L’origano della pizza: un’arma contro il tumore alla prostata

Pianta dell’Origano (Origanum vulgare)

Da tempo si ritiene che l’origano, un’erba comunemente usata come ingrediente della pizza, abbia molteplici effetti salutari, ma un nuovo studio di ricercatori della Long Island University, New York, indica che questa spezia potrebbe essere utilizzata anche nel trattamento del tumore alla prostata, la seconda causa di morte per cancro nella popolazione maschile americana.

L’origano è una pianta erbacea perenne, appartenente alla famiglia delle Lamiaceae, il cui habitat è la montagna, dove può vivere fino a 2000 metri di altitudine. Fin dall’antichità sono note le sue proprietà curative per varie patologie. Le proprietà terapeutiche caratteristiche sono quelle analgesiche, antisettiche, calmanti per la tosse e attenuanti per i dolori intestinali.

I principi attivi derivano dalla presenza dei fenoli, in particolare il timolo e il carvacloro: il primo è un antisettico e vermifugo; il secondo è un antisettico, finora usato in profumeria. Proprio in questo secondo componente, il carvacloro, pare sia stata individuata una proprietà terapeutica finora sconosciuta, quella antitumorale prostatica.
Il tumore della prostata è un tipo di cancro che di solito colpisce gli uomini in età avanzata. Dati recenti elaborati negli USA indicano che, tra gli americani, un malato su 36 è destinato a morire di questa patologia.  Solo nel 2012 negli Stati Uniti sono stati diagnosticati 241.740 casi di tumore alla prostata, di cui 28.170 mortali.
Attualmente, i pazienti vengono curati con trattamento chirurgico, radioterapia, terapia ormonale, chemioterapia e terapia immunitaria, ma purtroppo queste cure comportano spesso notevoli complicazioni e gravi effetti collaterali.

La Dottoressa Supriya Bavadekar, docente di Farmacologia all’ Arnold & Marie Schwartz College of Pharmacy and Health Sciences della Long Island University, sta attualmente testando il carvacrolo, sulle cellule del cancro alla prostata. I risultati del suo studio dimostrano che il componente induce apoptosi in queste cellule. L’apoptosi, in medicina, è la “morte cellulare programmata”, detta anche, semplicemente, il “suicidio cellulare”. La dottoressa Bavadekar ed il suo gruppo, al momento, stanno tentando di determinare quale percorso compia il componente per portare al suicidio le cellule tumorali. “Noi sappiamo che l’origano possiede proprietà sia antibatteriche che antinfiammatorie”, afferma la dottoressa Bavadekar. “Ma i suoi effetti sulle cellule tumorali innalza questa spezia al livello di super-spezia, al pari della curcuma, usata per potenziare gli effetti della radioterapia e della chemioterapia”.

Anche se lo studio è in una fase preliminare, lei crede che i dati iniziali indichino un enorme potenzialità in termini di utilizzo di carvacrolo come agente anticancerogeno. “Un significativo vantaggio è che l’origano è comunemente usato negli alimenti e negli Stati Uniti è generalmente riconosciuto come condimento sano”. “Alcuni ricercatori hanno già dimostrato che mangiare pizza può ridurre il rischio di cancro. Questo effetto era stato attribuito finora al licopene, una sostanza che si trova nella salsa di pomodoro, ma ora noi riteniamo che anche il condimento con l’origano possa giocare un ruolo”, dichiara la dottoressa Bavadekar. “Se lo studio continua a dare risultati positivi, questa super-spezia può rappresentare una terapia davvero promettente per i pazienti affetti da tumore alla prostata”.
I risultati dello studio sono stati presentati il 24 aprile scorso alla sessione di Experimental Biology 2012 a S.Diego, in California.

Leonardo Debbia

L’evoluzione umana fu causata dai cambiamenti climatici?

Come avviene l’evoluzione? Qual è stata la spinta che ha agito nel processo evolutivo di tutti gli esseri viventi, animali e piante e, più specificamente, dell’Uomo? La domanda è facile da formularsi; anzi, sorge spontanea, tant’è che se la posero anche i “padri fondatori” delle varie teorie evoluzioniste, da Lamarck a Darwin, molto prima degli attuali studiosi. La risposta non è semplice da dare e a tutt’oggi la comunità scientifica appare divisa.

Per Darwin la risposta fu: “La selezione naturale”. Secondo lui, la lotta per la sopravvivenza faceva sì che individui più forti degli altri sopravvivessero a scapito dei meno adatti alla competizione, per cui l’animale con zampe più lunghe sfuggiva ai predatori più facilmente e quello con pelliccia più folta sopravviveva ai climi più rigidi. Attraverso la trasmissione dei caratteri più favorevoli, di generazione in generazione, si producevano così individui sempre più adatti, finchè una specie acquisiva, rispetto agli individui di provenienza, differenze significative tali da potersi definire una nuova specie.  Questa teoria fu formulata nel 1838, circa duecento anni fa, e in tutti questi anni non le sono certo mancate critiche, variazioni, aggiornamenti, smentite, arricchimenti. Ancora oggi, però, resta un pilastro del pensiero evoluzionista.

Con le scoperte di Mendel, negli anni ’20 del XX secolo, nacque il neodarwinismo, che spiegava come, in un organismo, la maggior parte dei caratteri è governata da dozzine di geni ognuno dei quali produce piccoli effetti che, sommati, possono portare ad una variazione importante dell’organismo originario. Con l’avanzare degli studi sul DNA, specie ad opera di James Watson e Francis Crick, negli anni ’50 si riuscì a capire la trasmissibilità dei caratteri. Se due specie evolvono da un antenato comune, il loro DNA cambia lentamente, accentuando le differenze. Il discorso sulla evoluzione umana si inserisce quindi in un contesto più grande, che comprende tutti gli esseri viventi, animali e piante.

Oggi, la teoria più accreditata è quella che ritiene l’umanità attuale essersi evoluta da un progenitore comune allo scimpanzé verso i 5-6 milioni di anni fa. Circa 2,3-2,4 milioni di anni fa dall’Australopithecus si sarebbe differenziato il genere Homo che con la specie erectus, si sarebbe diffuso dall’Africa negli altri continenti, dando vita a varie nuove specie locali. Come si evince dai numerosi resti fossili, è ormai accettata da tutti l’ipotesi che l’umanità attuale abbia avuto la sua culla in Africa, sia che i primi Sapiens si siano evoluti in quel continente e poi emigrati sostituendo Homo erectus in Asia e Homo neanderthalensis in Europa (teoria africana), sia che discendano da popolazioni di Homo erectus emigrati dall’Africa ed evolutisi poi separatamente in luoghi diversi (teoria alternativa multiregionale).

Senza entrare nel merito della disputa sulle differenti ipotesi, resta il fatto che di migrazioni si debba comunque parlare. E allora è lecito chiedersi quale spinta o quali insiemi di spinte abbiano prodotto queste migrazioni di massa. Bisogno di continue fonti di alimentazione e quindi spostamenti in cerca di prede da cacciare? Necessità di occupare nuovi spazi, magari in competizione con altri gruppi umani? Ricerca di terre più ospitali in conseguenza a sopraggiunti cambiamenti climatici? Questi interrogativi sono tutti legittimi e probabilmente la risposta potrebbe essere individuata non tanto in un’unica causa, quanto piuttosto nel concorso di più cause. Indubbiamente l’approvvigionamento di cibo deve aver avuto un ruolo determinante. Se si pensa che l’alimentazione è fondamentale per la sopravvivenza, non si può trascurare la rilevanza di questo fattore. Secondo un articolo pubblicato su Science, i modelli con cui viene spiegata la distribuzione di animali e piante sotto l’influenza dei cambiamenti climatici possono anche spiegare gli aspetti dell’evoluzione umana. L’approccio richiede la conoscenza delle modalità di diffusione geografica delle specie animali provocate dall’alternanza di periodi caldi e freddi durante le ere glaciali perchè si possa avere un modello applicabile anche alle origini dell’uomo.

“Nessuno, prima d’ora, ha applicato questa conoscenza agli esseri umani” – ha dichiarato John Steward, autore principale dello studio e ricercatore della Bournemouth University del Regno Unito – “Abbiamo cercato di spiegare molto di quel che sappiamo sugli esseri umani, tra cui l’evoluzione e l’estinzione del Neanderthal e dei Denisovans (il gruppo umano scoperto di recente in Siberia), nonchè il modo in cui si ibridarono con le prime popolazioni moderne che avevano lasciato l’Africa. Tutti questi fenomeni sono stati esaminati nel contesto delle reazioni di animali e piante durante i cambiamenti climatici. Stiamo considerando gli esseri umani sotto lo stesso punto di vista delle altre specie”. “Si ritiene – prosegue lo studioso – che il clima sia stato la forza trainante di questi processi evolutivi, compresi i cambiamenti di natura geografica. Il clima può determinare dove e quando una specie possa trovarsi, condizionandone così la diffusione e la distribuzione. La ricerca porta anche a conclusioni interessanti sul come e il perché i Neanderthal e i Denisovans si siano evoluti ma anche estinti per primi”.

Giova ricordare che con il termine Denisovans si indica un giovane ominide i cui resti sono stati rinvenuti nel 2008 nella Cava Denisova, sui Monti Altai in Siberia da un team guidato da Johannes Krause e Svante Paabo del Max Planck Institut di antropologia evolutiva di Leipzig, in Germania, i cui artefatti sono stati datati sui 40mila anni fa. Denisovans, Neanderthal e Sapiens convissero quindi nello stesso periodo e nello stesso ambiente. Le prime due specie si estinsero, mentre i Sapiens continuarono nella loro evoluzione. Probabilmente per le prime due specie ci fu una sorta di eccessiva specializzazione all’interno di gruppi sempre più piccoli, in sintonia con la ricerca di un riparo dalle condizioni climatiche.

“Il modello relativo al clima – continua Stewart – spiega perché l’Homo sapiens in quanto specie possa essere qui e gli uomini primitivi no. Uno dei modelli che abbiamo formulato è che l’adozione di una nuova area di “rifugio” dalle dure condizioni climatiche dell’Era glaciale da parte di un sottogruppo di una specie può portare a grandi cambiamenti evolutivi interni e, in ultima analisi, alla nascita di una nuova specie. E questo potrebbe applicarsi a tutte le specie continentali viventi, siano animali o piante”. Il co-autore dello studio, professor Chris Stinger del Museo di Storia Naturale di Londra, aggiunge: “I modelli climatici possono spiegare come specie quali Homo antecessor e Homo neanderthalensis abbiano potuto evolversi in Eurasia. Il concetto di “rifugio” può anche spiegare perché l’ipotizzata ibridazione tra Neanderthal e Denisovans sia potuta avvenire nella parte meridionale dell’Eurasia, in luoghi con clima più mite, piuttosto che nel gelido Nord”.

Leonardo Debbia

Acidificazione degli oceani e adattamento: il mare cambia, qualcuno si adegua

La barriera corallina, habitat ideale per molte specie.

Il grado di acidificazione degli oceani è attualmente oggetto di dibattito e di pareri discordi in seno alla Comunità scientifica internazionale. Per alcuni, infatti, il problema non si pone neppure. Per gli scettici – che costituiscono però una minoranza – non sono in atto variazioni apprezzabili nel contenuto di anidride carbonica dei mari. Le emissioni antropiche di CO2 sono talmente esigue – affermano – che, anche usando gli strumenti più sensibili, non è possibile misurare le variazioni di acidità del mare. La maggior parte degli studiosi dell’ambiente prende invece in seria considerazione il fenomeno, ritenendolo attuale al pari dei cambiamenti climatici. Il processo fisico-chimico dell’acidificazione dei mari è in costante aumento, molto probabilmente sotto la spinta antropica, e minaccia l’esistenza di molti organismi, se non addirittura dell’intero ecosistema marino.  Questo pericolo, che forse è già emergenza, deve essere quindi affrontato con tempestivi rimedi, prima che si giunga ad una incontrollabile criticità per la vita sull’intero pianeta.

Il processo per cui gli oceani diventano più acidi consiste, sostanzialmente, nello scioglimento di anidride carbonica atmosferica nell’acqua marina, con il risultato di un aumento del contenuto di acido carbonico in soluzione e una riduzione degli ioni di carbonio liberi. Più specificamente, hanno luogo due reazioni: la prima produce acido carbonico, che si scinde ulteriormente in ioni H+ e ioni bicarbonato. La maggiore concentrazione di ioni H+ influenza il pH dell’acqua, ossia determina l’acidificazione del mare. Una seconda reazione, che produce ancora ioni bicarbonato, coinvolge, oltre all’acqua e alla CO2, anche ioni di carbonio, quindi la riduzione di questi ioni liberi, fondamentali nei processi di compensazione dei carbonati, e la calcificazione di gusci calcarei e scheletri. Questa carenza ha un impatto devastante sull’ecosistema marino e porta alla dissoluzione dei gusci calcarei delle conchiglie di molluschi, echinodermi, alghe, coralli e plancton calcareo; in pratica, di tutti gli organismi la cui esistenza è legata alla fissazione di carbonato di calcio. Per i coralli in particolare, è da sottolineare l’importanza che riveste la presenza delle loro barriere, sia come habitat per altre specie marine, sia per la protezione delle coste e quindi, in definitiva, per il corretto sviluppo di intere catene alimentari.

La formazione di barriere coralline sta, di fatto, calando in tutto il mondo ed un recente studio prevede che scenderà ancora del 60% nei prossimi cento anni, qualora la produzione antropica di CO2 continui a mantenersi sui livelli attuali. E’ stato calcolato che tra il 1751 e il 1994 il pH degli oceani si sia abbassato da 8,25 a 8,14 con un corrispondente aumento della concentrazione di ioni H+. 

Coralli. In un ambiente a maggiore acidità gli scheletri di calcite si mostrano molto vulnerabili, mentre gli scheletri di aragonite sembrano avere sviluppato un ottimo meccanismo di adattamento.

Per evidenziare quanta importanza abbia l’attività antropica basti sapere che dall’inizio dell’era industriale si calcola che il rilascio di CO2 nell’atmosfera sia aumentato di un terzo.

Non si conosce ancora la potenzialità degli organismi nell’affrontare le condizioni della acidificazione per mezzo di adattamenti evolutivi. Tuttavia, alla luce di un recente studio, si può assistere a reazioni inaspettate, che aprono scenari nuovi, fornendo una visione più ottimista. Riguardo i coralli, ad esempio, lo studio in questione sembra smentire le aspettative catastrofiste che prevedono la scomparsa delle barriere coralline. La ricerca, che è stata svolta da studiosi australiani della University of Western Australia congiuntamente ai colleghi francesi del Laboratoire des Sciences du Climat e de l’Environnement e pubblicata su Nature Climate Change, è giunta alla conclusione che i coralli hanno sviluppato un meccanismo di difesa in grado di contrastare i cambiamenti climatici. “Lo scheletro di questi organismi appare molto più resistente di quanto si pensasse”, afferma il prof. Malcom Mc Culloch della UWA. Il carbonato di calcio degli organismi marini si trova sotto due forme: calcite, la fase stabile e aragonite, la fase metastabile che al di sopra di 500°C si trasforma in calcite. Gli organismi con gusci e scheletri aragonitici si trovano bene anche in un habitat divenuto più acido ed essendo molte specie di coralli costituiti di aragonite si spiega così la loro facile adattabilità a condizioni di acque più acide. Al contrario, le specie coralline con gusci a composizione calcitica si adattano molto peggio e quindi sopravvivono solo le specie che si adattano più facilmente.

Anche per quanto riguarda il plancton, uno studio dell’Helhmolz Centre for Ocean Research (GEOMAR) di Kiel in Germania, ha dimostrato le potenzialità di adattamento dell’alga unicellulare Emiliania huxleyi alla diminuzione del pH e quindi la possibilità di questi microrganismi di mitigare parzialmente gli effetti negativi dell’acidificazione degli oceani. Questi risultati, ottenuti dai biologi Kai Lohbeck, prof. Ulf Riebesell e prof. Thorsten Reusch,  sono stati pubblicati sull’ultimo numero di Geoscience. Ceppi sperimentali di Emiliania huxleyi sono stati isolati in acque costiere norvegesi e coltivati in laboratorio in acqua ad alto contenuto di anidride carbonica, simulando così le condizioni oceaniche previste per il futuro. Dopo circa un anno, equivalente a 500 generazioni di questa specie, che ha un’elevata velocità di riproduzione, i biologi hanno rilevato un adattamento di questa alga al tasso elevato di acido carbonico.

Cellule di Emiliania huxleyi in una fotografia al microscopio elettronico (da Lennarth Bach, GEOMAR).

Le popolazioni adattate erano cresciute e si calcificavano significativamente meglio rispetto alle popolazioni di origine, cresciute senza controllo in ambiente marino nelle attuali condizioni di acidificazione oceanica. I meccanismi evolutivi proposti dagli scienziati di Geomar sono la selezione di diversi genotipi e l’accumulo di nuove mutazioni benefiche. Tale adattamento non era stato dimostrato in precedenza in qualsiasi altro tipo di fitoplancton. “Con questo studio abbiamo dimostrato per la prima volta che i processi evolutivi possono agire su scale temporali e cambiamenti climatici rilevanti e quindi mitigare gli effetti negativi dell’acidificazione degli oceani attualmente in corso”, dice il biologo evoluzionista Thorsten Reusch, e aggiunge: “Questi risultati sottolineano l’esigenza di una considerazione dei processi evolutivi in futuri studi di valutazione sulle conseguenze biologiche del cambiamento globale”.

Leonardo Debbia

“Lucy” visse con parenti stretti: scoperti i resti fossili di suoi coetanei

Il piede parziale. Foto di laboratorio, dopo la pulitura e la preparazione. Si osserva la forma anatomica articolata, adatta ad una vita arboricola. (Foto del Cleveland Museum of Natural History).

Un team di scienziati etiopi ed americani ha annunciato la scoperta di una porzione di piede dell’età di 3,4 milioni di anni nella Woranso-Mille Area della regione dell’Afar in Etiopia. Il fossile non appartiene ad un Australopithecus afarensis, la specie cui appartiene “Lucy”, il famoso primo antenato dell’uomo, i cui resti furono rinvenuti nella stessa regione durante i primi anni settanta del secolo scorso.

Un’osservazione accurata su questo nuovo campione indica che si tratta di altro e che quindi fra i 3 e i 4 milioni di anni fa esistevano più specie tra cui ricercare il primo antenato dell’uomo, ipotizzando anche che qualcuna di queste, per muoversi, abbia potuto aver adottato mezzi diversi di locomozione.

Il piede parziale è stato rinvenuto in un’area localmente conosciuta come Burtele. “Il piede parziale di Burtele dimostra chiaramente che 3,4 milioni di anni fa la specie di Lucy che camminava eretta sulle gambe non era l’unica specie di ominidi viventi in questa regione dell’Etiopia”, afferma l’autore e responsabile del progetto, Dottor Yohannes Haile-Selassie, Curatore di Antropologia fisica del Cleveland Museum of Natural History dell’Ohio. “La specie coesisteva con i parenti stretti che erano però più adatti ad arrampicarsi sugli alberi, come la specie Ardipithecus ramidus o “Ardi”, che visse 4,4 milioni di anni fa”.

Le analisi dello studio sono state pubblicate su Nature del marzo scorso. Il piede parziale è il primo esempio della presenza contemporanea di almeno due specie pre-umane con differenti modi di locomozione che vissero in Africa orientale verso i 3,4 milioni di anni fa. Mentre il grosso alluce del piede della specie di Lucy era allineato con le altre quattro dita, rivelando un’andatura bipede come quella degli umani, il piede di Bertele ha un grosso alluce opponibile, come i primi Ardi. “La scoperta ci ha sorpreso non poco”, dice il Dottor Bruce Latimer della Case Western Riserve University, co-autore e responsabile del progetto assieme al Dott. Haile-Selassie.  “Questi fossili sono ossa mai viste prima. Mentre il grosso alluce prensile poteva muoversi da una parte all’altra, opponendosi a tutte le altre quattro dita, non si sviluppava invece quel tanto al di sopra dell’articolazione da consentire un’ampia gamma di movimento necessario per sostenersi ed esercitare una spinta sul terreno. In sostanza, non poteva mantenere un’andatura eretta. Questo individuo, al suolo, avrebbe probabilmente avuto un’andatura goffa”.

Il nuovo campione parziale del piede non è ancora stato assegnato ad una specie definita, in assenza di altri elementi che risulterebbero determinanti, come cranio o denti. I fossili sono stati rinvenuti sotto uno strato di arenaria. Usando il metodo di datazione dell’argo radioattivo, ne è stata determinata un’età inferiore ai 3,46 milioni di anni, secondo il Dottor Beverly Saylor della Case Western Riserve University. “Fossili di pesci, coccodrilli e tartarughe rinvenuti nei dintorni e le caratteristiche fisiche e chimiche dei sedimenti mostrano che l’ambiente era un insieme di canali fluviali vicini ad un bosco aperto di alberi e cespugli”, afferma Saylor.  “Questo concorda con l’ipotesi che il fossile indichi con certezza un ominide adattatosi a vivere sugli alberi nello stesso periodo in cui “Lucy” viveva sulla terra”.

Leonardo Debbia

Quando la stanchezza diventa una malattia

Quando la stanchezza diventa una malattia. Il 12 maggio prossimo sarà celebrata, come è consuetudine da alcuni anni, la Giornata Mondiale della Stanchezza Cronica, il cui simbolo è rappresentato da un fiocchetto blu. Questa giornata è stata istituita per sensibilizzare l’opinione pubblica su questa rara patologia, misconosciuta dai più, ma fortemente invalidante per chi ne è affetto.

Comunemente, una condizione di stanchezza è un sintomo, peraltro assai diffuso, cui ognuno di noi ha la propria risposta individuale in tempi variabili, ma che generalmente, dopo un adeguato riposo, ci restituisce alle condizioni ”normali” precedenti l’insorgenza dello stato di malessere. Spesso è solo un sintomo che spinge dal medico, il quale può verificare se alla base ci possa essere uno stato di stress psicofisico, una depressione, oppure una patologia organica quale l’ipotiroidismo, il diabete, un tumore o una malattia infettiva.

Niente di tutto questo riguarda la sindrome da stanchezza cronica, che si manifesta con una sintomatologia completamente diversa, non inquadrabile nelle patologie citate, con una gamma di disturbi legati a più malattie, per cui la diagnosi non può che essere fatta per esclusione. Non si hanno valori ematici alterati o una sola prova di laboratorio che possa essere utilizzata come indicatore diagnostico. Non esistono apparecchiature strumentali in grado di “misurare” la fatica, parametro di per sé soggettivo al pari della percezione del dolore.

Il paziente è “soltanto” stanco. Stanco come può esserlo una persona reduce da un lavoro manuale pesante. Affaticato per una stanchezza che non passa nè diminuisce anche dopo una notte di riposo.
All’astenia profonda si affiancano spesso dolorabilità diffusa agli arti e alle fasce muscolari, cefalea, febbricola, disturbi del sonno, difficoltà di concentrazione, infiammazioni alla gola e linfonodi.
Questi disturbi possono insorgere anche separatamente e vengono spesso interpretati dal medico come disturbi della sfera psichica, generici stati depressivi o ipocondriaci.

E’ stato riscontrato che gli stati depressivi sono invece secondari, conseguenti allo stato di malessere diffuso, in cui il paziente riferisce di sentirsi “come dopo uno stato influenzale”. L’insorgenza della malattia è subdola ma improvvisa, quasi sempre dopo uno stato infettivo o un tumore o un forte choc come, ad esempio, un lutto. Si manifesta maggiormente tra la popolazione femminile, tra i 20 e i 50 anni di età, anche se è stato segnalato qualche sporadico caso nell’infanzia. Si è calcolato che in Italia 200-300mila persone siano affetti da questa sindrome, una cifra significativa, anche in senso sociale, qualora si metta in relazione con le ridotte capacità lavorative di chi ne è colpito e con il frequente assenteismo che necessariamente ne consegue. Purtroppo, ancor oggi, a fronte di migliaia di studi condotti un po’ovunque nel mondo, molti non conoscono affatto questa sindrome; in particolare, i medici. Anche se già dagli anni ottanta del secolo scorso si tentava di inquadrarne la sintomatologia, i criteri per una diagnosi di sindrome da fatica cronica sono stati codificati negli Stati Uniti, ad Atlanta, solo nel dicembre 1994 da un gruppo di studio internazionale, che ne ha anche stabilito la definizione in CFS (Chronicle Fatigue Sindrome), poi divulgata sugli Annals of Internal Medicine.

In Italia il primo ad accogliere i dati dei CDC di Atlanta e ad occuparsi di CFS è stato il prof. Umberto Tirelli, oncologo presso il CRO di Aviano. Attualmente, nel nostro Paese, oltre ad Aviano, esistono Centri per la diagnosi di CFS a Roma, Chieti, Pisa. Sempre ad Aviano, a Pavia e a Belluno si sono anche costituite Associazioni di ammalati, che si prefiggono di mantenere rapporti tra pazienti, promuovere la conoscenza di questa patologia e divulgare le eventuali novità che emergono dalla ricerca, ormai estesa in tutto il mondo, dagli USA al Giappone, dal Regno Unito al Belgio, al Sud Africa, all’Australia. Purtroppo i risultati ottenuti finora non sono molto confortanti. Nel 2007 Anthony Komaroff, professore di Medicina ad Harvard, ha riassunto alcune scoperte definitivamente accertate sulla CFS. Si sa che non si tratta di una forma di depressione. Nei pazienti è stato riscontrato uno stato cronico di attivazione del sistema immunitario e un aumento dei livelli di citochine. Utilizzando la risonanza magnetica, sono state notate anomalie nella materia bianca del cervello, in aree molto piccole della corteccia e differenze di volume della materia grigia. La tomografia computerizzata (SPECT e PET) ha rilevato anomalie del metabolismo cerebrale riferibili all’asse ipotalamico-pituitario-adrenalinico (HTA). Ricerche indipendenti hanno rilevato alterazioni nei geni che presiedono il metabolismo energetico, il sistema nervoso simpatico e il sistema immunitario.

Esistono prove di infezioni attive latenti da herpes virus (Epstein-Barr, HHV-6, citomegalovirus) ed entero virus. Per quanto riguarda la terapia, si sono purtroppo registrati passi falsi e sono state date spesso speranze infondate. Ricordiamo il fallito tentativo fatto con l’Ampligen, una decina d’anni fa, e nel 2009 la correlazione della CFS con il gammaretrovirus XMRV, accolta prima con leggero scetticismo e quindi smentita definitivamente nel gennaio 2012 da vari test che verificarono una contaminazione alla fonte. Ad oggi, la eziologia della CFS permane ignota e cure risolutive non ne esistono.

Ci si limita ad arginare i disturbi con somministrazioni di integratori, immunomodulatori, cortisonici. Un recente studio dell’Università dell’Iowa ha scoperto un legame biologico tra il dolore e la spossatezza che può aiutare a capire perché siano più le donne rispetto agli uomini ad avere diagnosi di dolore cronico in condizioni di fatica quali la sindrome da stanchezza cronica o la fibromialgia. Il dolore cronico e la fatica sono spesso associati. In persone affette da stanchezza cronica, ben tre persone su quattro hanno dolori muscolo-scheletrici diffusi rapportati alla fatica e ben il 94% delle persone con sindromi da affaticamento cronico segnalano dolori muscolari. Le donne costituiscono la maggioranza dei pazienti in cui è presente questa correlazione. Sperimentando sui topi, Kathleen Sluka, professore del Corso di laurea in Terapia Fisica e Scienza della Riabilitazione dell’Università dell’Iowa e Lucille A. Carter, del College of Medicine, hanno scoperto che una proteina, la ASIC3, coinvolta nel dolore muscolare, lavora in sinergia con l’ormone maschile del testosterone per proteggere contro l’affaticamento muscolare. “Abbiamo provato che la differenza nella fatica tra maschi e femmine dipende sia dalla presenza del testosterone che dall’attivazione della proteina ASIC3”, afferma Sluka. “Il risultato suggerisce che questi fattori stanno interagendo in qualche modo per proteggere contro la stanchezza e può aiutare a spiegare la prevalenza del numero di donne su quello degli uomini in condizioni di dolore cronico associato alla fatica”.

Lo studio, che è stato pubblicato sull’American Journal of Physiology – Regulatory, Integrative and Comparative Physiology, indica che il dolore muscolare e la fatica non sono condizioni indipendenti e possono condividere un percorso comune. In un altro studio americano sulla CFS, i ricercatori, con opportuni test, hanno individuato risposte cerebrali diverse in pazienti affetti da questa condizione rispetto a soggetti sani, suggerendo una associazione tra risposta biologica funzionale e sindrome da stanchezza cronica. Lo studio è stato condotto da Elizabeth R.Unger, James F.Jones, Hao Tian dei Centers for Disease Control and Prevention; Andrew H. Miller e Daniel F. Drake della Emore University School of Medicine e Giuseppe Pagnoni dell’Università di Modena e Reggio Emilia. I pazienti con CFS mostravano di avere una ridotta attivazione di un’area del cervello, i gangli della base sollecitati per una risposta alla ricompensa (Reward center).

I gangli basali del cervello sono associati, infatti, all’attivazione di una risposta alla ricompensa e le malattie di questa area cerebrale sono spesso associate alla fatica. L’esperimento è partito con la verifica che in pazienti affetti da epatite cronica C trattati con interferone-alfa in terapia immunitaria è stato trovato uno stato di affaticamento che ha molte analogie con la CFS. Pazienti affetti da CFS e individui sani sono stati sottoposti ad un test, un gioco con le carte in cui si vinceva una piccola somma di denaro. Con la risonanza magnetica è stato misurato l’afflusso di sangue ai gangli basali cerebrali durante le partite. Nei pazienti con CFS le differenze di afflusso sanguigno tra vincita e perdita era inferiore ai soggetti sani, così come pure il grado di stanchezza, inducendo a dedurre fosse presente una correlazione tra la fatica e queste variazioni. Unger afferma: “Molti pazienti con CFS incontrano molto scetticismo sulla loro malattia. Lo studio suggerisce che i gangli della base utilizzano dopamina, un neuro-ormone prodotto dal talamo e dai gangli della base. La dopamina è il principale neurotrasmettitore che agisce sul sistema nervoso simpatico, con effetti sulla frequenza cardiaca e la pressione sanguigna. Il meccanismo della dopamina può avere un ruolo fondamentale nella malattia e suggerire nuove vie di approccio alla cura. Lo studio, intitolato “Ridotta attivazione dei gangli basali in soggetti con sindrome da affaticamento cronico è associato ad affaticamento maggiore”, è stato presentato al meeting Experimental Biology 2012 presso il S.Diego Convention Center del mese scorso.

Leonardo Debbia

Continenti alla deriva: quando la terra si mette a navigare

Secondo un ricercatore della NASA, lo strato di roccia parzialmente fusa, di spessore variabile da 22 a 75 miglia, sottostante la superficie terrestre, non può essere l’unico meccanismo che permette lo spostamento dei continenti nel corso di milioni di anni, come sostiene la teoria della “deriva dei continenti”.

Riproduzione di una sezione trasversale della Terra sotto l’oceano. Gli strati sono indicati sulla destra (astenosfera, litosfera). Le linee bianche mostrano il percorso delle onde sismiche dall’ipocentro di un terremoto alla posizione del sismometro. (Triangolino blu) A metà del loro viaggio, le onde vengono riflesse dalla superficie terrestre o da uno strato di roccia fusa. Nel percorso più lungo le onde, prima di essere riflesse, arrivano in superficie. Un percorso più breve è possibile se le onde vengono riflesse da uno strato fuso posto al limite litosfera-astenosfera (rappresentato dal giallo-arancio sotto il punto caldo (hot spot). Le onde che prendono questa strada più breve arrivano al sismometro alcune decine di secondi prima.

“Questa fusione sotto il fondale dell’Oceano Pacifico e in aree circostanti può essere messo in discussione, secondo quanto emerge dalle mie analisi dei dati sismometrici”, afferma il dottor Nicholas Schmerr, ricercatore della NASA presso lo Space Goddard Flight Center di Greenbelt, nel Maryland.

“Dal momento che la fusione si verifica solo in alcune zone e in altre manca, non può essere questa l’unica causa per cui le rigide placche continentali abbiano la possibilità di scorrere sulla roccia fluida sottostante”.
Il lento scorrimento dei continenti sulla superficie terrestre è infatti il modello su cui si basa la “tettonica a zolle” o “tettonica a placche”, elaborata da Alfred Wegener agli inizi del secolo scorso, riveduta e perfezionata più volte nel corso degli anni.Il nostro pianeta ha più di 4 miliardi di anni e, secondo il modello proposto da questa teoria, per tutto questo tempo le forze previste dalla tettonica a zolle hanno spostato i continenti per molte migliaia di miglia, originando catene montuose quando entravano in collisione e dando luogo a estesi avvallamenti, in cui penetravano e si espandevano gli oceani, quando si allontanavano.

Questo spostamento o deriva dei continenti, influenzando le correnti negli oceani e nell’atmosfera, data la frapposizione di ostacoli quali fosse o barriere montuose, potrebbe inoltre aver avuto effetti sul clima e sulle faune, inducendo cambiamenti anche significativi.

Libera schematizzazione in cinque fasi della frammentazione del continente unico (Pangea) e della deriva dei continenti durante gli ultimi 225 milioni di anni, dal Permiano: a), attraverso il Mesozoico: b), c), d), ad oggi e).

Lo strato più esterno della Terra, la litosfera, è suddiviso in numerose placche tettoniche e comprende la crosta e una porzione di mantello superiore, più freddo e rigido. Sotto gli oceani la litosfera è relativamente sottile (65 miglia), mentre sotto i continenti può raggiungere anche le 200 miglia di spessore. La litosfera si appoggia sulla astenosfera, uno strato di roccia plastica, che si deforma lentamente e gradualmente nel tempo e su cui scorrono le placche continentali.

Il motore principale del movimento delle placche potrebbe essere il calore proveniente dall’interno della Terra, quello che risulta essere prodotto dal decadimento radioattivo degli isotopi di elementi quali l’uranio, il torio e il potassio. Il calore, propagandosi alle rocce del mantello, ne diminuisce la viscosità, rendendole plastiche e causando al suo interno dei moti convettivi, con l’ascensione di correnti calde verso le zone esterne più fredde e la discesa di correnti a temperatura inferiore, analogamente a quello che accade in una pentola d’acqua che bolle. Queste correnti di turbolenza, giungendo negli strati più vicini alla superficie terrestre, sospingerebbero le placche continentali, facendole scorrere sul substrato fluido, come degli iceberg che galleggiano sull’oceano. Sebbene il processo di base che guida la tettonica a zolle sia compreso, molti dettagli restano ancora un mistero. “Qualcosa deve separare le placche crustali dalla astenosfera in modo che possano scorrere su di essa” – dice infatti Schmerr. “Numerose teorie sono state proposte e una di queste prevede che uno strato fluido funga da lubrificante fra la litosfera e l’astenosfera, consentendo alle placche della crosta di scorrere. Tuttavia, poichè sotto la placca del Pacifico questo strato è presente solo in certe zone, mentre in altre zone manca, questo non può essere il solo meccanismo che permette alla tettonica a placche di agire. Deve avvenire qualcos’altro, perché la placca possa scorrere in zone dove lo strato fuso non esiste”. Altri possibili meccanismi che potrebbero agire con più efficacia al confine tra la litosfera e l’astenosfera presuppongono l’aggiunta di materiale volatile alla roccia, come ad esempio l’acqua, insieme a differenze di composizione, temperatura e dimensioni della grana dei minerali. Tuttavia, i dati di cui disponiamo al momento non permettono di distinguere quale sia il fattore preponderante tra questi.

Schmerr ha espresso i suoi dubbi dopo aver analizzato i tempi di arrivo delle onde sismiche a vari sismometri sparsi su diverse aree della superficie terrestre. I terremoti generano, infatti, diversi tipi di onde. Uno di questi tipi è chiamato “shear-waves” o onde S, che viaggiano attraverso la Terra, rimbalzando per riflessione anche da zone interne e arrivando ai sismometri in tempi diversi, dipendenti dalle profondità di queste zone. Prendiamo un tipo di onda S che viene riflessa dalla superficie terrestre a metà strada fra un terremoto e un sismometro. La stessa onda S che incontra uno strato fuso più profondo, al confine litosfera-astenosfera, arriva al sismometro con un percorso più corto e alcune decine di secondi prima. Comparando i tempi di arrivo, le altezze e le forme delle onde arrivate per prime perché riflesse dalla superficie terrestre con le onde riflesse dagli strati fusi, Schmerr è in grado di stimare la profondità e le proprietà sismiche degli strati fusi sottostanti l’Oceano Pacifico. “La maggior parte degli strati fusi sono dove ci si aspetterebbe di trovarli, come in regioni vulcaniche quali le Hawaii e i vari vulcani sottomarini attivi o intorno a zone di subduzione, aree ai margini di una placca continentale, dove la placca oceanica sprofonda nell’interno” – ha detto Schmerr – “Tuttavia, questi strati non si trovano dappertutto, suggerendo qualcosa di diverso dal materiale fuso necessario per spiegare le proprietà dell’astenosfera”. Secondo Schmerr, capire come funziona la tettonica a zolle sulla Terra potrebbe aiutarci a capire come si è evoluta sugli altri pianeti rocciosi. Venere, ad esempio, non ha oceani e nessuna evidenza di tettonica a placche. Questo potrebbe supportare l’ipotesi che l’acqua sia un fattore essenziale per l’esistenza e la dinamica della tettonica a placche.
In assenza di acqua, l’astenosfera di Venere risulta di certo più rigida e incapace di sostenere le placche, suggerendo che il calore interno venga rilasciato in qualche altro modo, magari con eruzioni periodiche a livello globale.
Schmerr prevede di analizzare i dati di altre reti sismogafiche per verificare se lo stesso schema irregolare di strati di fusione esista sotto altri oceani e altri continenti.
La ricerca è sostenuta dalla NASA.

Leonardo Debbia

Fossili umani ritrovati in Cina. Una nuova specie?

Ricostruzione di un individuo dai fossili rinvenuti nelle due grotte del Sud-Est della Cina.

Resti fossili provenienti da due grotte del Sud-Ovest della Cina hanno rivelato l’esistenza di una popolazione dell’Età della pietra a tutt’oggi sconosciuta, gettando una nuova luce su un recente stadio dell’evoluzione umana che potrebbe avere sorprendenti implicazioni sul popolamento iniziale del continente asiatico. I fossili appartengono a individui che presentano un insieme particolare di caratteristiche anatomiche arcaiche e moderne, di un genere mai rinvenuto prima d’ora nell’Asia orientale.

I resti di almeno tre individui sono stati ritrovati nel 1989 da una equipe di archeologi cinesi e australiani a Maludong, in un sito, denominato poi Red Deer Cave, vicino alla città di Mengzi, nella provincia di Yunnan. Un quarto scheletro parziale era già stato rinvenuto, incluso in un blocco di roccia, nel 1979 da un geologo cinese in una grotta vicina al villaggio di Longlin, nella regione autonoma di Guangxi Zhuang e solo nel 2009 era stato rimosso ed esaminato. I crani e i denti di Maludong e Longlin sono molto simili gli uni agli altri e mostrano un insieme insolito di caratteristiche anatomiche arcaiche e moderne mai visto prima.

Datati ad appena 14.500-11.500 anni fa, questi individui avrebbero condiviso quei luoghi con esseri umani moderni in un momento in cui nascevano le prime culture agricole, secondo quanto afferma il team internazionale di ricerca guidato da Darren Curnoe, professore associato della University of New South Wales, Australia e dal suo collaboratore, professor Ji Xuenping del Yunnan Institute of Cultural Relics and Archaelogy. Gli studiosi sono stati cauti nel classificare i fossili, dato l’inconsueto mosaico di caratteristiche presentate che Curnoe così elenca: “Crani arrotondati, con arcate sopracciliari molto prominenti; facce brevi, molto larghe e piatte; nasi grandi; mascelle sporgenti; cervelli di moderate dimensioni, i cui lobi frontali hanno sembianze moderne; grandi denti molari”. “Queste caratteristiche rendono difficile decidere se si possa parlare di Homo sapiens o di qualche altra specie. – avverte il professor Curnoe – Questi fossili potrebbero appartenere ad una specie primitiva sconosciuta che sopravvisse fino alla fine dell’Era glaciale, appena oltre gli 11.000 anni fa, con caratteristiche anatomiche più arcaiche delle popolazioni vicine, come se avesse vissuto in isolamento, o quanto meno non si fosse incrociata con le popolazioni vicine”.  “Un’altra possibilità – continua Cunroe – è che siano il frutto di una delle prime migrazioni dall’Africa, avvenuta verso i 60mila anni fa, di uomini moderni, che potrebbero non aver contribuito geneticamente alla formazione della popolazione cinese attuale, ovvero sarebbero stati incapaci di garantire una propria discendenza nell’Oriente asiatico”.

Gli studiosi li hanno chiamati “il popolo della grotta Red Deer” o “popolo dei Cervi Rossi”, perché sicuramente cacciarono gli estinti cervi rossi, tipici della zona, e se ne nutrirono. Nella grotta di Maludong, tra i resti fossili, vi sono infatti numerose ossa di cervo che presentano tracce evidenti di arrostimento.  “Sebbene l’Asia conti oggi più della metà della popolazione mondiale, gli scienziati sanno ancora poco su come gli esseri umani si siano evoluti in quel continente dopo che i loro antenati vi si stabilirono”, afferma il professor Cunroe.

E’ interessante notare che in quei tempi l’Asia orientale non era abitata solo dal “popolo dei Cervi Rossi” e dagli umani più moderni. Non dobbiamo dimenticare infatti anche la presenza di Homo floreniensis, che viveva nell’isola di Flores, nell’ Indonesia occidentale. “L’esistenza di più popolazioni di diversa linea evolutiva dipinge un quadro di sorprendente diversità di cui non avevamo indizi fino all’ultimo decennio”, conclude Cunroe. “E’ probabilmente la punta di un iceberg della diversità che apre un nuovo capitolo della recente evoluzione umana nel Sud-Est asiatico”.

Leonardo Debbia