Ande. La rapida crescita di una catena montuosa

La Cordigliera delle Ande, che orla tutto il margine occidentale del Sudamerica, è un esempio di corrugamento della crosta terrestre noto a tutti per la sua genesi concettualmente semplice, provocata dalla ‘navigazione’ verso Ovest del continente sudamericano e dalla immersione della placca di Nazca, la placca ‘Pacifica’, sotto la placca continentale.

Gli scienziati, in accordo sulle cause e le modalità di formazione, stanno tuttavia cercando di capire quanto tempo abbia impiegato l’intera catena per sollevarsi e se il sollevamento sia stato lento e graduale o sia invece avvenuto con movimenti episodici alternati a fasi relativamente lente.

Una nuova ricerca fatta da Carmala Garzione, docente di Scienze della Terra e dell’Ambiente presso l’Università di Rochester, cerca di fare un po’ di luce sull’argomento.

In un articolo pubblicato su Earth and Planetary Science Letters, Garzione spiega che l’altopiano delle Ande centrali – e sicuramente l’intera catena – si sono formati attraverso una serie di ‘scatti’ di crescita rapida, alternati a periodi di relativa quiete.

Monte Mercedario, provincia di San Juan, Argentina. (fonte: Wikipedia)
Monte Mercedario, provincia di San Juan, Argentina. (fonte: Wikipedia)

“Questo studio fornisce la prova che l’altopiano si è formato attraverso rapidi impulsi periodici, non attraverso un sollevamento continuo e progressivo, come si è sempre pensato”, afferma Garzione. “In termini geologici, ‘rapidi’ significa che si parla di movimenti verificatisi a velocità di un chilometro o anche più nel corso di milioni di anni; ma che, considerati i tempi geologici, è una velocità impressionante”.

Il quadro fondamentale resta, ovviamente, quello del sollevamento della catena dovuto alla subduzione della placca di Nazca sotto il continente sudamericano, come detto sopra.

Dal 2006 al 2008, Garzione e colleghi avevano fornito alcune misure della velocità di innalzamento delle Ande, misurando le temperature antiche delle acque pluviali fossili rimaste nei terreni dell’altopiano centrale, tra la Bolivia e il Perù, a poco più di 3650 metri sul livello del mare.

Garzione ipotizzò che porzioni della crosta inferiore e zone più dense del mantello, che agiscono come un’àncora alla base della crosta, durante lo scorrimento della placca ed il riscaldamento conseguente alla frizione, periodicamente si stacchino e affondino nel mantello.

Il distacco di queste porzioni di crosta provocherebbero spinte elastiche della crosta superiore, meno densa; in pratica sollevamenti alquanto rapidi, per lo meno come lo si intende in Geologia.

Recentemente Garzione e Andrei Leier, docente di Scienze della Terra e dell’Oceano presso la University of South Carolina, hanno usato una tecnica relativamente nuova nella verifica delle temperature, servendosi di due studi separati in regioni diverse delle Ande per determinare se gli impulsi per questi sollevamenti rapidi siano la norma oppure l’eccezione per la formazione di catene montuose come questa delle Ande.

Garzione ha raccolto dati da suoli antichi a basse altitudini, dove le temperature sono rimaste calde, e ad altitudini più elevate, dove le temperature erano più fredde. La calcite nella roccia contiene sia gli isotopi più leggeri del carbonio e dell’ossigeno (12-C e 16-O), che rari isotopi più pesanti (13-C e 18-O).

Le stime delle paleo-temperature si basano sul fatto che gli isotopi più pesanti formano legami più forti.

A temperature più fredde, gli atomi vibrano più lentamente ed è più difficile rompere i legami tra gli isotopi pesanti. Conseguentemente, queste rocce hanno una concentrazione in calcite più elevata rispetto a temperature più calde.

Misurando l’abbondanza di isotopi pesanti in siti a basse altitudini (caldi) e siti ad alta quota (freddi) nel corso del tempo ed esaminando punti specifici, si può rilevare la differenza di temperatura e quindi stabilire di quanto quei punti si siano sollevati nel tempo.

Con questo metodo Garzione ha scoperto che l’Altopiano meridionale, tra i 16 e i 9 milioni di anni fa, si è sollevato di 2,5 chilometri, uno spostamento ‘rapido’, in termini geologici.

Garzione ipotizza che quando la placca oceanica scivola sotto la placca continentale, quest’ultima si accorcia e si addensa aumentando la pressione sulla crosta inferiore. La composizione basaltica della crosta inferiore si trasforma in eclogite, una roccia a densità elevata che funge da àncora per la crosta superiore, molto meno densa, diventando una specie di radice che si inabissa nel mantello superiore, rimanendoci per milioni di anni fin quando, a causa delle temperature elevate, fonde e, aumentando di volume, provoca un innalzamento della catena montuosa.

“Sospettiamo che questo processo sia tipico di altri sollevamenti simili”, afferma Garzione. “Sono necessarie, comunque, ulteriori verifiche per assicurarlo come certo”.

Leonardo Debbia
28 aprile 2014

Groenlandia: la tundra sotto il ghiaccio

Di solito si pensa che i ghiacciai si comportino come delle enormi levigatrici. Durante la loro avanzata sul terreno, raschiano e trascinano via tutto quello che incontrano, vegetazione, suolo e anche la superficie del substrato roccioso sul quale scorrono.

Così, gli scienziati sono rimasti alquanto sorpresi nello scoprire un antico paesaggio di tundra conservato sotto la calotta glaciale della Groenlandia, uno spessore di ben due chilometri di ghiaccio. 

carota-ghiaccio
Porzione di una carota di ghiaccio, estratta dalla parte basale della calotta glaciale della Groenlandia, che mostra limo e sabbia inglobati nel ghiaccio (credit: Paul Bierman, Università del Vermont)

Abbiamo trovato suolo organico rimasto congelato sul fondo del ghiacciaio per più di due milioni e mezzo di anni”, ha affermato il geologo Paul Bierman dell’Università del Vermont, fornendo una valida prova che la calotta glaciale della Groenlandia è molto più antica di quanto ritenuto finora, magari attraversando anche svariati periodi di riscaldamento globale.

Bierman ha pubblicato i risultati della sua scoperta pochi giorni fa sulla rivista Science.

La Groenlandia è una terra di grande interesse per scienziati e politici, in quanto la stabilità futura della sua enorme massa di ghiaccio – delle dimensioni dell’Alaska e seconda solo alla calotta antartica – avrebbe un’influenza fondamentale sul livello globale dei mari qualora questa copertura ghiacciata si sciogliesse per effetto del riscaldamento climatico causato dalle attività umane.

“L’antico terreno sotto la calotta glaciale della Groenlandia aiuta a svelare un importante interrogativo che accompagna il cambiamento climatico”, ha dichiarato Dylan Rood, co-autore del nuovo studio delle Scottish Universities Environmental Research Centre e della Università della California, Santa Barbara. “Come fanno le grandi calotte ghiacciate a sciogliersi e quindi a riformarsi in risposta ai cambiamenti di temperatura?”.

La scoperta indica che anche nei periodi più caldi, sotto la calotta di ghiaccio, il centro della Groenlandia ha mantenuto una propria stabilità, permettendo al paesaggio della tundra di rimanere conservato intatto per più di due milioni e mezzo di anni e numerosi eventi alterni di riscaldamento e raffreddamento.

“E’ opinione comune che i ghiacciai spoglino efficacemente l’ambiente su cui si muovono, lasciando un paesaggio ripulito e abraso”, ha detto Lee Corbett, un ricercatore del team di Bierman. “Noi dimostriamo che non è così. La calotta glaciale della Groenlandia non agisce come un agente erosivo e il suo nucleo centrale è praticamente rimasto invariato da circa tre milioni di anni a questa parte”.

Invece di levigare e scolpire il paesaggio, lo strato ghiacciato è stato congelato sul terreno; “un frigorifero che ha conservato un antico paesaggio”, secondo le parole di Bierman.

Gli scienziati hanno testato diciassette campioni di ‘ghiaccio sporco’ provenienti dal nucleo posto a quaranta piedi.

Da questi sedimenti Bierman e un team di ricercatori del Laboratorio di Nuclidi Cosmogenici dell’Università del Vermont, hanno estratto una rara forma di berillio, un isotopo chiamato berillio-10, che si forma al suolo durante la caduta di raggi cosmici. Più suolo rimane esposto, più isotopo si forma, per cui la misurazione del contenuto in isotopi costituisce per i geologi una sorta di orologio.

I ricercatori si aspettavano di trovare nei sedimenti di fondo roccia erosa dal ghiacciaio e soltanto piccolissime particelle dell’isotopo del berillio, dato che il tempo di esposizione all’aria si presumeva alquanto ridotto. Sono quindi rimasti alquanto stupiti nel constatare che nel limo del fondo vi era una elevata quantità di berillio, che significava che quella roccia era stata esposta alla luce solare per molto tempo.

La concentrazione di berillio pareva doversi tradurre in milioni di anni.

La nuova ricerca mostra che “il terreno era rimasto stabile ed esposto in superficie tra i 200mila e il milione di anni prima di essere coperto dal ghiaccio”, ha osservato Ben Crosby, dell’Idaho State University, che faceva parte del team di ricerca.

Per una verifica e un’ulteriore conferma, sono stati misurati anche l’azoto e il carbonio che avrebbero potuto essere stati lasciati da eventuale materiale organico. Ebbene, queste analisi hanno confermato che il substrato era stato interessato anche da una copertura vegetale.

“La composizione trovata indica che il paesaggio pre-glaciale poteva corrispondere benissimo ad una zona di tundra parzialmente boscosa”, dice Andrea Lini, dell’università del Vermont.

“La Groenlandia era davvero verde, anche se questo risale a milioni di anni fa!” ha concluso Rood.

Rilevamenti eseguiti nel permafrost dell’Alaska hanno dato analoghi contenuti di berillio nel suolo, suggerendo che l’antico paesaggio groenlandese poteva somigliare all’attuale tundra dell’Alaska. 

Leonardo Debbia

Mobilità umana nell’antico Sahara collegata all’instabilità climatica

Guardando l’immensa distesa ondulata di sabbia dorata che sembra non avere né un inizio né una fine, con le dune imponenti che si stagliano contro un cielo terso e arroventato, si fa fatica a immaginare che quei luoghi, all’apparenza ostili e inospitali, abbiano potuto ospitare un tempo vallate lussureggianti di vegetazione, percorse da ruscelli e torrenti.

Eppure,nel corso dei millenni, il Sahara ha alternato fasi di verdeggiante pianura a fasi di dura siccità. Durante i periodi in cui era resa fresca dalle piante ed era solcata dai corsi d’acqua, questa regione ospitò anche una discreta varietà di vita animale, compreso quella umana.

I bioarcheologi Christopher Stojanowski e Kelly Knudson, dell’Arizona State University, stanno ora studiando i resti di queste antiche popolazioni, cercando di capire come il cambiamento climatico abbia influenzato le loro capacità e le necessità di spostamenti in quella parte di mondo.

sahara

Il sito di ricerca dei due studiosi si trova nel centro del Niger. Conosciuto come Gobero, durante l’Olocene medio, circa 5-7mila anni fa, è stato sede di un grande lago.

Gli uomini che a quel tempo eressero le loro capanne intorno all’antico lago praticavano la caccia, una rudimentale agricoltura e la pesca. Qualcuno allevava bestiame.

Insieme ad altri collaboratori dell’Università di Chicago, Stojanowski ha diretto gli scavi del sito, riportando alla luce numerosi reperti scheletrici.

Tornato all’Arizona State University, nel laboratorio archeologico di chimica, Knudson ha campionato ossa e smalto dei denti e utilizzato le impronte chimiche per determinare le origini degli antichi individui, così come ha cercato di delineare meglio i luoghi in cui avevano trascorso la loro esistenza.

I risultati dello studio suggeriscono che queste popolazioni avevano scelto varie strategie di mobilità territoriale, spostandosi in relazione ai cambiamenti climatici, ma che verso la fine della loro occupazione della zona del lago, quando l’ambiente divenne più asciutto, questi popoli del Sahara diventarono sicuramente ancora più mobili.

“L’aspetto più interessante di questa ricerca è che ci consente di ottenere informazioni dall’insieme di varie discipline – antropologia, chimica e geologia – per comprendere come gli esseri umani in passato abbiano reagito ad una modifica radicale dell’ambiente, divenuto secco e asciutto”, dice Knudson.

Aggiunge Stojanowski “I dati sembrano indicare che questo passaggio verso una maggiore mobilità sia avvenuto solo alla fine della sequenza archeologica, fatto che suggerisce che le risposte alle crescenti condizioni aride dovettero verificarsi solo quando l’ambiente divenne insopportabile”.

Stojanowski e Knudson sono docenti presso la Scuola di Evoluzione Umana e Cambiamento sociale nel College of Liberal Arts and Sciences ed hanno pubblicato il loro studio sull’American Journal of Physical Anthropology.

Anche se gli individui oggetto della ricerca vissero e morirono migliaia di anni fa, secondo Knudson la civiltà attuale avrebbe molto da imparare da loro.

Capire come si siano adattati alle condizioni aride può essere d’aiuto per le popolazioni attuali e quelle future per poter affrontare e risolvere le sfide climatiche.

Stojanowski sottolinea che una lezione da imparare potrebbe essere che è purtroppo nella natura umana ignorare un problema, come può essere il degrado ambientale, finchè non si è costretti ad affrontarlo seriamente.

“In questo caso, il Sahara ne usciva sempre vincitore”, afferma lo studioso. “Il risultato, però, è stato che un vivace centro di vita e di esperienza umana, esistente da oltre 5000 anni, è stato completamente abbandonato e ceduto alle sabbie”.

Leonardo Debbia
21 aprile 2014

Da atleti a pantofolai: come cambiano gli esseri umani in 6000 anni

Le ossa umane sono notevolmente plastiche e rispondono sorprendentemente e rapidamente ai cambiamenti. Messe sotto stress attraverso lo sforzo fisico, come percorrere lunghe distanze a piedi o correndo, le ossa guadagnano in forza, dato che le fibre di cui sono costituite vengono aggiunte o ridistribuite.

La capacità dell’osso di adattarsi al carico è mostrata mediante l’esame degli scheletri di atleti moderni, le cui ossa mostrano un notevole e rapido adattamento sia all’intensità che alla direzione degli sforzi.

Poiché la struttura delle ossa umane ci può dare utili informazioni sugli stili di vita degli individui cui appartengono, dalle ossa possono essere tratti dai biologi e dagli antropologi indizi preziosi sulle culture del passato.

Scheletro di uomo del Neolitico inferiore (35-40mila anni fa) da Vedrovice, Repubblica Ceca (credit: Moravian Museum)
Scheletro di uomo del Neolitico inferiore (35-40mila anni fa) da Vedrovice, Repubblica Ceca (credit: Moravian Museum)

La ricerca di Alison Macintosh, dottoranda del Dipartimento di Archeologia e Antropologia dell’Università di Cambridge, dimostra che in Europa centrale, dal 5300 a.C. circa, dopo la nascita dell’agricoltura, le ossa di coloro che vivevano nei terreni fertili vicini al Danubio sono diventate progressivamente meno forti, tendendo ad una diminuzione sia della mobilità che del carico cui venivano sottoposte.

Macintosh nel suo studio mostra inoltre che la mobilità e il minor carico degli arti negli agricoltori di sesso maschile subirono un calo progressivo e costante nel tempo.

Il cambiamento culturale avvenuto nell’Europa centrale pare infatti aver avuto una maggiore influenza sugli individui di sesso maschile rispetto a quanto è avvenuto per il sesso femminile.

Un lavoro pubblicato dal biologo e antropologo Colin Swaw, della stessa Università di Cambridge, ha permesso alla Macintosh di dare una interpretazione a queste variazioni maschili del passato, mettendole in relazione con le differenze riscontrate nella popolazione degli studenti di Cambridge.

Utilizzando lo studio di Swaw sulla rigidità dell’osso e comparando gli antichi agricoltori con gli attuali studenti di Cambridge, la Macintosh ipotizza che la mobilità tra gli agricoltori di sesso maschile di 7300 anni fa sia stata mediamente simile a quella di un attuale studente universitario che svolge assiduamente una pratica sportiva.

Poi, in un lasso di tempo di poco più di 3000 anni, durante il quale sono intercorse le variazioni accennate prima, la mobilità media degli antichi agricoltori scese al livello degli attuali studenti valutati come sedentari.

“Non sono state effettuate analisi biomeccaniche delle ossa sul lungo termine a seguito del passaggio verso l’agricoltura nell’Europa Centrale. Ma in altre parti del mondo queste analisi mostrano una variabilità regionale nelle tendenze. A volte la mobilità aumenta, a volte diminuisce, a seconda della cultura e del contesto ambientale. Con il passaggio all’agricoltura, il cambiamento culturale è stato prolungato e il suo ritmo accelerato. La mia ricerca nell’Europa Centrale esplora se e come questa pressione sul lungo termine ha continuato a guidare l’adattamento delle ossa”, dichiara la studiosa.

Le prove archeologiche hanno dimostrato che la crescita graduale dell’agricoltura è stata accompagnata da un aumento della produzione e dalla complessità dei prodotti in metallo, dalla innovazione tecnologica e dall’estensione di reti commerciali e di scambio.

“Questi sviluppi hanno portato probabilmente a cambiamenti nella ripartizione del lavoro tra i sessi e l’organizzazione socio-economica tra uomini e donne cominciò a specializzarsi in determinati compiti ed attività come, ad esempio, la lavorazione dei metalli, della ceramica, la produzione vegetale, le tende e l’allevamento del bestiame”, dice Macintosh. “A me preme sapere come lo scheletro si sia adattato a specifici comportamenti delle persone durante la vita e di come questo adattamento possa essere stato utilizzato per ricostruire i cambiamenti sul lungo termine nel comportamento e nella mobilità con la diversificazione culturale, l’innovazione tecnologica e le società sempre più complesse e stratificate dall’avvento dell’agricoltura”.

Come mezzo di rilevamento delle modifiche strutturali delle ossa nel tempo, la Macintosh ha scannerizzato con il laser scheletri umani trovati nei cimiteri dell’Europa centrale.

La sua ricerca l’ha portata in Germania, Ungheria, Austria, Repubblica Ceca e Serbia.

I primi scheletri da lei esaminati risalgono al 5300 a.C. circa, mentre il più recente è dell’850 d.C., un arco di tempo di 6150 anni.

Con la scansione di femori e tibie, la Macintosh ha scoperto che in quell’arco di tempo, le tibie maschili sono divenute meno rigide e che le ossa, sia maschili che femminili, sono diventate meno forti per sforzi in direzioni preferenziali, quali, per esempio, camminare avanti e indietro.

In altre parole, è possibile che le persone a cui gli scheletri appartenevano fossero divenute, nel corso delle generazioni, meno attive nell’intensità degli sforzi perché probabilmente coprivano minori distanze o effettuavano lavori meno impegnativi dal punto di vista fisico rispetto a coloro che avevano vissuto prima di loro.

“Entrambi i sessi hanno mostrato rafforzamento del femore e della tibia nel tempo, mentre la capacità delle tibie maschili di resistere alla flessione, torsione e compressione è diminuita.

I miei risultati suggeriscono che nell’Europa centrale, a seguito del passaggio all’agricoltura, i maschi risentano di più, rispetto alle femmine, dei cambiamenti culturali e tecnologici, che hanno ridotto, ad esempio, i viaggi sulle lunghe distanze o il lavoro fisico pesante”.

Leonardo Debbia
17 aprile 2014

Paradosso climatico del Miocene

Gli scienziati dell’Alfred Wegener Institute, Centro Helmholtz per la ricerca polare e marina (AWI), servendosi di simulazioni complesse, hanno chiarito un presunto paradosso climatico avvenuto nel Miocene.

Quando, circa 14 milioni di anni fa, la calotta antartica crebbe fino ad assumere le dimensioni che conserva ancora oggi, il clima non divenne contemporaneamente più rigido su tutta la Terra. Al contrario, ci furono regioni che divennero, sia pure di poco, addirittura più calde.

Come si spiega questa apparente contraddizione fisica?

L’espansione della calotta glaciale antartica, 14 milioni di anni fa, fu seguita da un innalzamento della temperatura superficiale dell’oceano meridionale  (credit: Frank Roedel, Alfred Wegener Institut)
L’espansione della calotta glaciale antartica, 14 milioni di anni fa, fu seguita da un innalzamento della temperatura superficiale dell’oceano meridionale (credit: Frank Roedel, Alfred Wegener Institut)

I climatologi tedeschi hanno ora scoperto che l’espansione dello strato di ghiaccio sul continente antartico ha, di fatto, innescato cambiamenti nella circolazione dei venti, delle correnti oceaniche e del ghiaccio marino nell’Oceano Antartico tali che, alla fine, sono stati raggiunti sviluppi apparentemente opposti.

I risultati della ricerca svolta sono stati pubblicati sulla rivista Nature Geoscience.

Dal punto di vista geologico la calotta di ghiaccio dell’Antartide è ancora relativamente giovane. Come i ricercatori del clima hanno appreso dai campioni di sedimenti e dai gusci dei foraminiferi calcarei, la calotta di ghiaccio è cresciuta fino alle attuali dimensioni all’incirca verso i 14 milioni di anni fa, come detto sopra.

Durante questo processo di accrescimento, la temperatura superficiale dell’Oceano Meridionale aumentò di tre gradi centigradi, un fenomeno apparentemente contraddittorio, per il quale per lungo tempo i climatologi non erano riusciti a dare alcuna spiegazione.

“Pensando che la calotta di ghiaccio antartica si è accresciuta fino ad assumere le dimensioni attuali in un periodo di 100mila anni, sembra ragionevole supporre che i processi climatici abbiano ulteriormente incrementato l’effetto di raffreddamento. Si potrebbe ipotizzare, ad esempio, che l’espansione dello strato di ghiaccio abbia portato ad una maggiore riflessione di energia solare nello spazio, e di conseguenza, l’aria che attraversava il continente diventasse più fredda, mentre i forti venti spazzavano il mare aperto, raffreddando l’acqua e originando enormi quantità di ghiaccio marino. Tuttavia, i dati climatici in nostro possesso delineano uno scenario diverso”, afferma il ricercatore climatico dell’AWI, Gregor Knorr che, insieme al collega Gerritt Lohman, è riuscito a descrivere le condizioni climatiche in un modello ‘atmosfera-oceano’ accoppiati e, in questo modo, ad esaminare quello che la formazione della calotta antartica è andata a mutare nell’innesco del sistema climatico.

“I risultati della nostra simulazione indicano che la temperatura dell’aria sul continente scese effettivamente di ben 22 gradi centigradi allorchè lo strato di ghiaccio si accrebbe, evento che portò al raffreddamento di alcune regioni dell’Oceano Meridionale.

Al tempo stesso, tuttavia, la temperatura superficiale del Mare di Weddell, salì fino a 6 gradi centigradi”, dichiara Knorr.

Gli scienziati dell’AWI hanno cercato le cause di questi cambiamenti contrari e apparentemente ‘anomali’ nei loro modelli sperimentali, individuandole nella circolazione dei venti.

“L’espansione della calotta antartica produsse cambiamenti nei modelli della circolazione d’aria sul Mare di Weddell. Come conseguenza, avvenne un cambiamento anche nel flusso di acqua calda verso il polo e il ghiaccio marino di questa regione diminuì”, spiegano i modellisti climatici dell’AWI.

Questi cambiamenti in superficie ebbero ripercussioni nelle acque profonde che, a loro volta, li rifletterono nuovamente sulle acque superficiali con un effetto di feedback, in un modo sconosciuto finora ai ricercatori, dando origine ad aumenti di temperatura.

“I nostri modelli di calcolo ci hanno aiutato a comprendere meglio i processi del sistema Terra”, chiarisce Knorr. “Oggi possiamo spiegare come la formazione della calotta antartica

abbia influenzato le oscillazioni delle temperature nell’Oceano Meridionale di quel periodo e come i cambiamenti climatici produssero i loro effetti sui sedimenti marini”.

“Da un lato, i nostri risultati dimostrano che siamo in grado di comprendere i processi climatici mediante i modelli appositamente elaborati per interpretare i dati della storia del clima. D’altro canto, i risultati confermano anche che i meccanismi di feedback climatici sono sostanzialmente più complessi di quanto ci si aspettasse”, dice Gerrit Lohmann.

Alla domanda se questi modelli di calcolo possono essere validi per elaborare previsioni sui futuri cambiamenti climatici, sulla base dei dati forniti dai cambiamenti attuali, Gregor Knorr risponde: “No, non direttamente, dal momento che l’arco di tempo preso in considerazione nelle simulazioni è molto lungo rispetto ad una previsione di quel che potrà accadere entro 100 anni, un tempo relativamente breve. Tuttavia non si può escludere a priori che meccanismi simili a quelli del passato possano ripetersi anche su tempi più brevi”.

Leonardo Debbia
15 aprile 2014

Zone aride assorbono quantità inaspettate di anidride carbonica

Un gruppo di ricercatori, guidati da un biologo della Washington State University (WSU), ha scoperto che le zone aride del pianeta assorbono inaspettatamente grandi quantità di carbonio quando aumentano i livelli di anidride carbonica nell’atmosfera.

I risultati della ricerca aiutano gli scienziati a stimare più accuratamente il bilancio del carbonio sulla Terra, stabilendo quanto ne rimane nell’atmosfera sotto forma di CO2 – fatto che contribuisce al riscaldamento globale – e quanto invece ne viene assorbito dalla terra o dal mare in altre forme che necessitano di carbonio.

“Va sottolineata l’importanza di questi ecosistemi aridi”, dice Dave R.Evans, docente di Scienze biologiche, specializzato in Ecologia e Cambiamento globale alla WSU. “Si tratta di una riduzione importante di anidride carbonica, dato che quando i livelli di CO2 atmosferica salgono, questi ecosistemi, consumando il carbonio, possono aiutare ad abbassare la percentuale di CO2 nell’atmosfera. Anche se gli ecosistemi aridi non potranno catturarlo tutto, sicuramente, con questo processo, costituiscono un valido aiuto per il pianeta”.

Forme nel deserto del Mojave come quella ripresa da un elicottero mostrano che le zone aride possono assorbire quantità inaspettate di carbonio atmosferico (credit: Desert Research Institute / Università del Nevada, Las Vegas)
Forme nel deserto del Mojave come quella ripresa da un elicottero mostrano che le zone aride possono assorbire quantità inaspettate di carbonio atmosferico (credit: Desert Research Institute / Università del Nevada, Las Vegas)

I risultati, pubblicati sulla rivista Nature Climate Change, arrivano dopo un nuovo esperimento, durato 10 anni, consistito nell’esposizione di alcuni terreni nel deserto del Mojave a livelli elevati di anidride carbonica simili a quelli che si prevede possano essere raggiunti nel 2050.

Una volta asportato il suolo fino alla profondità di un metro e raccolte le piante locali, è stata misurata la quantità di anidride carbonica assorbita.

L’idea dell’esperimento è maturata tra gli scienziati delle Università di Reno e Las Vegas, in Nevada.

Lo studio ha affrontato una delle grandi incognite del riscaldamento globale: la reazione degli ecosistemi terrestri all’assorbimento di anidride carbonica quando questa aumenta in atmosfera.

Le zone aride che ricevono meno di 10 centimetri di pioggia all’anno coprono un’ampia fascia del globo, che si estende dai 30 gradi di latitudine nord ai 30 di latitudine sud.

Questa fascia, se considerata insieme alle aree semi-desertiche, quelle cioè che ricevono meno di 20 centimetri di pioggia all’anno, occupa dunque quasi la metà della superficie terrestre.

I suoli forestali contengono più materiale organico e trattengono, di conseguenza, più carbonio, ma data la grande estensione delle zone aride, giocano un ruolo importante nel bilancio totale del carbonio terrestre, dato che la Terra si riscalda perchè i gas che intrappolano il calore si accumulano nell’atmosfera.

Lavorando sul Sito Nazionale della Sicurezza del Nevada, i ricercatori hanno contrassegnato nove appezzamenti di forma ottagonale di circa 75 metri di larghezza ciascuno.

Tre lotti sono stati ‘trattati’ con aria contenente una concentrazione di 380 ppm (parti per milione) di CO2, corrispondenti agli attuali livelli di anidride carbonica. Tre lotti sono stati esposti a concentrazioni di 550 ppm, i livelli di CO2 previsti per il 2050, mentre i rimanenti tre non hanno ricevuto alcun particolare trattamento.

L’anidride carbonica è stata alimentata mediante tubi in PVC con una traccia chimica che poteva essere rilevata durante le analisi di suolo, piante e altre biomasse.

L’analisi eseguita da Benjamin Harlow, dello Stable Isotope Core Laboratory presso la WSU, suggerisce che i suoli aridi, in futuro, possono incrementare il loro assorbimento di carbonio in percentuali stimate dal 15 al 28 per cento dell’importo assorbito attualmente dalla superficie terrestre.

L’esperimento non tiene conto di altre possibili modifiche derivanti dal cambiamento climatico, come il variare delle temperature, delle precipitazioni e del riscaldamento.

Eppure, dice Evans: “Sono rimasto sorpreso della grandezza dell’assorbimento di carbonio che siamo stati in grado di rilevare dopo 10 anni, perché 10 anni non è un periodo di tempo molto lungo nella vita di un ecosistema”.

Mentre gli ecosistemi forestali tendono ad immagazzinare carbonio nella materia vegetale, i ricercatori hanno scoperto che nel Mojave il carbonio era stato riassorbito per una maggiore attività dalla rizosfera, la zona di microrganismi del suolo attorno alle radici delle piante.

Da un punto di vista ottimista, la ricerca suggerisce che con il 2050 gli ecosistemi aridi prenderanno più carbonio dall’atmosfera di quanto a loro necessiti.

Ma una potenziale causa di preoccupazione riguarda che cosa possa accadere a questi ecosistemi, con la popolazione del pianeta che cresce e la gente che cerca sempre nuovi luoghi per vivere.

“La terra è estremamente preziosa”, afferma Evans. “Queste zone aride potranno diventare popolose e allora non sappiamo proprio quale potrà essere in realtà il futuro bilancio del carbonio”.

Leonardo Debbia
12 aprile 2014

La PET per diagnosticare la sindrome da stanchezza cronica

I ricercatori del RIKEN Center for Life Science Technologies, in Giappone, in collaborazione con l’Osaka City University e la Kansai Gaidai University, hanno utilizzato l’imaging funzionale PET per dimostrare che i livelli di neuro infiammazione, o infiammazione del sistema nervoso, sono più elevati nei pazienti affetti da sindrome da stanchezza cronica rispetto alle persone sane.

La tomografia a emissione di positroni (o PET) è una tecnica usata in medicina e in diagnostica nucleare per produrre bioimmagini delle variazioni dell’attività cerebrale.

La neuro infiammazione è un processo infiammatorio incontrollato che puo’ portare alla neuro degenerazione dei meccanismi cellulari.

Con questo studio si è cercato di dimostrare che probabilmente l’indagine per immagini può essere utile nello studio di questi meccanismi.

Neuro infiammazione nei pazienti con sindrome da stanchezza cronica / encefalite mialgica. Immagini rappresentative PET (tomografia a emissione di positroni) in varie aree del cervello: AMY: amigdala; CC: corteccia cingolata; HIP: ippocampo; MID: mesencefalo; THA: talamo; PON: ponte (credit: RIKEN)
Neuro infiammazione nei pazienti con sindrome da stanchezza cronica / encefalite mialgica.
Immagini rappresentative PET (tomografia a emissione di positroni) in varie aree del cervello:
AMY: amigdala; CC: corteccia cingolata; HIP: ippocampo; MID: mesencefalo; THA: talamo;
PON: ponte
(credit: RIKEN)

La sindrome da stanchezza cronica, conosciuta anche come encefalite mialgica, o ME associato all’acronimo CFS (Chronic Fatigue Sindrome). è una condizione debilitante dell’organismo, caratterizzata da fatica cronica profonda, invalidante e persistente, che non cessa con il riposo.

Purtroppo, attualmente, pur conoscendo la sintomatologia, se ne ignorano tuttora le cause scatenanti.

Era stato ipotizzato che la neuro infiammazione (o infiammazione delle cellule nervose) avrebbe potuto essere una possibile causa di questa condizione, anche se nessuna prova era stata finora avanzata a sostegno di questa idea.

Ora, in questo studio, clinicamente rilevante, pubblicato su The Journal of Nuclear Medicine, i ricercatori giapponesi hanno scoperto che effettivamente i livelli dei marcatori di una

neuro infiammazione sono più elevati nei pazienti con CFS / ME rispetto alle persone sane.

Per la sperimentazione, i ricercatori si sono avvalsi della scansione PET su un gruppo di nove persone con diagnosi di CFS / ME e un gruppo di dieci persone sane, chiedendo a ciascun componente di compilare anche un questionario dove avrebbe dovuto descrivere il suo livello di stanchezza, il deterioramento cognitivo, il dolore e la depressione.

Per la scansione PET è stato indagato il funzionamento delle cellule della microglia e degli astrociti, in cellule, cioè, che si attivano durante una neuro infiammazione.

Le cellule della microglia si occupano della principale difesa immunitaria nel sistema nervoso centrale (SNC). A differenza degli astrociti, che costituiscono la barriera ematoencefalica, le singole cellule della microglia sono mobili, distribuite, nel cervello e nel midollo spinale, in larghe regioni, per neutralizzare eventuali agenti infettivi che, qualora superassero la barriera ematoencefalica, potrebbero danneggiare il tessuto del SNC.

I ricercatori hanno scoperto che in presenza di CFS / ME, l’infiammazione in alcune aree del cervello – corteccia, ippocampo, amigdala, talamo, mesencefalo e ponte – era effettivamente elevata, in correlazione con i sintomi espressi.

Ad esempio, in quei pazienti che avevano riferito una cognizione alterata, si notava una elevata neuro infiammazione dell’amigdala, organo che è coinvolto nel processo della cognizione.

Questo fornisce una chiara prova di associazione tra una neuro infiammazione e i sintomi lamentati dai pazienti con CFS / ME.

Anche se lo studio è stato solo un primo approccio, è tuttavia la conferma che la scansione PET potrebbe essere utilizzata come test oggettivo per la diagnosi della malattia, sicuramente utile anche per sviluppare nuove terapie, per fornire sollievo alle molte persone che in ogni parte del mondo sono afflitte da questa condizione.

Il Dr Yasuyoshi Watanabe, che ha condotto lo studio presso il RIKEN, ha dichiarato:

“Abbiamo in programma di continuare la ricerca seguendo questa emozionante scoperta per sviluppare test oggettivi per la CFS / ME e in definitiva per cercare una cura adeguata per questa malattia invalidante”.

Leonardo Debbia
10 aprile 2014