Un giallo risolto: i microbi del metano responsabili della ‘grande estinzione’

Resti fossili indicano che sulla Terra, intorno ai 252 milioni di anni fa, circa il 90 per cento delle specie furono improvvisamente spazzate via. Si trattò di gran lunga della più grande estinzione di massa mai conosciuta sul nostro pianeta, di cui fino ad oggi si è tentato ripetutamente di individuare il fattore responsabile.

Ora, un team di ricercatori del MIT (Massachusetts Institute of Technology) potrebbe aver trovato prove sufficienti per inchiodare il colpevole.

Soltanto, pare ci sarà bisogno di un microscopio, per poterlo vedere!

L’autore della ‘strage’ – suggerisce la nuova ricerca – non fu né un asteroide, né alcuna eruzione vulcanica, né incendi o carbonio, finora i probabili indiziati.

Un improvviso aumento delle temperature combinato all’acidificazione degli oceani e un aumento di metano simile a quello previsto negli attuali modelli di cambiamento climatico. Tutti gli organismi marini con gusci calcarei sarebbero stati spazzati via, in coerenza con l’osservazione che tali coperture non possono formarsi in acque acide. (credit: Fotolia)
Un improvviso aumento delle temperature combinato all’acidificazione degli oceani e un aumento di metano simile a quello previsto negli attuali modelli di cambiamento climatico. Tutti gli organismi marini con gusci calcarei sarebbero stati spazzati via, in coerenza con l’osservazione che tali coperture non possono formarsi in acque acide.
(credit: Fotolia)

Gli studiosi ritengono ora che si sia trattato piuttosto di una forma particolare di microbi, una forma appartenente ai Methanosarcina, microbi produttori di metano – che improvvisamente venne alla ribalta in maniera esplosiva negli oceani primordiali, riversando enormi quantità di metano nell’atmosfera e cambiando radicalmente sia il clima che la chimica degli oceani.

In questo nuovo scenario, comunque, i vulcani non restano del tutto incolpevoli. Solo, possono essere citati come corresponsabili del crimine.

La ragione di questa crescita improvvisa di questi microbi potrebbe imputarsi alla loro nuova capacità di utilizzare una nuova fonte di carbonio organico, favorito da un afflusso improvviso di nutrienti necessari per la loro crescita, il nichel, emesso da un massiccio vulcanesimo iniziato – ironia del destino – proprio in quel periodo.

Questa nuova ipotesi è stata oggetto di una pubblicazione negli Atti della National Academy of Sciences a firma di Daniel Rothman, docente di geofisica al MIT, del collega Gregory Fournier e di altri cinque ricercatori.

L’ipotesi degli scienziati si basa su tre insiemi indipendenti di prove.

Per prima, la prova geochimica mostra un aumento esponenziale, se non ancor maggiore, di anidride carbonica negli oceani al momento della cosiddetta ‘estinzione di fine-Permiano’.

La prova genetica mostra, al contempo, un cambiamento nelle popolazioni di Methanosarcina, cambiamento che permette loro di aumentare la produzione di metano, approfittando dell’accumulo dell’anidride carbonica nell’acqua.

Infine – terza prova – i sedimenti mostrano un improvviso aumento nella percentuale di nichel depositato in questo periodo.

Che si tratti di una fortuita, per quanto strana, combinazione? Può darsi. Sta di fatto che gli effetti si fecero sentire.

I depositi carboniosi dell’epoca mostrano che ‘qualcosa’ ha causato un aumento, piccolo ma significativo, della quantità di gas contenente carbonio – anidride carbonica e metano – prodotti al momento della grande estinzione di massa.

Alcuni ricercatori hanno ipotizzato che questi gas avrebbero potuto essere originati dalle eruzioni vulcaniche che hanno prodotto le ‘trappole della Siberia’, la vasta formazione rocciosa risultato delle colate laviche più estese viste sulla Terra.

Tuttavia, secondo i calcoli del MIT, queste eruzioni non sarebbero bastate a spiegare tutto il carbonio trovato nei sedimenti; non solo, ma i cambiamenti associati alla quantità di carbonio non si adatterebbero nemmeno al modello di origine vulcanica.

Allora?

“Un apporto iniziale e rapido di anidride carbonica da un vulcano sarebbe stata seguita poi da una graduale riduzione”, dice Fournier. “Invece, si assiste all’evento opposto: un rapido, continuo aumento”.

“Questo potrebbe far pensare ad un’espansione microbica”, aggiunge. “La crescita di popolazioni di microbi è tra i pochi fenomeni in grado di aumentare la produzione di carbonio in modo esponenziale, se non addirittura più veloce, come è accaduto”.

Ma se degli organismi viventi hanno prodotto tutto quel metano, che razza di organismi potevano essere e perché sono entrati in attività proprio in quel momento?

Questo è un interrogativo cui solo l’analisi genomica può dare una risposta.

Si è infatti scoperto che Methanosarcina aveva acquisito un mezzo particolarmente veloce di produrre metano, attraverso il trasferimento di geni da un microbo all’altro e una mappatura dettagliata della storia dell’organismo mostra ora che questo trasferimento è stato effettuato all’incirca verso la fine del Permiano, in coincidenza con la ‘grande estinzione’.

Ammesso che le condizioni fossero quelle ideali, questa acquisizione genetica avrebbe spianato la strada al microbo per una straordinaria crescita, favorita dal rapido consumo di una vasta riserva organica disponibile nei sedimenti oceanici.

C’è ancora un aspetto da chiarire. Questo organismi potevano accrescersi soltanto se avessero potuto disporre di una sufficiente quantità di nutrienti minerali. Ma il nutriente era disponibile, con la presenza di nichel, quel nichel che abbondava a seguito delle eruzioni vulcaniche, particolarmente efficaci, testimoni le famose eruzioni siberiane.

A questo punto, le condizioni per la crescita microbica c’erano tutte.

Una di queste prove, da sola, non dimostrerebbe niente, ma l’insieme di tutte quante avrebbe potuto costituire il cocktail micidiale per l’innesco della ‘strage’.

Forse non sarà una dimostrazione definitiva, ma questa ricostruzione fa escludere alcune teorie alternative, secondo Rothman, e pone le basi perché il ‘caso’ sia da considerare seriamente.

Leonardo Debbia
3 aprile 2014

Costa cervicale nei mammut potenziale causa di avvio all’estinzione

Ricercatori olandesi hanno osservato recentemente che nei mammut rinvenuti nel Mare del Nord compare un carattere fisico, probabilmente sfavorevole per la sopravvivenza, con molta più frequenza di quanto si ritrovi negli elefanti moderni.

I resti di mammut lanosi provenienti da quella parte di Europa mostrano infatti la presenza di una ‘costa cervicale’ con una frequenza dieci volte maggiore rispetto agli elefanti moderni (33,3 per cento contro il 3,3 per cento).

Il punto indicato dalla freccia sulla vertebra cervicale fossile di un mammut lanoso è la sede dell’articolazione di una costa cervicale. (credit: Joris van Alphen, Museo di Storia Naturale di Rotterdam)
Il punto indicato dalla freccia sulla vertebra cervicale fossile di un mammut lanoso
è la sede dell’articolazione di una costa cervicale.
(credit: Joris van Alphen, Museo di Storia Naturale di Rotterdam)

Negli animali moderni queste coste cervicali vengono spesso ritenute come un possibile effetto della consanguineità o di condizioni ambientali particolari, attraversate dalle madri durante la gravidanza.

Se gli stessi fattori che si riscontrano oggi avessero agito anche in passato e fossero correlabili con le anomalie scheletriche riscontrate nei mammut, si potrebbe ipotizzare che questo stress riproduttivo abbia costituito un’ulteriore spinta al declino delle popolazioni di mammut, favorendone l’avvio verso l‘estinzione definitiva.

Le vertebre del collo dei mammiferi sono quasi sempre sette, sia che formino il lungo collo delle giraffe che il collo corto dei delfini..

A questa regola fanno eccezione solo i bradipi, i lamantini e i dugonghi.

Tuttavia, queste vertebre, normalmente, non presentano alcuna costa. La presenza di una costa cervicale, una costa, cioè, attaccata alla vertebra cervicale, è un evento insolito e può diventare, nel caso dei mammut, un’occasione per ulteriori indagini.

Una costa cervicale, di per sé, è relativamente innocua, ma il suo sviluppo è dovuto sempre a disturbi genetici o ambientali verificatisi durante lo sviluppo embrionale precoce.

Le coste cervicali della maggior parte dei mammiferi vengono associate con feti nati morti o con molteplici anomalie congenite che influiscono poi negativamente sulla durata della vita di un individuo.

I ricercatori del Museo di Storia Naturale di Rotterdam e del Naturalis Biodiversity Center di Leiden, visitando centinaia di collezioni museali europee, hanno esaminato le vertebre del collo dei mammut, comparandolo con quello degli elefanti moderni.

“La nostra curiosità era stata suscitata dalla scoperta di due vertebre cervicali con ampie sfaccettature che favorivano l’articolazione delle coste nei campioni di mammut recentemente ritrovati nel Mare del Nord”, ha affermato Jelle Reumer, uno degli autori dello studio, pubblicato sulla rivista ad accesso libero PeerJ.

“Sapevamo che questi erano stati gli ultimi mammut che avevano vissuto in quella regione, così abbiamo sospettato che potesse esserci qualche relazione”, continua lo studioso. “Ora, il nostro lavoro mostra che effettivamente qualche problema si deve essere presentato in quella popolazione”.

L’incidenza di vertebre cervicali anormali nei mammut è molto superiore nei campioni più moderni, e questo potrebbe indurre a pensare ad una condizione di vulnerabilità della specie.

Potenziali fattori potrebbero includere, come già accennato sopra, la consanguineità (in quella che si presume debba essere già stata una piccola popolazione), così come condizioni di vita difficili, legate a malattie, alla fame o al freddo, ognuno dei quali poteva portare a disturbi dello sviluppo embrionale e fetale.

Dati i notevoli difetti di nascita che sono stati associati a queste condizioni, è molto probabile che le anomalie dello sviluppo possano aver contribuito all’eventuale estinzione dei mammut nel tardo Pleistocene.

Leonardo Debbia
2 aprile 2014

L’Amazzonia assorbe più carbonio di quanto ne emetta

Un nuovo studio della NASA, condotto per sette anni, ha confermato che le foreste naturali dell’Amazzonia assorbono più anidride carbonica dall’atmosfera di quanta ne emettano, contribuendo, in tal modo, ad una riduzione del riscaldamento globale.

Questa scoperta mette forse la parola fine ad un dibattito di lunga data sul bilancio globale del carbonio nel bacino amazzonico.

amazzonia

Il bilancio del carbonio dell’Amazzonia non è una questione da poco. Anzi! Diciamo che è letteralmente una questione di vita o di morte, dal momento che coinvolge gli alberi e la loro esistenza.

Gli alberi – è risaputo – vivono e prosperano grazie all’assorbimento di anidride carbonica durante la loro crescita. Più alberi ci sono, più anidride carbonica viene sottratta dall’atmosfera.

E questo è un vantaggio per noi, ora come ora.

Quando gli alberi muoiono, però, con la decomposizione del legno tornano a liberare anidride atmosferica nell’aria.

E questo è un apporto che, attualmente, preferiremmo diminuisse.

Il nuovo studio, pubblicato su Nature Communications, è il primo a quantificare il numero degli alberi morti per processi naturali in tutta la foresta amazzonica, anche in aree remote dove non erano mai stati raccolti dati sul terreno.

Fernando Espirito-Santo, ricercatore del Jet Propulsion Laboratory della NASA di Pasadena, in California, autore principale dello studio, ha ideato nuove tecniche mediante analisi satellitari, scoprendo che ogni anno gli alberi amazzonici morti emettono da 1,7 a 1,9 miliardi di tonnellate di carbonio nell’atmosfera.

Per confrontare questa massiccia immissione con l’assorbimento di carbonio atmosferico e sottraendo la CO2 emessa da quella ‘consumata’ dalle piante per vivere e stimare quindi il bilancio generale della regione amazzonica, i ricercatori hanno utilizzato i censimenti della crescita delle foreste e i diversi scenari frutto delle modellazioni al computer per rappresentare le eventuali incertezze di calcolo.

In ogni scenario, l’assorbimento del carbonio da parte degli alberi viventi compensava le emissioni degli alberi morti, indicando che l’effetto prevalente nelle foreste dell’Amazzonia è l’assorbimento.

Il bacino del Rio delle Amazzoni, quindi, è realmente un ‘polmone verde’, che toglie carbonio dall’atmosfera e assume quindi una funzione di ‘mitigatore’ nell’attuale processo di riscaldamento globale.

L’idea della ricerca che ha prodotto questi risultati nacque nel 2006, anno in cui agli scienziati che studiavano generiche applicazioni per gli strumenti della NASA venne l’idea di studiare meglio il ciclo del carbonio nel bacino del Rio delle Amazzoni.

Da allora, il ricercatore Espirito-Santo, avvalendosi dell’ausilio di 21 co-autori sparsi in cinque Paesi diversi, studiò i dati che gli pervenivano dal LIDAR (la tecnica di telerilevamento a impulsi laser), dalle immagini satellitari e da un insieme di osservazioni eseguite dall’Università di Leeds, in Inghilterra, per un intero decennio.

Non fu un compito facile correlare le immagini satellitari con i dati delle osservazione da terra, dato che, ad esempio, gli alberi caduti creano un vuoto nella copertura forestale che può essere osservato solo dall’alto e il colore del legno morto interferisce con le osservazioni.

“Abbiamo scoperto che le grandi perturbazioni naturali, scaturite da incendi, uragani o altri fenomeni fisici, hanno solo un piccolo effetto sul ciclo del carbonio, praticamente non più del due per cento”, afferma Sassan Saatchi, coordinatore del progetto.

E’ corretto precisare però che in Amazzonia sono stati considerati solo i processi naturali, tralasciando il risultato di attività antropiche, come la deforestazione o gli apporti inquinanti, che variano in seguito a condizioni politiche e sociali particolari.

Concludendo, è da sottolineare il grande contributo che la NASA ha dato a questa ricerca, come del resto a tutte le osservazioni delle aree terrestri ‘sensibili’, che possono contribuire ad una maggior conoscenza e consentire un più attento controllo delle attività che si svolgono sul nostro pianeta.

Leonardo Debbia
30 marzo 2014

Aumenta la fusione di ghiaccio in Antartide

Secondo una nuova ricerca, sei enormi ghiacciai in Antartide occidentale si muovono più velocemente di 40 anni fa, facendo affluire più ghiaccio sulla costa e provocando così un aumento di livello del mare.

La quantità di ghiaccio che fonde, nell’insieme, è aumentata del 77 per cento nel 2013 rispetto al 1973, riferiscono gli scienziati in un articolo pubblicato su Geophysical Research Letters, una rivista della American Geophysical Union.

L’immagine satellitare del Pine Island Glacier mostra una frattura del ghiaccio lunga 18 miglia. I ricercatori misurano costantemente le fratture del ghiaccio per calcolare l’accelerazione annua e quindi la velocità di avanzamento del ghiacciaio (credit: NASA)
L’immagine satellitare del Pine Island Glacier mostra una frattura del ghiaccio lunga 18 miglia. I ricercatori misurano costantemente le fratture del ghiaccio per calcolare l’accelerazione annua e quindi la velocità di avanzamento del ghiacciaio (credit: NASA)

Pine Island Glacier, il più attivo dei ghiacciai studiati, ha accelerato del 75 per cento in 40 anni, secondo la rivista.

Thwaites Glacier, il ghiacciaio più esteso, ha iniziato ad accelerare nel 2006, dopo un decennio di stabilità.

“Lo studio è il primo ad esaminare la quantità di ghiaccio che si è maggiormente sciolta nell’ Antartide occidentale durante un arco tempo così lungo”, ha detto Jeremie Mouginot, glaciologo presso l’Università della California, Irvine, co-autore della ricerca. “Quasi il 10 per cento dell’aumento annuo di livello del mare dipende da questi sei ghiacciai”.

I ricercatori hanno studiato i ghiacciai Pine Island, Thwaites, Haynes, Smith, Pope e i ghiacciai di Kohler, praticamente tutti quelli che scaricano le loro acque in una vasta baia conosciuta come Baia del Mare di Amundsen, nell’Antartide occidentale.

La quantità di ghiaccio annua compresa in questi sei ghiacciai è paragonabile alla quantità di ghiaccio dell’intera calotta della Groenlandia, secondo Mouginot. Qualora questa massa imponente si sciogliesse completamente, il livello dei mari si innalzerebbe di 1,2 metri, secondo il parere Mouginot e di Eric Rignot, suo collega.

“Questa regione è un punto basilare per la perdita di ghiaccio antartico, a causa dei bassi fondali. L’unico sostegno che regge in quest’area è dovuto alla calotta di ghiaccio”, afferma Robert Thomas, un glaciologo dell’impianto della NASA Wallops Flight, di Wallops Island, Virginia, che non fa parte del team di ricerca.

Questi banchi di ghiaccio sono parti della calotta galleggiante, che si formano nella zona in cui il ghiacciaio entra in mare. Nell’Antartide occidentale questi banchi impediscono ai ghiacciai oggetto dello studio di scivolare più velocemente nell’oceano.

Mouginot e colleghi si sono serviti dei dati satellitari per esaminare le immagini dei ghiacciai dal 1973 al 2013. Gli studiosi hanno calcolato la velocità dei ghiacciai, soprattutto monitorando le variazioni delle crepe nel ghiaccio, per determinare la distanza coperta dal flusso di mese in mese e di anno in anno.

Lo studio ha riguardato i sei ghiacciai globalmente, ma ha anche rilevato cambiamenti senza precedenti per ogni ghiacciaio. Thwaites Glacier, il più grande dei sei, con la sua larghezza di 120 chilometri, è rimasto stabile per quasi un decennio fino al 2006, quando la sua velocità è ripresa a 0,8 chilometri all’anno, un aumento del 33 per cento, secondo lo studio.

Fra tutti, il ghiacciaio Pine Island è stato quello che ha mostrato una accelerazione maggiore, con un aumento di 1,7 chilometri all’anno, un aumento del 75 per cento della velocità, da 2,5 chilometri all’anno del 1973 ai 4 del 2013.

Sia il Thwaites Glacier che il Pine Island sono i maggiori tributari di ghiaccio, costituendo da soli i tre quarti della massa totale documentata nello studio.

Tuttavia, i tassi di perdita di ghiaccio hanno caratterizzato ancor più i ghiacciai più piccoli, come lo Smith e il Pope che dal 1973 hanno quasi triplicato la quantità di ghiaccio disciolto nell’oceano.

Il team ha scoperto poi che il Pine Island Glacier sta accelerando lungo tutto il suo sistema di drenaggio fino a 230 Km dalla costa.

“Questo dato è importante perché dimostra che il ghiacciaio può ‘sentire’ quello che sta accadendo”, dice Thomas. “Per spiegarci meglio, l’impatto e la rottura della distesa di ghiaccio al momento dell’incontro con l’acqua di mare propaga la spinta ricevuta, facendola percepire lungo la corrente ghiacciata a distanza nell’entroterra”.

“Quest’ultima scoperta induce a rivedere i modelli dell’accelerazione dei flussi di ghiaccio”, conclude Thomas.

Leonardo Debbia
28 marzo 2014

Global warming. Cicli geologici controllano il clima

Ricercatori della University of Southern California (USC) e della cinese Nanjing University hanno documentato prove che se la Terra non ha un’atmosfera soffocante come Venere, né una temperatura di superficie come quella di Marte lo si deve ad un meccanismo regolatore dell’anidride carbonica, i cicli geologici, che plasmano la superficie rocciosa del pianeta.

Uno studio congiunto USA - Cina dimostra che se la Terra non ha condizioni estreme simili a Marte o a Venere si deve a cicli geologici che regolano il bilancio tra emissione e assorbimento di anidride carbonica (credit: NASA Goddard Space Flight Center)
Uno studio congiunto USA – Cina dimostra che se la Terra non ha condizioni estreme simili a Marte o a Venere si deve a cicli geologici che regolano il bilancio tra emissione e assorbimento di anidride carbonica (credit: NASA Goddard Space Flight Center)

Gli scienziati sanno da tempo che la roccia ‘nuova’, quella spinta in superficie dalla formazione

delle montagne, agisce efficacemente come una sorta di spugna, assorbendo i gas serra come l’anidride carbonica.

Se fosse stato lasciato incontrollato, tuttavia, questo processo avrebbe esaurito tutta la CO2 atmosferica e la Terra sarebbe precipitata in un inverno eterno nel giro di pochi milioni di anni, durante la formazione delle grandi catene montuose come quelle dell’Himalaya.

Cosa che non è avvenuta.

E mentre i vulcani sono stati a lungo indicati come fonti di biossido di carbonio, con le loro emissioni, da soli, non avrebbero potuto bilanciare l’assorbimento di CO2 delle catene montuose.

Invece, si scopre che la nuova roccia, esposta dal sollevamento orogenetico, emette carbonio attraverso un processo di alterazione chimica che va ad aumentare i livelli di anidride carbonica nell’atmosfera.

“La nostra presenza sulla Terra dipende da questo ciclo del carbonio: Questo è il motivo per cui la vita è in grado di sopravvivere”, dichiara Mark Torres, ricercatore presso l’USC Dornsife College of Letters, Arts and Sciences, nonché presso il Center for Dark Energy Biosphere Investigation (C-DEBI), autore dello studio pubblicato su Nature in collaborazione con Joshua West , professore di Scienze della Terra alla USC Dornsife e con Gaojun Li, della Nanjing University in Cina.

Mentre l’aumento di anidride carbonica atmosferica di origine antropica sta attualmente guidando cambiamenti significativi nel clima della Terra, il sistema geologico ha mantenuto il suo bilancio per milioni di anni.

“La Terra è una sorta di ‘riciclatore naturale’”, afferma West, che insieme a Torres, ha studiato le rocce prelevate dalla catena montuosa delle Ande, in Perù, scoprendo che i processi atmosferici che interessano le rocce avevano rilasciato molto più carbonio di quanto stimato in passato, risultato che ha spinto i due studiosi a considerare le implicazioni globali del rilascio di CO2 durante la formazione delle montagne.

I due ricercatori hanno notato che la rapida erosione sulle Ande aveva esposto all’azione dell’atmosfera abbondante pirite – il minerale lucido conosciuto come ‘l’oro degli stolti’, a causa del suo aspetto ingannevole – e l’alterazione chimica che ne era derivata aveva prodotto nel tempo acidi che avevano prodotto a loro volta il rilascio di CO2 da altri minerali.

Queste considerazioni hanno indotto a rivedere il ruolo dell’origine e dell’aumento di anidride carbonica alla luce di quanto era emerso.

Come molte altre grandi catene montuose, ad esempio l’Himalaya, le Ande cominciarono a formarsi durante il periodo Cenozoico, 60 milioni di anni fa, e questa orogenesi è avvenuta in concomitanza con una importante perturbazione nel ciclo dell’anidride carbonica atmosferica.

Utilizzando le registrazioni marine del ciclo del carbonio sul lungo termine, Torres, West e Li hanno ricostruito l’equilibrio tra il rilascio e l’assorbimento della CO2 causato dal sollevamento delle grandi catene montuose, scoprendo che il rilascio di anidride carbonica da parte della roccia a causa degli agenti atmosferici ha giocato un ruolo importante, e finora sconosciuto, nella regolazione della concentrazione di anidride carbonica atmosferica negli ultimi 60 milioni di anni.

Leonardo Debbia
25 marzo 2014

Sulle Montagne Rocciose si allunga la stagione della fioritura

Uno studio durato 39 anni sui fiori selvatici di un prato delle Montagne Rocciose, in Colorado, mostra che più di due terzi dei fiori alpini hanno cambiato tempi e modi di fioritura in risposta ai cambiamenti climatici.

Non soltanto la metà dei fiori inizia a sbocciare settimane prima, ma più di un terzo anticipa il picco di fioritura prima del tempo, mentre i rimanenti raggiungono le loro ultime fioriture già nel corso dell’anno.

La stagione della fioritura, che solitamente durava da fine maggio ai primi di settembre, ormai si è allungata dalla fine di aprile alla fine di settembre, secondo David Inouye, docente di Biologia presso l’Università del Maryland.

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Crested Butte, Colorado. Fiori come questi attirano migliaia di turisti. Dal 1974 la stagione della fioritura si è anticipata di un mese e ha una durata più lunga, a causa del clima più caldo (credit: David Inouye)

Osservazioni e registrazioni di più di due milioni di fiori selvatici sulle Montagne Rocciose, dimostrano che la fioritura delle piante in risposta al cambiamento climatico è ben più complessa di quanto si sia ritenuto finora, con diverse specie che rispondono in modi del tutto inaspettati.

Le combinazioni delle specie di fiori che sbocciano tutte insieme stanno cambiando troppo, con potenziali impatti sugli insetti e sugli uccelli.

Gli studi che si concentrano solo sulla data della prima fioritura – come molti fanno – sottovalutano questi cambiamenti, afferma Inouye, l’autore principale dello studio, pubblicato qualche giorno fa sulla rivista on line Proceedings of the National Academy Acts of Sciences.

La fenologia, la scienza che si occupa della classificazione e della registrazione degli eventi rilevanti nello sviluppo degli organismi, in particolare per quelli incapaci di regolare la propria temperatura in modo indipendente da quella ambientale, come piante e insetti, è fondamentale per capire come il cambiamento climatico stia influenzando le piante, gli animali e le relazioni che li legano nelle comunità naturali.

Per poter ottenere ulteriori risultati dall’esame di questo fenomeno, gli studiosi stanno raccogliendo dati attuali, confrontandoli attentamente con le vecchie registrazioni come, ad esempio, gli appunti dei naturalisti dilettanti.

“La maggior parte degli studi effettuati si basa sulle prime date di eventi accaduti, come la fioritura o la migrazione, utilizzando un insieme di dati che sono però storici, non scientifici”, dice Inouye. “La prima fioritura è facile da osservare. Non si deve prenderci cura di contare i fiori. Questa spesso è l’unica informazione disponibile”.

Nel 1974, quando prese a contare i fiori su una montagna a 2700 metri sul livello del mare, presso il Laboratorio Biologico delle Montagne Rocciose, a Crested Butte, in Colorado, Inouye non pensava certo agli effetti di un clima sempre più caldo.

“Ero un laureato che studiava colibrì e bombi per conoscere la disponibilità delle risorse di nettare. Così, mi sono messo a contare i fiori”, racconta Inouye.

Dapprima da solo, poi con un lavoro di équipe, contando i fiori che sbocciavano ogni giorno in ciascuno dei 30 appezzamenti di terreno assegnatigli, per cinque mesi all’anno, in quattro decenni il gruppo accumulò una massa di dati riguardanti ben 2 milioni di fiori, tutti contati pazientemente.

Da questa monumentale raccolta di dati scaturirono 60 specie più comuni.

I ricercatori hanno osservato che i tempi di fioritura sono in rapida evoluzione. Il primo fiore di primavera è sbocciato 6 giorni prima ogni decennio, nell’arco di tempo della ricerca. Il picco della fioritura si è spostato indietro di 5 giorni per decennio e l’ultimo fiore si è aperto in autunno, 3 giorni più tardi per ogni decennio.

In altre parole, la stagione della fioritura è andata progressivamente allungandosi, mediamente di 8 giorno per ogni dieci anni.

In 40 anni si sono raggiunti 32 giorni, praticamente un mese in più.

“Per un ecosistema di montagna, con una stagione di crescita breve, è un grande cambiamento”, dice Amy Iler, anch’ella ricercatrice della stessa Università del Maryland.

Fra tutte le specie che hanno modificato i tempi della fioritura, solo il 17 per cento ha anticipato l’intero ciclo. Il resto ha mostrato cambiamenti più complicati.

“Quello che vogliamo sottolineare è che la prima fioritura non è sempre il miglior indicatore di tutti i cambiamenti che avverranno”, avverte Paul Caradonna, ricercatore dell’Università dell’Arizona. “Dobbiamo guardare i fenomeni più da vicino per poter vedere tutti i modi in cui il cambiamento climatico va ad incidere sulle comunità di fiori selvatici”.

Ad ogni modo, è ormai evidente che le modifiche hanno un forte impatto sugli insetti impollinatori e sugli uccelli migratori.

Ad esempio, tornando a considerare i colibrì, si può esser certi che questi uccelli, sulle Montagne Rocciose, nidificano al picco della fioritura, quando c’è abbondanza di nettare dei fiori per i piccoli affamati. Ma, essendosi allungata la stagione, ad un certo momento le piante smettono di produrre più fiori. Lo stesso numero di fiori si sviluppa su più giorni e al picco della fioritura ci possono essere meno fiori a disposizione.

Ci sarà quindi abbastanza cibo per i giovani colibrì?

Per scoprirlo, Inouye prevede di adattare ai colibrì adulti dei trasmettitori radio e studiare così come interagiscono con le fioriture durante la prossima estate.

Leonardo Debbia
21 marzo 2014

Riscaldamento globale. Ghiacciaio d’Africa, addio.

Il Monte Stanley (5109 metri) è la terza montagna più alta di tutta l’Africa, superata in altezza solo dal Monte Kenya e dal Kilimanjaro, in Tanzania. Fà parte della catena montuosa del Rwenzori, a cavallo tra l’Uganda e la Repubblica Democratica del Congo.

Ebbene, su questa montagna – avvertono gli esperti – il ghiaccio si sta sciogliendo a ritmi definiti ‘inquietanti’. E nel giro di due decenni – avvisano – questi picchi equatoriali saranno solo nuda roccia, con un impatto disastroso per l’agricoltura e il turismo.

E’ quanto comunica oggi su NewsDaily il reporter Peter Martell con un accorato articolo per Agence France Press.

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John Medenge, una guida alpina che accompagna chi si voglia cimentare nella scalata della ripida parete di ghiaccio, testimonia così la sua esperienza:

“Ogni anno il ghiaccio si assottiglia sempre più”, afferma il cinquantaquattrenne alpinista, che conosce bene quella montagna, per aver iniziato a scalarla fin dalla propria adolescenza.

L’antico geografo Tolomeo d’Alessandria, intorno al II secolo d.C., chiamò le misteriose cime innevate del Rwenzori ‘Montagne della Luna’, pensando che da quelle vette sgorgassero le sorgenti del possente Nilo Bianco.

Dopo secoli in cui si è potuto ammirare in tutta la sua bellezza lo spettacolo della neve all’equatore, oggi il ghiaccio sta pian piano scomparendo e portando con sé molteplici sfide, come da più parti viene lamentato.

“Lo scioglimento dei ghiacciai sono un segnale da non ignorare, un ‘canarino nella miniera’”, afferma Luc Hardy, esploratore franco-americano, vice-presidente del gruppo ambientalista ‘Green Cross’, alludendo all’uso dei canarini da parte dei minatori per rilevare eventuali presenze di gas velenosi nelle miniere.

“Lo scioglimento del ghiaccio è un ‘canarino’ che denuncia l’incapacità dell’uomo di contenere il cambiamento climatico e le sue conseguenze negative”, ribadisce Hardy, che appartiene anche a Pax Arctica, l’organizzazione che promuove la consapevolezza dell’impatto climatico e che ha guidato una spedizione sulla montagna nel gennaio scorso.

“Lo scioglimento di questo unico ghiacciaio africano è una grave minaccia per le forniture idriche della regione”, conclude, realisticamente, Hardy.

“La riduzione dei flussi dei fiumi che scendono dal ghiacciaio incide già ora sulla produzione agricola e sulla produzione di energia elettrica”, sostiene Richard Atugonza, del Centro Mountain Resource Makere dell’Università dell’Uganda.

Fu l’esploratore inglese Henry Morton Stanley il primo occidentale che avvistò il ghiacciaio nel 1889, ma la vista della splendida distesa bianca sta ormai scomparendo rapidamente. Lo si desume dalle mappe che mostrano il ghiaccio ridotto dai circa sette chilometri quadrati nel 1906 ad un solo chilometro quadrato di oggi.

“Il riscaldamento globale non è causato da chi vive qui, ma sta danneggiando la regione”, protesta Baluku Stanley, presidente di una delle principali società di trekking, una comunità familiare dedita all’alpinismo sul Rwenzori.

Le valli spettacolari con la loro vegetazione di bizzarri alberi contorti, drappeggiati di lichene verde luminoso, le piante di lobelia giganti e l’edera di cinque metri di altezza offriranno un trekking straordinario anche una volta che il ghiaccio sarà sparito.

Elefanti, leopardi, scimmie e scimpanzé si nascondono nella giungla più in basso, mentre a quote più elevate coloratissimi uccelli si alzano in volo sulle vaste paludi che costeggiano le valli.

“Sul Rwenzori si possono fare trekking emozionanti, che rivaleggiano con le montagne in Europa e in Sud America” dice Paul Drawbridge, un alpinista britannico, dopo una spedizione di otto giorni. “Ma, se penso al ghiacciaio che sta andandosene, è un peccato che i miei figli non possano più rivedere queste cime imbiancate”.

Leonardo Debbia
18 marzo 2014