Farmaco antidiabetico: nuova cura per il tumore ovarico

Un comunissimo farmaco antidiabetico, la metmorfina, potrebbe essere la soluzione per combattere e curare il tumore ovarico. Così risulta dallo studio effettuato dalla “Mayo Clinic” di Rochester, in Minnesota, pubblicato sulla rivista “Cancer”.

La metamorfina, che deriva dalla Lilla francese, è stata somministrata a 61 donne diabetiche con cancro alle ovaie ed il risultato è stato che ben il 67% riusciva a sopravvivere entro i cinque anni. Percentuale significativa, se si considera che quella di coloro che non hanno assunto il farmaco ammontava a 47%. Ne deriva quindi che questo farmaco potrebbe davvero avere effetto anticancro e che le donne affette da tale patologia, assumendolo, potrebbero vivere più a lungo.

Viji Shridhar, che ha condotto lo studio, ha spiegato che la metamoforfina aumenta le probabilità di sopravvivenza di 3,7 volte, in quanto rallenta la crescita della neoplasia e aiuta l’organismo a difendersi. In futuro, quindi, il farmaco potrebbe essere inserito nei trattamenti di routine contro il cancro ovarico, che è considerato uno dei più letali, in quanto, spesso, viene diagnosticato quando ormai non c’è più nulla da fare. Non solo: è il sesto tumore per frequenza nelle donne ed è l’ottava causa di morte per tumore delle donne di tutto il mondo. In fase avanzata riesce ad uccidere 7 donne su 10, e ogni anno, delle 230.000 pazienti a cui viene diagnosticato questo tipo di cancro, 140.000 muoiono, perché si è ancora troppo lontani dalla diagnosi precoce.

Gli unici dati certi che si hanno al momento sono che la maggior parte dei casi di carcinoma ovarico viene diagnosticata nelle donne in fase di post-menopausa, che le donne che hanno avuto un cancro al seno hanno una doppia possibilità di sviluppare quello alle ovaie, e che coloro che in famiglia hanno avuto casi di carcinoma ovarico o alla mammella hanno un rischio maggiore di sviluppare la malattia.

Krizia Ribotta
3 dicembre 2012

Fabbisogno alimentare: entro il 2050 saranno necessari 3 pianeti

La situazione attuale è davvero allarmante: secondo quanto emerge dal quarto Forum internazionale sull’eccesso di cibo promosso dal “Barilla Center for Food and Nutrition” (BCFN), il nostro pianeta non è in grado di soddisfare completamente il fabbisogno alimentare della popolazione mondiale, per il semplice fatto che siamo degli spreconi. Ogni anno, infatti, sebbene riusciamo a consumare più di quanto il pianeta possa rigenerare, sprechiamo ben un terzo degli prodotti alimentari, ovvero 1,3 miliardi di tonnellate di cibo, che finisce direttamente nella spazzatura.

Un quadro, questo, abbastanza spaventoso, che deve portare ciascuno di noi a riflettere sul futuro per tutt’altro che promettente, vista la gravità dei fatti. Se non adotteremo al più presto un nuovo stile di consumo sostenibile, i problemi non saranno pochi, tant’è che entro il 2050 potrebbero servire tre pianeti per soddisfare il fabbisogno alimentare. Una superficie assolutamente fuori da ogni logica, se si considera che il problema principale resta il consumo medio di ogni famiglia.

La fame del mondo, che attualmente sembra riguardare solo i cosiddetti Paesi “del terzo mondo”, la cui popolazione ammonta a circa 870 milioni di persone, presto potrebbe riguardaci tutti quanti da vicino. Questo perché, in base a quanto venuto fuori nel corso della tavola rotonda organizzata dal Forum del BCFN, se non si interviene immediatamente, entro il 2050 il pianeta collasserà.

Guido Barilla, presidente dell’omonimo gruppo, denuncia il mondo finanziario, accusandolo di aver concentrato l’attenzione solamente ai profitti a breve termine, senza preoccuparsi minimamente dei possibili risvolti futuri. Ovviamente, com’è risaputo, produrre cibo non è semplice, e la ricerca tecnologica deve riuscire a svilupparsi sempre di più in modo da poter supportare uno sviluppo alimentare tale da riuscire a sostituire i grassi con prodotti più naturali.

Krizia Ribotta
2 dicembre 2012

Morbo di Parkinson: diagnosi precoce per combatterlo

Il modo per combattere una malattia è riconoscere i primi sintomi e, nel caso del Parkinson, la diagnosi precoce risulta di fondamentale importanza.

Nella lotta contro questa malattia neurodegenerativa, in Italia sono coinvolte circa 250mila persone e, nonostante il target sia costituito da coloro che hanno dai 60 anni in su, un buon 25% dei pazienti ha un’età compresa tra i 40 e i 50 anni e un 10% tra i 20 e i 40. Purtroppo le cause di quest’incremento giovanile sono ancora ignote, e proprio per questo gli esperti sottolineano quanto sia fondamentale individuare la patologia fin da subito, in modo da tener sotto controllo la situazione e riuscire a godere di un miglioramento della qualità della vita.

È altresì importante saper riconoscere i sintomi, del Parkinson tra  quali movimenti rallentati, tremore, rigidità muscolare e perdita di espressione facciale, forte agitazione nel sonno, depressione e stipsi. Con il progredire del tempo, poi, altri campanelli d’allarme sono le cadute, fenomeni molto frequenti che hanno ripercussioni anche traumatiche per gli anziani, i quali, non fidandosi più della proprie gambe, iniziano ad avere un movimento sempre più ridotto, con conseguente perdita dell’autonomia personale.

Nonostante questi sintomi siano abbastanza facili da riconoscere, spesso non è facile diagnosticare la malattia, in quanto si tende a sottovalutare determinate circostanze ed elementi utili all’individuare il disturbo di cui soffre un paziente. Per questo è molto più semplice riconoscere il Parkinson quando nella famiglia della persona in questione si sono già verificati episodi simili:  il 20% dei pazienti, infatti, eredita dai familiari i geni difettosi.

Krizia Ribotta
26 novembre 2012

Leggere il Braille con gli occhi: ora è possibile

Per leggere il Braille, i non vedenti non dovranno più usare il tatto, ma la vista. Un’azienda svizzera ha sviluppato e testato su decine di pazienti la retina artificiale. Si tratta di Argus II, la protesi creata dalla Second Sight Medical Products Inc. costituita da 60 elettrodi che, collegati alla retina, acquisiscono  informazioni visive dall’esterno per mezzo di una piccola telecamera e le proiettano direttamente sull’occhio del cieco. Per la prima volta, quindi,  le parole in Braille, possono essere lette senza dover toccare i puntini che le compongono.

“Si tratta di un traguardo interessante, ma rappresenta una soluzione indiretta perché in realtà l’obiettivo principe di Argus II vorrebbe essere far vedere di nuovo pazienti la cui retina è compromessa da malattie come la retinite pigmentosa” spiega Silvestro Micera, esperto di neuroprotesi e docente presso l’Università di Pisa e quella di Losanna.

Il test, sotto la guida di  Thomas Lauritzen, è stato realizzato su un campione di pazienti affetti da cecità, i quali non hanno dovuto far altro che indossare Argus II. Tutto il resto viene svolto dalla telecamera, che ha filmato le lettere in Braille e dagli elettrodi, che le hanno poi proiettate sulla retina. I non vedenti sono stati in grado di decifrare diverse parole in modo molto più veloce rispetto al classico metodo, a contare gli oggetti, a riconoscere quelli in movimento, e hanno anche potuto vedere la luminosità esterna.

Per chi volesse approfondire l’argomento, il sorprendente risultato dello studio è stato pubblicato su “Frontiers in Neuroprosthetics”.

Krizia Ribotta
22 novembre 2012

Sindrome della bella addormentata: un rarissimo disturbo del sonno

Chi non vorrebbe riuscire a dormire per due giorni consecutivi? Tutti, per riposarsi e rifugiarsi nel mondo dei sogni senza pensare a niente.  Eppure la 15 enne Stacey Comeford e la 17enne Nicole Delien non la pensano proprio così. Entrambe studentesse, la prima inglese, di Telford, nello Shropshire, e la seconda americana, di North Fayette, a Pittsburgh, soffrono della cosiddetta sindrome di Kleine Levin (KLS), una patologia davvero rara che le fa dormire per giorni, settimane o mesi. Si alzano solo per andare in bagno o bere, ma, come spiegano entrambe le mamme, anche se si svegliano sono in uno stato di sonnambulismo, e di conseguenza non ricordano nulla.

A questo disturbo, che colpisce appena mille persone in tutto il mondo, purtroppo non è ancora stata trovata una cura e, come spiega la madre di Stacey, gli attacchi possono arrivare all’improvviso, in qualsiasi momento, senza alcun preavviso, se non un forte mal di testa. La figlia dorme per l’intero weekend, o  per una settimana consecutiva, mentre Nicole ha decisamente battuto il record, cadendo in questo “sonno profondo” per ben 64 giorni consecutivi, dal giorno del Ringraziamento, celebratosi il 24 novembre 2011, fino a fine gennaio 2012.

Dopo gli interminabili controlli per verificare che Stacey e Nicole non soffrissero di narcolessia, epilessia o addirittura tumore al cervello, è stata diagnosticata loro la patologia di KLS, anche nota con il nome di “sindrome di bella addormentata”. “Per colpa della malattia ho mancato nove esami e mi sono pure persa il mio compleanno a novembre, ma almeno adesso è più facile spiegare alla gente quello che ho. Prima invece, quando a scuola dicevo che ero stanca e che dovevo andare a casa, mi guardavano tutti malissimo e non mi credeva nessuno” confessa Stacey. E Nicole aggiunge: “Una volta, quando era piccola, ho saltato la feste di Natale, di Capodanno e persino il viaggio di famiglia che abbiamo fatto a Disney World”.

La malattia non è stata riconosciuta immediatamente, visto che i sintomi di stanchezza cronica sono stati scambiati per semplice depressione adolescenziale, tant’è che la madre inglese è stata messa sotto inchiesta dalle autorità scolastiche locali, perché pensavano che fosse lei a non volere che la figlia andasse a scuola. “In realtà, io ho sempre saputo che c’era qualcosa che non andava, perché l’adolescente piena di vita di una volta si era trasformata in uno zombie che dormiva sempre” ribadisce la donna.

Da qualche mese a questa parte le studentesse hanno iniziato ad assumere il Modafinil, uno stimolante che, limitando gli episodi di sonnolenza, le aiuta a restare sveglie, e la cura sembra funzionare, visto che in entrambi i casi ci sono stati dei miglioramenti: “In effetti, mia figlia è più sveglia rispetto a prima” spiega la signora Comerford.

Krizia Ribotta
19 novembre 2012

Vade retro tecnologia: rende l’uomo sempre più ottuso

Chi l’avrebbe mai detto che i nostri antenati fossero più intelligenti di noi che viviamo nel XXI° secolo? Gerald Crabtree, genetista presso l’università di Stanford ha pubblicamente affermato che l’avanzamento sempre più incalzante della tecnologia nella nostra vita non solo ci rende dipendenti, ma anche più stupidi dell’uomo che viveva 2mila anni fa. Eppure i risultati dei suoi studi sembrano parlare chiaro: “In rapporto all’uomo di qualche migliaio di anni fa la nostra intelligenza è sicuramente più debole; per fortuna la società è invece abbastanza forte da contrastare l’effetto”.

Una società, la nostra, in cui la tecnologia è diventata quasi un tutt’uno con noi, tanto che non ne possiamo più fare a meno. Smartphone, tablet, notebook, netbook e Ipad sono entrati nella nostra vita così, come un fulmine a ciel sereno, e se all’inizio erano visti solo come strumenti costosi, oggi sono considerati dei veri e propri beni di prima necessità, alla pari con i vestiti ed il cibo. Così come abbiamo bisogno di nutrirci, abbiamo anche bisogno di controllare continuamente l’aggiornamento degli status su Facebook, le foto in cui siamo stati taggati, gli ultimi tweet in cui siamo stati menzionati e le e-mail che riceviamo.

Le notifiche che compaiono direttamente sul display sono diventate praticamente inutili, visto il nostro continuo ricorso allo strumento tecnologico. L’amico immaginario di un tempo, da cui non ci saremmo mai separati, ora è stato sostituito da uno di questi dispositivi hi-tech all’ultimo grido, che ci compriamo anche a costo di sottoscrivere un finanziamento a causa dell’elevato costo. Lo vogliamo e basta. Non perché fa tendenza, come  pensavano all’inizio i critici, ma perché siamo completamente assorbiti da quel vortice di notizie, gossip e curiosità.

E per quei genitori che pensano di avere in casa dei piccoli geni solo perché i figli in età scolare sanno maneggiare un iPhone e sanno giocarci, forse è arrivato il momento di aprire gli occhi e di rendersi conto che avere internet sul telefono fa sì che gli studenti non siano più preoccupati per una verifica o un compito scritto, perché tanto possono collegarsi e digitare su Google la domanda. Prima la sufficienza era conquistata solo da chi se la meritava perché aveva studiato, ora è regalata anche a chi è così in gamba e veloce ad usare uno smartphone. Infatti, come sottolinea con rammarico Crabtree: “la selezione naturale non è più così estrema”.

Krizia Ribotta
17 novembre 2012

L’alcol in gravidanza può influenzare le capacità cognitive del feto

Basta un bicchiere a settimana, ovvero meno di quaranta durante tutto il periodo di gestazione, e il bambino che si porta in grembo potrebbe nascere con un quoziente intellettivo ridotto. Questo è quanto dimostrato da uno studio britannico pubblicato su PLosONE, che ha effettuato una ricerca su un gruppo di 4 mila madri e 4.167 bambini.

I ricercatori delle Università di Oxford e Bristol, hanno analizzato le quattro modifiche genetiche individuate nei geni deputati a metabolizzare l’alcol attraverso la randomizzazione mendeliana, per poi collegarle ad un quoziente di intelligenza più basso nel figlio che si porta in grembo.

Ad ogni variante genetica riscontrata è stato rilevato un calo di ben due punti nel QI del bambino, la cui capacità cognitiva è stata testata all’età di  otto anni attraverso la Wechsler Intelligence Scale for Children, l’unico modo per rilevare le modifiche genetiche, che altrimenti risulterebbero nulle.

Sarah Lewis, dell’Università di Bristol, spiega brevemente come l’equipe ha deciso di condurre le ricerche: sono stati distribuiti dei questionari alle mamme, che dovevano compilarlo ad intervalli regolari durante il corso della gravidanza. Le cosiddette bevitrici pesanti (“heavy drinkers”) sono state immediatamente escluse dallo studio, che prendeva in considerazione solo l’assunzione di alcol leggero, e le attenzioni si sono concentrate sulle bevitrici di appena un bicchiere (classificate come “drinking during pregnancy”).

A guidare lo studio è stato il professore Ron Gray, dell’Università di Oxford, che ha sottolineato come questa scoperta dovrebbe essere presa in considerazione, visto che si tratta dell’ “ennesima buona ragione per dire no all’alcol mentre si aspetta un bimbo, la cui intelligenza futura dipenderà anche da questo”.

Krizia Ribotta
15 novembre 2012