occhi e della bocca. Noi mostreremo ai soggetti diverse figure, registrando quali aree nel cervello si accendono o rimangono spente in corrispondenza del riconoscimento”.

Il progetto sarà condotto nell’arco di cinque anni, consentendo l’assunzione di nuovi ricercatori da inserire nella ricerca alla quale si dedicherà il centro trentino: “Faremo un bando internazionale per 6-7 nuovi ricercatori – spiega Vallortigara – e in più apriremo delle collaborazioni soprattutto con istituti che si occupano dei bambini, per poter avere accesso ai soggetti da studiare a poche ore dal parto”.

Caterina Stabile

L’odore della pelle dei più anziani è più gradevole e meno intenso

La pelle ha uno specifico odore che caratterizza ogni individuo, inoltre, l’odore di ogni persona cambia con l’età ed il profumo naturale dei più anziani è più gradevole e meno intenso di quello dei cinquantenni o dei trentenni. Uno studio pubblicato su PLoS ONE, condotto dai ricercatori del Monell Chemical Senses Center di Filadelfia (Usa), ha rilevato tali dati. Per giungere a queste conclusioni, gli studiosi hanno valutato, a livello olfattivo, un campione di circa un centinaio di tamponi ascellari indossati da volontari appartenenti a differenti fasce d’età. I ricercatori sostengono che analogamente a quello che accade nel mondo animale, anche gli odori del corpo umano contengono un’ampia gamma di componenti chimici in grado di trasmettere diversi tipi di informazioni, e le caratteristiche percettive di questi odori sono destinate a cambiare nel corso della vita di ogni individuo dipendendo dalle concentrazioni di sostanze chimiche.

Johan Lundström, il primo autore della ricerca, ha spiegato che: “Come accade agli animali, anche gli uomini sono in grado di carpire i segnali degli odori corporei che permettono loro di individuare l’età biologica, di scegliere il partner adatto e di distinguere i familiari dai non familiari”. Gli scienziati hanno così presunto che gli odori legati all’età possano aiutare gli animali a scegliere i compagni adatti: i maschi più anziani potrebbero essere i più ricercati dagli esemplari dell’altro sesso perché considerati portatori di geni legati alla longevità, mentre le femmine più anziane, al contrario, potrebbero essere evitate per via della maggiore fragilità del loro sistema riproduttivo.

I ricercatori, inoltre, hanno invitato tre gruppi di persone composti da 12-16 persone divise in tre fasce di età (20-30 anni, 45-55 anni e 75-95 anni) a dormire per 5 notti con dei tamponi ascellari. I tamponi sono poi stati valutati da 41 giovani tra i 20 e i 30 anni, che sulla base delle tracce olfattive sono stati in grado di riconoscere gli individui più anziani, e solo in base a quelli le altre due categorie di età. “Le persone anziane hanno un odore percettibile sotto le ascelle che i giovani ritengono  piuttosto  neutrale e non molto spiacevole – spiega Lundström -. Tuttavia, è possibile che altre fonti di odori corporei, come la pelle o l’alito, risultino di diversa qualità”.

 In futuro sono previsti ulteriori altri studi per individuare i biomarcatori legati agli odori e per determinare come il cervello umano identifica e valuta, a sua volta, questo genere di informazioni.

Caterina Stabile

Il morbo di Chagas: l’Aids del futuro

Triatoma infestans: vettore del morbo di Chagas.

In un editoriale pubblicato su PLoS Neglected Tropical Disease, un gruppo di scienziati americani ha paragonato il morbo di Chagas all’Aids, evidenziando le analogie per quanto concerne le difficoltà diagnostiche e quelle relative alla cura. Il morbo di Chagas, che prende il nome dal medico brasiliano Carlos Chagas che la scoprì all’inizio del ‘900, è una malattia parassitaria tropicale, nota anche con il nome di “trypanosomiasi americana”, causata da un particolare genere di protozoi flagellati, il “Trypanosoma cruzi”, che per infestare il sangue di esseri umani ed animali utilizza come vettore un insetto, la cimice Triatomina, presente soprattutto nelle aree rurali dell’America Latina. Si stimano, attualmente, tra gli otto e gli undici milioni casi tra Bolivia, Messico, Colombia ed America Centrale. Sono stati registrati dei casi anche negli Usa, in Europa, in Canada ed in Giappone. Il morbo di Chagas può venire trasmesso da madre a figlio, durante la gravidanza e durante l’allattamento, o può venire contratta in caso di trasfusioni, trapianto di organi o ingestione di cibo infetto. Secondo gli autori dell’articolo pubblicato su PLos Neglected Tropical Disease le similitudini di condizione tra chi ha contratto l’Hiv e chi è stato infestato dal Trypanosoma cruzi sono parecchie: entrambe le malattie sono croniche, richiedono cure prolungate e riguardano le fasce più povere.

In America Latina i pazienti affetti da Aids sono circa 1,6 milioni a fronte dei circa dieci milioni che convivono con il morbo di Chagas. I Medici Senza Frontiere hanno sottolineato che alcuni Stati come il Paraguay e la Bolivia, dove la malattia è endemica, devono fare i conti con la scarsità dei farmaci che possono curare tale patologia nella fase iniziale. Il morbo di Chagas si sviluppa in due fasi: una acuta e l’altra cronica. La prima, che segue la puntura dell’insetto-vettore, si caratterizza per la presenza di alcuni sintomi quali: febbre, dolori articolari, nausea e affaticamento. Un segnale distintivo che facilita la diagnosi della patologia parassitaria è il “segno di Romaña”: un gonfiore delle palpebre dell’occhio che si trova sullo stesso lato della puntura dell’insetto. In rari casi, questa fase della malattia rappresenta un pericolo di vita per chi ne soffre, anche se sono state segnalate morti a causa di miocardite e meningo-encefalite. La sintomatologia del morbo di Chagas regredisce spontaneamente nel 90% dei casi, in tre/otto settimane. Nonostante la guarigione, l’infezione continua e diventa cronica. Si ritiene che una percentuale variabile tra il sessanta e l’ottanta per cento delle persone non arrivi a sviluppare la malattia, mentre il restante quaranta/sessanta per cento va incontro a gravi problemi nervosi, cardiaci e dell’apparato gastrointestinale.

Caterina Stabile