“Il bambino di Taung” tra la scimmia e l’Uomo. Una tappa nell’evoluzione del cervello

Il cranio di Taung, a confronto tra il cranio di un giovane scimpanzé (a sin. in basso) e un cranio umano (a destra in alto). In quest’ultimo è ancora presente la fontanella, mentre è chiusa la sutura metopica. La sutura metopica è ancora visibile, invece, sul lobo frontale del calco di Taung. (Foto Università di Zurigo).

Secondo l’antropologo evoluzionista Dean Falk, dell’Università Statale della Florida, uno dei più importanti fossili al mondo racconta la storia dell’evoluzione del cervello degli esseri umani moderni e dei loro antenati. Il fossile Taung, meglio conosciuto come “Bambino di Taung”, il primo Australopiteco mai scoperto prima, ha due caratteristiche significative che sono state analizzate da Falk e dalla sua équipe di antropologi. Il loro studio, con cui suggeriscono che l’evoluzione del cervello sia stato il risultato di un insieme complesso di dinamiche interrelate nel parto dei nuovi esseri bipedi, è stato pubblicato il 7 maggio scorso in Proceedings of the National Academy of Sciences.

“Questi risultati sono significativi perché forniscono una spiegazione plausibile sul come e il perché il cervello degli ominidi sia potuto crescere più grande e più complesso”, afferma Falk. “La prima caratteristica osservata è l’esistenza di una sutura metopica o sutura frontale persistente, una sutura non saldata dell’osso frontale, caratteristica che permette la flessibilità del cranio di un bambino nel momento del parto, allorché subisce una compressione nell’attraversare il canale del parto. Nelle scimmie antropomorfe – gorilla, orango e scimpanzé – la sutura frontale si chiude poco dopo la nascita, mentre negli esseri umani non si chiude fino a circa 2 anni di età ed entro il sesto anno di vita, questo al fine di consentire una rapida crescita del cervello. La seconda caratteristica riscontrata è il calco del fossile, ossia l’impronta della massa cerebrale impressa sulla superficie interna del cranio. Il calco, infatti, permette ai ricercatori di studiare, attraverso l’esame delle impronte lasciate sulla faccia interna delle ossa craniali dalla superficie cerebrale, la forma e la struttura del cervello. Dopo aver attentamente esaminato il fossile di Taung, comparandolo con un gran numero di crani appartenenti a scimmie ed esseri umani mediante corrispondenti scansioni in CT 3-D (scansioni tridimensionali tomografiche computerizzate) e tenendo conto della documentazione fossile degli ultimi 3 milioni di anni, Falk e i colleghi hanno registrato e stabilito tre risultati importanti:

1) La persistente sutura metopica è un adattamento degli individui per dare alla luce bambini con cervelli più grandi;
2) è collegata con una rapida crescita del cervello dopo la nascita;
3) può essere messa in relazione con l’espansione dei lobi frontali.

“La sutura metopica persistente, un tratto anatomico avanzato, probabilmente si è verificata in concomitanza con l’affinamento della capacità di camminare su due gambe”, ha detto Falk.
“La capacità di camminare in posizione eretta ha provocato un problema di natura ostetrica. Il parto divenne più difficile perché il canale del parto si era fatto più stretto, mentre, per contro, aumentavano le dimensioni del cervello. La sutura metopica persistente fu una soluzione evolutiva a questa questione”.
La tardata scomparsa della sutura metopica è un probabile adattamento di ominidi che camminavano in posizione eretta; una risposta evolutiva per poter dare più facilmente alla luce bambini con un cervello relativamente grande. Il fatto che la sutura non appaia saldata conferma la connessione con la rapida crescita del cervello dopo la nascita quale carattere umano più avanzato rispetto alle scimmie.
“La saldatura successiva è stata anche associata con l’espansione evolutiva dei lobi frontali che è evidente dall’esame del cranio nei calchi di australopitechi come Taung”, ha detto Falk.

Bambino di Taung - Ricostruzione del cranio.

Il bambino di Taung è il nome con cui è meglio conosciuto il cranio fossile infantile di Australopithecus africanus risalente a 2,3 milioni di anni fa, rinvenuto in una cava a Taung, in Sudafrica, nel 1924. Incastrato in una pietra, il cranio si mostrò completo di mandibola, denti e parte dell’endocranio, le cui dimensioni permisero di stimare lo sviluppo cerebrale in 540 cc. L’importanza della scoperta fu subito chiara a Raymond Dart, anatomista dell’Università di Witwatersand, Sud Africa, che ne pubblicò lo studio su Nature , l’anno seguente (1925), indicandolo come appartenente ad una nuova specie, ma non ottenendo però alcun consenso dalla comunità scientifica dell’epoca, affascinata com’era dalla recente scoperta dell’Uomo di Piltdown, risultato poi trattarsi di un falso clamoroso.

Ci vollero alcuni decenni per rivalutare il fossile di Taung che divenne il “modello tipo” del genere Australopithecus africanus. E’ opportuno ricordare che con il termine generico di australopitechi si indica qualsiasi specie di Australopithecus o Paranthropus che visse in Africa, camminava in posizione eretta e aveva un cervello relativamente piccolo. Il cranio di Taung aveva denti da latte molto simili a quelli umani. Dato che negli scimpanzé questi cadono attorno ai tre anni , mentre nell’uomo moderno si mantengono fino al sesto anno di vita, si può presumere che il bambino di Taung avesse attorno ai 3-4 anni di età. Anche se aveva la capacità di mantenere una postura eretta, il volume del cervello lo colloca più vicino alle scimmie che all’Uomo. Con lo studio di Dean Falk, quest’ultima considerazione va forse un po’ riveduta, ma rimane indubbia la sua collocazione in uno dei primissimi stadi della scala evolutiva tra le scimmie e gli esseri umani. Falk ha condotto la ricerca con la collaborazione di S. Marcia Ponce de Leon, Christoph P.E. Zollikofer e Naoki Morimoto, dell’Istituto e Museo Antropologico presso l’Università di Zurigo, in Svizzera.

Il Terremoto: Emilia Romagna e dintorni

Dalla mezzanotte alle ore 16 del 9 giugno 2012 la terra in Emilia ha tremato 14 volte, con scosse di magnitudo compresa tra 2.3 e 3.4, in rapida successione. Alle ore 4.04 anche nella zona prealpina veneta, tra le province di Belluno e Pordenone, è stata avvertita una forte scossa di magnitudo 4.5 con ipocentro localizzato a 7 km di profondità.

Il giorno prima, 8 giugno, la Commissione Grandi Rischi aveva annunciato “Possibili nuove scosse di terremoto”, mettendo in allarme la popolazione; salvo poi, a seguito delle proteste sollevate dai sindaci emiliano-romagnoli a causa del panico generato dal comunicato, rettificare l’affermazione precedente, dicendo che “i terremoti in Emilia potrebbero fermarsi qui e decrescere, ma un rischio di ripresa c’è”, concludendo con un generico “altri terremoti possono avvenire altrove”, e giustificandosi per l’allarmismo procurato dalla dichiarazione, qualificandola come una esortazione alla messa in sicurezza degli edifici.
Si dovrebbe evitare di emanare comunicati come questo, ufficiali e credibili dato che provengono da funzionari quali Luciano Maiani, Presidente della Commissione Grandi Rischi, oggetto peraltro di critiche anche da parte dell’ex-Presidente dell’INGV, prof. Enzo Boschi. Le notizie di questo tenore non fanno che aggravare le tensioni, già alte di per sè, fornendo scenari non corrispondenti ad una valutazione scientificamente corretta del fenomeno.
“Ma cosa succede in realtà”, tutti si chiedono? E soprattutto: “Quando, tutto questo finirà?”. Proviamo a dare qualche risposta, esaminando la successione degli eventi più significativi:

20 maggio 2012, ore 04.03 : Forte scossa nel Modenese. Colpiti i comuni di Finale Emilia, S.Felice sul Panaro, Cavezzo, Midolla; avvertita anche nelle Marche e in Toscana. Registrata magnitudo 6.
Le scosse sono proseguite per tutta la notte con magnitudo variabile tra 2 e 3 (massima intensità alle ore 3.03).
Anche l’ ipocentro si sposta dai 2,5 ai 5 km di profondità. Si hanno vittime e crolli.
Gli esperti spiegano che alla base c’è un movimento verso Nord della microplacca adriatica.
Unendo lo spostamento degli epicentri delle prime 24 ore, si registra una striscia che va da Est ad Ovest. La microplacca adriatica, che dall’Africa preme verso NE, si sposta di 4 mm all’anno e la faglia si è spaccata in corrispondenza della Pianura Padana. Il fronte della faglia è lungo una quarantina di Km e taglia la Val Padana da Est ad Ovest, tra Ferrara e Modena.

Ubicazione delle scosse del 20 maggio 2012

Segnali “premonitori” si erano già verificati nel gennaio 2012 nella zona appenninica tra Reggio Emilia e Parma, con episodi di magnitudo 4.9 e 5.4 a distanza di pochi giorni. Gli ipocentri erano stati individuati rispettivamente a 30 e 60 km di profondità. Era interessata la stessa microplacca adriatica dei sismi tuttora in corso.

29 maggio, ore 9: Forte scossa avvertita in tutta l’Italia Centro-settentrionale. Epicentro in una zona compresa tra i comuni di S.Felice sul Panaro, Cavezzo, Mirandola, Medolla. Il sisma è stato avvertito nel Mantovano, nel Bolognese, e in grandi città come Padova, Milano, Bologna. Magnitudo 5.8; ipocentro a 10,2 Km. Si hanno vittime e crolli.
Alla prima scossa sono susseguite altre tre, di intensità intorno ai 5 gradi Richter, tra le 12.55 e le 13.00, intervallate dagli sciami sismici che sempre accompagnano queste manifestazioni.

Riproduzione dell’area interessatadal sollevamento del periodo 20-29 maggio 2012, evidenziato dalle differenze di colore.

 

In conseguenza degli eventi sismici succedutisi dal 20 maggio in poi, nella regione Emilia- Romagna, si è sollevata di 12 cm un’area di 50 km quadrati (v. figura). A queste conclusioni sono giunti CNR, ASI e INGV dopo le rilevazioni satellitari Cosmo-SkyMed programmate per monitorare l’intera area dal Nord Appennino fino alla Pianura Padana dopo le scosse del 29 maggio.

3 giugno, ore 21.20: Nuova scossa con epicentro a Novi di Modena, avvertita nella bassa Modenese e in tutto il Nord-Italia. Magnitudo 5.1.
L’INGV ritiene che con ogni probabilità questa scossa non sia da ritenersi una scossa di assestamento del primo sisma ma, data la distanza di tempo (9 giorni) e l’intensità appena inferiore alla scossa del 20 maggio di 0,2 gradi Richter, sia da considerarsi come l’apertura di una nuova faglia.

5 giugno, ore 6.08: Scossa di magnitudo 4.5 al largo di Ravenna, a 80 Km dal fronte sismico dei giorni scorsi. Epicentro in mare e ipocentro localizzato alla profondità di 25 Km.
Nuovo ipocentro, nuova faglia. Non pare esista alcuna relazione con la faglia dei terremoti del Ferrarese e del Modenese dei giorni scorsi, anche se appartenente alla stessa struttura geologica. Francesco Mele, studioso dell’INGV, spiega che il sisma “è stato generato dalla struttura Malalbergo-Ravenna, che costituisce l’estremità più orientale dell’arco di Ferrara, cioè della struttura all’origine dei terremoti del Ferrarese e del Modenese dei giorni scorsi.” e che “Il terremoto di Ravenna è circoscritto a quell’area e non ha nulla a che vedere con quello dell’Emilia”.
La magnitudo 4.5 proviene da un ipocentro molto profondo (25 Km) per cui l’energia liberata, attraversando gli strati sovrastanti e considerando la distanza, è andata via via attenuandosi gradualmente.
“L’importante è rendersi conto – si ribadisce – che non siamo di fronte ad un fenomeno esteso che sta coinvolgendo tutto il Centro-Italia”.
Il numero complessivo delle vittime è di 26 morti e 14.000 sfollati.
Warner Marzocchi, Dirigente di ricerca dell’INGV, parla di effetto domino e smentisce le teorie che il quotidiano tedesco Der Spiegel aveva pubblicato: “Nessun terremoto dividerà il nostro paese”, ha assicurato Marzocchi. “Queste scosse potrebbero comunque durare per anni. Considerata la complessa struttura sismica dell’Emilia-Romagna, non si possono tuttavia escludere nuovi sismi di intensità pari a quello del 20 maggio”.
La crisi sismica, sostiene anche Alessandro Amato, sismologo dell’INGV, è il risultato di un movimento della microplacca adriatica (appendice della placca africana) che si immerge sotto l’Appennino settentrionale, spingendolo contro la Pianura Padana e facendolo inarcare. Dalla sequenza di scosse si nota che dalla prima del 20 maggio a S.Felice (magnitudo 5.9) c’è stato uno spostamento degli epicentri verso Est, quindi dalla scossa del 29 maggio (magnitudo 5.8) un ritorno verso Ovest.
E stata esclusa alcuna relazione sia con le oscillazioni umbro-marchigiane del 1996-98 che con quella aquilana del 2010, entrambe caratterizzate da una dinamica distensiva, opposta alla attuale, compressiva.
“Sul lungo periodo l’energia dovrà necessariamente decadere e quindi attenuarsi”, rassicura Marzocchi.

9 giugno, ore 4.04: La terra trema nella fascia prealpina, tra le province di Belluno e Pordenone con una intensità di magnitudo 4.5. L’ipocentro è individuato a 7 km di profondità, nella crosta terrestre superficiale, ma è sufficiente per spaventare la popolazione e indurla a ritenere il sisma correlato con i recenti eventi dell’Emilia-Romagna.

Area delle Prealpi venete interessata dal sisma del 9 giugno. Non c’è alcuna relazione con gli eventi sismici dell’Emilia-Romagna.

Area delle Prealpi venete interessata dal sisma del 9 giugno. Non c’è alcuna relazione con gli eventi sismici dell’Emilia-Romagna.

Conclusioni
Riassumendo, si sono avuti ben 4 eventi sismici in un breve periodo, di cui almeno tre sicuramente indipendenti l’uno dall’altro, anche se il movimento geotettonico che li ha originati è sostanzialmente lo stesso: la spinta della microplacca adriatica (e quindi della ben più grande placca africana) contro la placca eurasiatica. L’area interessata si è trovato compressa e schiacciata tra gli Appennini e le Alpi e, come risultato, l’Appennino nord-occidentale, la Pianura Padana e le Prealpi ne hanno risentito e continuano a risentirne gli effetti.
“Ma fino a quando?” – tutti si chiedono. Ed è vero che la Pianura Padana sarà polverizzata e che, come si è sentito profetizzare da qualche organo mediatico catastrofista, la penisola italiana ruoterà fino allo scontro inevitabile con l’Europa, chiudendo così anche l’Adriatico?
Inutile dire che questi scenari apocalittici non fanno parte di un esame serio del problema, ma attengono più a temi cari ai produttori hollywoodiani.
Evoluzioni su scala continentale di tale portata, anche se venissero realizzate con simulazioni al computer, necessiterebbero di migliaia, se non di milioni di anni per verificarsi.
Per quanto concerne invece la durata degli eventi sismici in atto, anche se previsioni esatte siano da ritenersi sempre azzardate, si deve attendere necessariamente che le enormi tensioni accumulate negli strati inferiori della crosta terrestre liberino l’energia e – come sostiene Marzocchi, si debba aspettare il loro decadimento naturale, l’attenuazione e infine la scomparsa. Nel frattempo, sarebbe auspicabile e opportuno che si entrasse in una logica di prevenzione che purtroppo, nonostante le precedenti catastrofi analoghe, tuttora manca nel nostro Paese. Le costruzioni antisismiche, unitamente ad una educazione comportamentale durante le crisi, sarebbero un modo corretto di confrontarsi con altri eventi simili che, data la natura in continua evoluzione del nostro territorio, non è detto cessino con il cessare di questa emergenza.
Questa conclusione non deve essere interpretata come una resa incondizionata alla natura. Tutt’altro! Gli eventi naturali non sono di per sé né buoni né cattivi. Soltanto, si deve conoscerli per poi sapere come essere in grado di gestirli.

 

Leonardo Debbia

Mamma, ho perso il satellite! Ultima osservazione sulla fusione dei ghiacci antartici.

Un satellite dell’ESA in orbita da dieci anni, che teneva sotto osservazione l’andamento del ghiaccio in Antartide, nei mesi scorsi ha rilevato un rapido scioglimento di un ghiacciaio. Dalla metà del mese di aprile, però, i contatti con il satellite si sono interrotti e l’ESA fa sapere che con ogni probabilità la missione dell’Envisat può ormai dirsi conclusa. Dopo dieci anni di onorato servizio, dobbiamo dire addio al nostro informatore, anche se per altri due mesi l’ESA farà ancora qualche tentativo per ripristinare il contatto.Una delle prime osservazioni del satellite, lanciato nel 2002, fu la rottura di una sezione principale della piattaforma di ghiaccio Larsen, sulla costa occidentale del continente, e precisamente la zona chiamata Larsen B, allorchè 3200 Km quadrati di ghiaccio si sono disintegrati in pochi giorni a causa di instabilità meccaniche nella massa di ghiaccio a causa del riscaldamento climatico.

Immagini radar del satellite Envisat della piattaforma di ghiaccio Larsen B in Antartide. Negli ultimi dieci anni 1790 km quadrati di banchisa si sono disintegrati.

Le piattaforme di ghiaccio sono spesse masse ghiacciate che si formano quando un ghiacciaio o una calotta di ghiaccio oltrepassa la linea di costa, allungandosi sulla superficie dell’oceano. Le dimensioni di queste piattaforme possono raggiungere anche i trenta metri di altezza e il fronte può estendersi per chilometri. Oltre che in Antartide, le troviamo in Canada e in Groenlandia.  In dieci anni di osservazioni del continente Antartico, utilizzando il suo Advanced Synthetic Aperture Radar (ASAR), il satellite Envisat ha mappato nella zona Larsen B una perdita supplementare di 1790 Km quadrati complessivi.

La piattaforma di ghiaccio Larsen è una serie di tre piani: A (il più piccolo); B (il medio); e C (il più grande) che si estendono da nord a sud lungo il lato orientale della Penisola Antartica.

Principali piattaforme di ghiaccio in Antartide. Colorate in rosso e blu le più estese (rispettivamente di Ross e di Ronne-Filchner, tutt’e due di oltre 400 Km quadrati. In giallo-ocra, sulla parte nord-orientale della penisola che si allunga in mare dalla costa occidentale del continente (a sinistra, in figura), si può notare la Larsen C di “appena” 48600 km quadrati.

Il piano Larsen A si disintegrò nel gennaio1995. Il piano Larsen C finora è rimasto stabile, ma le osservazioni satellitari hanno mostrato un assottigliamento dello strato ed un aumento della durata degli eventi di fusione estiva. Il piano Larsen B è diminuito da 11512 Km quadrati nel gennaio 1995 a 6664 Km quadrati nel febbraio 2002 a causa di diversi eventi. La disintegrazione nel mese di marzo 2002 ha lasciato 3463 km quadrati. Con le ultime immagini, il satellite Envisat mostra che ne rimangono solo 1670. “Le piattaforme di ghiaccio sono sensibili al riscaldamento atmosferico e ai cambiamenti di temperatura delle correnti oceaniche” ha dichiarato il professor Helmut Roth, dell’Università di Innsbruck. “Il Nord della Penisola Antartica è stato soggetto all’aumentato riscaldamento atmosferico di circa 2,5°C negli ultimi 50 anni, un trend molto più forte rispetto alla media globale, che ha causato il ritiro e la disintegrazione di intere piattaforme di ghiaccio”.

Il satellite Envisat aveva già raddoppiato la durata di vita prevista, ma si riteneva di poter proseguire le osservazioni di altre calotte di ghiaccio dalla Terra, dagli oceani e dall’atmosfera per almeno altri due anni. Questo avrebbe garantito la continuità nell’acquisizione dei dati principali di osservazione della Terra fino alla prossima generazione di satelliti, i Sentinel, che entreranno in funzione nel 2013. “Osservazioni sistematiche a lungo termine sono di particolare importanza per la comprensione e la modellazione dei processi criosferici al fine di conoscere e poter prevedere quanto più possibile la risposta di neve e ghiaccio ai cambiamenti climatici”, ha affermato il Prof. Rott. “I modelli climatici prevedono drastici cambiamenti per quanto riguarda il riscaldamento alle alte latitudini.

Barriera di Ross

Le osservazioni di Envisat del Larsen Ice Shelf confermano la vulnerabilità delle piattaforme di ghiaccio al riscaldamento climatico e dimostrano l’importanza che queste rivestono per la stabilità dei ghiacciai che stanno loro a monte. “Queste osservazioni sono molto importanti per valutare il futuro comportamento delle enormi masse di ghiaccio dell’Antartide occidentale, qualora il riscaldamento si estendesse più a sud”. I radar in dotazione ai satelliti di osservazione della Terra, come ad esempio ASAR di Envisat, sono particolarmente utili per monitorare le regioni polari, perché sono in grado di acquisire le immagini anche attraverso le nuvole e l’oscurità.Le missioni Sentinel – in fase di sviluppo come parte del sistema globale di osservazione per l’ambiente e la sicurezza (GMES) in Europa – erediteranno e continueranno questa funzione, assolvendo i compiti previsti dalle osservazioni radar finora utilizzate.
In dieci anni l’Envisat aveva inviato a Terra milioni di dati e di informazioni relative ai cambiamenti climatici, allo stato dell’atmosfera, degli oceani e dei ghiacci polari, permettendo la stesura di oltre 2500 articoli scientifici.

Leonardo Debbia

6 giugno 2012: transito di Venere tra la Terra e il Sole

Tutti con il naso all’aria, all’alba del 6 giugno prossimo! Venere transiterà davanti al disco del Sole e sarebbe davvero un peccato perdersi un evento del genere, frutto dell’allineamento prospettico di Terra,Venere e Sole; allineamento già verificatosi nel 2004 e che si ripeterà solo nel 2117, tra 105 anni! L’evento è da considerarsi quindi il “transito finale del XXI secolo”.

Due raccomandazioni, però, sono necessarie: rimettere la sveglia per la levataccia che ci attende, vista l’ora (attorno alle 5.30) e provvedere a proteggersi bene gli occhi. Il passaggio di Venere davanti al disco solare sarà visibile a cominciare dall’ora della levata del sole e quindi differirà a seconda del posto in cui ci troveremo quel giorno. A Roma, ad esempio, sorgerà alle ore 5.39. Come si è sempre fatto in casi di osservazioni di eclissi di Sole, è necessario disporre di un’opportuna protezione per gli occhi onde evitare danni molto gravi, anche irreparabili, alla retina. Per questo, è sufficiente un semplice vetro affumicato (non “fai da te”!), reperibile in qualsiasi negozio di ferramenta o, meglio ancora, un paio di occhialini appositi, del tipo di quelli usati dai saldatori.

Ma, in pratica, cosa vedremo? Proviamo a descrivere i diversi momenti del “transito”.

Premesso che in Astronomia con il termine “transito” si intende l’occultazione di un corpo celeste da parte di un altro che si interpone tra il primo e l’osservatore, esaminiamo brevemente  i moti di rivoluzione dei pianeti. Le orbite della Terra e di Venere non stanno sullo stesso piano, ma su piani inclinati l’uno rispetto all’altro di un angolo di 3,4°, per cui noi abitualmente vediamo transitare Venere o al di sopra o al di sotto del disco solare. Un evento come quello del 6 giugno presuppone che i tre corpi celesti siano disposti in linea o come, si dice anche, siano “in congiunzione”.

 Schematizzazione dell’angolazione tra i piani orbitali della Terra (linea blu) e di Venere (linea rossa). Le uniche posizioni in cui si ha l’allineamento sono i punti A e B.Attenzione: le dimensioni non sono in scala. (da Istituto Nazionale di Astrofisica)

Mediamente, si hanno due allineamenti (e quindi transiti) ogni secolo. Lo schema dei passaggi si ripete in cicli di 4 eventi, così distanziati: tra il primo ed il secondo transito passano 8 anni; il terzo transito avviene dopo 121,5 anni e il quarto dopo altri 8 anni. Trascorsi 105,5 anni da quest’ultimo transito, il ciclo si ripete. Complessivamente, quindi, questo schema impiega 243 anni.  L’ultima coppia di transiti (quelli intervallati di 8 anni) è avvenuta, rispettivamente, nel 1874 e nel 1882. Il primo transito della coppia attuale è avvenuto l’8 giugno 2004 e il prossimo è previsto il 6 giugno 2012. Dopo questa data, l’altra coppia di transiti avverrà l’11 dicembre 2117 e nel dicembre 2125. Prima dell’8 giugno 2004 nessuna persona vivente quel giorno aveva assistito ad un transito di Venere, dato che il precedente era avvenuto il 6 dicembre 1882. Il passaggio seguente a questo del 6 giugno avrà luogo nel 2117. Quindi il 2012 sarà l’ultima occasione, per la maggior parte dell’umanità attuale, di poter assistere a questo straordinario evento celeste.Storicamente, il primo transito di cui si abbia notizia fu osservato e documentato nel 1639 dall’astronomo inglese Jeremiah Horrocks, che lo aveva previsto e che ebbe modo di contemplarlo nel villaggio di Much Hoole nel Lancashire, Inghilterra, mentre un suo “collega”, William Crabtree, lo potè vedere a Manchester. I due osservatori furono i primi e unici spettatori del tempo.

Transito di Venere davanti al Sole l’ 8 giugno 2004

Tornando al passaggio imminente, questo inizierà, per quanto riguarda l’Inghilterra e i Paesi con l’ora di Londra, intorno alle 23.04 del 5 giugno (ora del tramonto del Sole sul Regno Unito) e durerà poco più di sette ore.  Agli osservatori Venere apparirà come un pallino nero sul disco del Sole (vedi foto) e descriverà un arco verso la parte settentrionale del disco solare, uscendo dal bordo destro verso le ore 5.55 del 6 giugno. Sfortunatamente, di tutto questo percorso in Italia sarà visibile solo l’ultimo tratto, la fase finale dell’evento, che avrà una durata di circa un’ora, variabile a secondo della latitudine da cui avviene l’osservazione. A Roma, ad esempio, si potrà vedere dalle 5.39, nel momento in cui sorge il sole, alle 6.34, orario di uscita (o contatto esterno).  La fine del transito subirà differenze di pochi minuti nelle diverse località, in funzione  della latitudine da cui si osserva e dell’altezza del Sole sull’orizzonte: indicativamente, gli orari del contatto interno e della completa scomparsa di Venere dal disco solare avverrà indicativamente dalle ore 6.38 alle ore 6.55, con una differenza massima di 17 minuti .

Il pianeta è circa 1/32 del diametro del Sole, per cui il fenomeno sarà visibile, ma assolutamente sconsigliabile ad occhio nudo, nuvole permettendo. Sotto il punto di vista scientifico, nei secoli 18° e 19° questi passaggi hanno permesso di determinare il valore accurato della distanza Terra-Sole, chiamato Unità Astronomica (AU), tenendo però presente che questo valore varia leggermente nel tempo. Oggi, gran parte dell’interesse risiede nella rarità dello spettacolo astronomico in sè, nelle connesse opportunità educative e nel senso di un legame con eventi importanti per la storia della scienza e dell’umanità. Gli attuali astronomi considerano i “transiti” soprattutto come un modo con cui individuare e caratterizzare la presenza di eventuali sistemi planetari attorno ad altre stelle. Il passaggio del 2012 sarà seguito, oltre che dai vari osservatori sulla Terra, dal telescopio spaziale Hubble e dalla missione Venus Express, attualmente in orbita attorno a Venere.

Leonardo Debbia

Cosa sta succedendo all’Italia sotto i nostri piedi?

“Un terremoto di magnitudo 2.3 è avvenuto alle ore 09.30 del 31 maggio 2012. Il terremoto è stato localizzato dalla Rete Sismica Nazionale dell’INGV nel distretto sismico della pianura padana-lombarda alla profondità di 13,1 Km.”
E’ l’ultimo, in ordine di tempo, delle centinaia di bollettini emessi dall’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia relativi alla situazione geo-dinamica che sta interessando l’Emilia e più in generale tutta l’Italia del Nord.

Tutto è cominciato il 20 maggio scorso, il giorno in cui la terra ha cominciato a tremare in Emilia, provocando gli eventi catastrofici che sono quotidianamente sotto gli occhi di tutti attraverso i media. Naturalmente, le immagini più forti riguardano la devastazione degli edifici crollati, le case con le mura pericolanti, i magazzini sventrati, le auto accartocciate come giocatoli buttati via, le fessure nel terreno. Dai commenti accorati e dagli sguardi vuoti di chi ha perso il lavoro di una vita traspare tutto l’orrore per quanto sta accadendo, mettendo in luce un senso di impotenza drammatico che diventa panico nei momenti in cui le telecamere continuano a tremare per le nuove scosse.

“Ma quanto durerà ancora?” si chiedono tutti, disperati, guardandosi attorno alla ricerca di una risposta che, al momento, nessuno è ancora in grado di dare. Geologi, geofisici, ingegneri, cattedratici illustri o semplici addetti ai lavori vengono di continuo intervistati e ciascuno commenta a suo modo. Proviamo a farlo anche noi, astraendoci momentaneamente dalle singole tragedie, per descrivere il fenomeno in termini scientifici e offrire un contributo, sia pur piccolo, per una miglior comprensione dell’evento.

Cominciamo dicendo chiaramente che l’Italia, tutta l’Italia a eccezione della Sardegna, è a rischio sismico. La placca africana, premendo contro quella Europea, spinge tutto l’Appennino (e non solo dal 20 maggio) contro la pianura padana, comprimendola. Sotto queste pressioni enormi, la roccia viene frantumata in faglie che si intrecciano, si aggrovigliano, scorrono e si rompono in un sistema complesso che ricorda un domino. Qualcuno lo ha paragonato ad un “fronte di guerra”, ma qui siamo davanti a manifestazioni della natura di una potenza inimmaginabile.

Noi avvertiamo il frutto di questo scontro, le vibrazioni prodotte dalle rotture e dallo sbriciolamento degli strati interni, che si susseguono in un effetto domino, strato dopo strato, e dall’interno della Terra si propagano in superficie.
Era sbagliato ritenere che l’Emilia fosse esente da questi eventi solo perché gli ultimi terremoti si erano verificati 500 anni fa. Anche allora – per valide testimonianze storiche – le scosse durarono anni e provocarono crolli di edifici, distruzioni e vittime, coinvolgendo ben 11.000 persone e costringendo gli stessi Estensi alla fuga dai loro palazzi. Dobbiamo rassegnarci, allora e continuare ad avere paura?
La risposta è no, la rassegnazione deve essere una posizione consapevole del fatto che le previsioni di terremoti sono, al momento, impossibili – diffidiamo di tutti coloro che affermano teorie divinatorie o pseudo-scientifiche su questo argomento – e che l’unico modo di porci positivamente di fronte a questo problema è ricostruire secondo tecniche antisismiche che esistono in tutti i Paesi afflitti da queste problematiche. Gli Stati Uniti e il Giappone sono all’avanguardia, ma anche in Europa le soluzioni tecniche sono state adottate unicamente in quest’ottica.
Lo raccomandava già un architetto contemporaneo di Michelangelo, Pirro Logorio, che aveva convissuto con i terremoti nell’Emilia del periodo 1561-1574: “Case non più alte di due piani, ridistribuzione degli spazi, creazione agli angoli delle stanze di pilastri di rinforzo”. Oggi, dopo cinquecento anni, i modelli dell’ingegneria edile non sono certamente paragonabili con quelli rinascimentali, ma il principio della prevenzione è lo stesso che ispirò il Logorio e più che mai ne è auspicabile l’applicazione.

Leonardo Debbia

Vesta: asteroide o pianeta? Un corpo celeste in crisi d’identità

La mappa colorata dalla missione Dawn della NASA mostra la distribuzione dei minerali sulla superficie di Vesta. I colori dipendono dalla lunghezza d’onda della radiazione. Sono indicati i due estesi crateri, Rea Silvia e Veneneia, larghi rispettivamente 475 e 375 km.

Il primo commento di Christopher T.Russell, mentre osservava le immagini di Vesta ricevute nel corso della missione Dawn, è stato un giudizio estetico sulla bellezza di questo corpo celeste, piuttosto che una valutazione scientifica di quello che le foto mostravano.

“Vesta sembra un piccolo pianeta. La sua superficie è bella, molto più varia e diversificata di quanto ci saremmo aspettati”, ha commentato Russel che, oltre ad essere professore del Dipartimento UCLA di Scienze della Terra e dello Spazio, è anche il responsabile della missione Dawn della NASA. “Ci aspettavamo una superficie variamente colorata, ma non pensavamo che la varietà dei colori fosse così ampia, né che i colori apparissero così nitidi e i contorni così ben delineati. Non abbiamo ancora trovato oro su Vesta, ma le immagini sono già di per sé una miniera d’oro”.

Vesta è stato considerato fino ad ora un asteroide, ma la catalogazione è da ritenersi impropria. Se le sue dimensioni sono troppo piccole per poter parlare di un pianeta nano, come invece è ritenuto Cerere, considerandone le caratteristiche fisico-chimiche e la sua struttura, si dovrebbe piuttosto ritenerlo un protopianeta, cioè un corpo planetario che non ha raggiunto lo stadio di formazione di un pianeta vero e proprio. In parole povere, lo si potrebbe reputare un pianetino rimasto in una fase “embrionale”. Vesta si è formato nei primi milioni di anni di vita del sistema solare e la sua struttura interna, analoga a quella della Terra, si è costituita in maniera scalare, a strati concentrici, attraverso un processo di differenziazione che ha prodotto un nucleo centrale ricco in ferro e nichel, un mantello roccioso sovrastante di olivina e una crosta superficiale a composizione basaltica. E’ opportuno sottolineare che la presenza dei basalti era già stata accertata nel 1972 da particolari sensori applicati ai telescopi degli astronomi dell’epoca.

Situato nella fascia di asteroidi tra Marte e Giove, con i suoi 530 Km di diametro è secondo, in ordine di grandezza, solo al suo vicino Cerere, il più grande asteroide del sistema solare.  La superficie particolarmente brillante di Vesta ne fa l’asteroide più luminoso e il solo visibile anche ad occhio nudo dalla Terra, da cui dista circa 321 milioni di miglia. Ha un periodo di rotazione di 5, 342 ore e il suo asse è inclinato di 29° sul piano dell’orbita. Le temperature sulla superficie oscillano in un arco che va da -20°C a -190°C, con variazioni notevoli in funzione di diversi parametri, quali l’altezza del Sole sull’orizzonte, la sua distanza relativa, l’escursione termica tra valori diurni e valori notturni. Dagli anni Ottanta in poi furono progettate varie missioni, sia in Europa che negli USA, per studiare Vesta con osservazioni ravvicinate per mezzo di sonde, ma non ne fu realizzata alcuna fino al 2001, quando la NASA varò la missione Dawn, nominandone responsabile il professor Russell.

La sonda Dawn, senza equipaggio, fu lanciata il 27 settembre 2007, raggiunse Vesta nel luglio 2011 ed è tuttora in orbita attorno all’asteroide, a 125 miglia dalla sua superficie. Scopo della missione è la raccolta del maggior numero possibile di dati e di informazioni per una migliore comprensione dei processi che portarono alla formazione dell’intero sistema solare. Dalle immagini trasmesse dal telescopio spaziale Hubble nel 1996, Russel e il suo team di ricerca sapevano già dell’esistenza di un grande cratere su Vesta, ma sono rimasti alquanto sorpresi nello scoprire che i crateri erano invece due. Il cratere più piccolo ha un diametro di 375 Km, pari alla distanza che intercorre tra Los Angeles e Monterey, in California, mentre il più grande, denominato Rea Silvia, ha un diametro di 475 Km, paragonabile alla distanza tra Los Angeles e S. Francisco.

“Dalle prime immagini di Vesta abbiamo potuto osservare due crateri da impatto molto grandi nella regione attorno al polo sud”, ha detto Russel. “Uno risale a circa un miliardo di anni fa e l’altro ad almeno due miliardi di anni fa. L’età dei due crateri pare corrispondere a quella dei frammenti di roccia che furono originati dagli impatti su Vesta di altri corpi celesti. Dalle enormi dimensioni dei crateri si può intuire che la quantità di materiale espulso fu notevole”. “In tutta la cintura di asteroidi sono migliaia i cosiddetti “vestoidi”, le meteoriti di varia dimensione provenienti da Vesta, frammenti prodotti da quelle lontane collisioni, e molte di queste meteoriti hanno diametri considerevoli che vanno da un miglio e mezzo a cinque miglia”, afferma Russell. “Questi frammenti, proiettati nello spazio, hanno raggiunto la Terra e continuano tuttora ad arrivare. A tutt’oggi, disponiamo di oltre 200 meteoriti provenienti da Vesta che ci aiutano a ricostruirne e comprenderne la storia geologica”.

Battezzate vestoidi, hanno una composizione di tipo basaltico e sono costituite da un particolare tipo di roccia chiamato HED (acronimo dei componenti howardite-eucrite-diogenite), la cui origine è da riferirsi esclusivamente alle caratteristiche petrologiche della crosta di Vesta.  Ad oggi, le scoperte fatte su Vesta dalla missione Dawn, unitamente alle conoscenze già note, sono state così riassunte dalla rivista Science:
a) Vesta ha grandi montagne – la più grande è alta il doppio dell’Everest – che si sono formate per forti impatti sulla superficie del protopianeta. Gli scienziati ritenevano che la maggior parte di Vesta, con esclusione della regione attorno al polo sud, fosse piatta come la Luna, ma alcuni crateri al di fuori di questa regione presentano pendii molto ripidi, quasi verticali, con frequenti frane di “regolite”, lo spesso strato di detriti, pietrisco e polveri meteoritiche che ricopre la superficie.
b) La missione Dawn ha mostrato una consistente varietà di minerali venuti alla luce dagli squarci profondi prodotti dagli urti con altri corpi celesti, quali meteoriti e comete. Questo potrebbe avvalorare l’ipotesi che Vesta abbia avuto uno spesso strato interno fluido ed un oceano superficiale di magma.
c) Vesta ha un nucleo ferroso, formatosi durante il periodo in cui il protopianeta era tutto allo stato fuso, durante le prime fasi di formazione del sistema solare. Questo è stato confermato anche dalle misurazioni del campo gravitazionale di Vesta eseguite dalla missione Dawn.
La concentrazione di ferro nel nucleo conferma l’avvenuta separazione in strati mediante differenziazione, precipitazione e aggregazione degli elementi più pesanti. Questa composizione di partenza consente agli scienziati di ricostruire dei modelli del primigenio sistema solare.
d) Sulla superficie di Vesta sono visibili molti punti luminosi di varie dimensioni. Una vera sorpresa è stata la scoperta di diverse aree scure che, in una visione d’insieme con le aree chiare, danno luogo a disegni intricati molto suggestivi. Posto che la differente colorazione è in relazione con la composizione mineralogica del suolo, questo quadro testimonia il gran numero di impatti su Vesta da parte di altri corpi celesti che hanno portato in superficie materiali profondi e hanno contribuito alla formazione di strati misti di regolite, lo strato detritico superficiale.

“Sembra che un artista abbia dipinto i crateri con una buona dose di fantasia”, ha commentato Russell. Dawn ha fornito più di 20mila immagini di Vesta e immagazzinato migliaia di dati e di spettri. “Vesta ha registrato la storia del sistema solare fin dall’inizio” ha detto Russell. “Stiamo ricostruendo le origini del sistema solare e quanto è accaduto più di 4,5 miliardi di anni fa.” La sonda Dawn è dotata di una telecamera di qualità elevata, di uno spettrometro di ricerca all’infrarosso per identificare i minerali della superficie e di uno spettrometro a raggi gamma e neutroni per rilevare l’abbondanza di elementi come il ferro e l’idrogeno. Dawn è provvista anche di sonde di gravità per il mantenimento di una navigazione estremamente precisa. Lo studio di Vesta, tuttavia, è solo la prima fase della missione Dawn.

Dopo Vesta, la sonda punterà, con un viaggio di tre anni, su Cerere che, sotto la crosta rocciosa, potrebbe ospitare acqua sotto forma di ghiaccio e, forse, la vita. La navicella dovrebbe iniziare ad orbitare intorno a Cerere nel 2015, e vi si tratterrà per almeno cinque mesi. “Attualmente voglio catturare quante più immagini possibili di Vesta”, ha detto Russell, “Le analisi della sua superficie saranno certamente pronte prima dell’arrivo su Cerere”. La missione Dawn è gestita dal Jet Propulsion Laboratory di Pasadena, California, sotto la direzione della NASA Science Mission e con la collaborazione di alcuni Enti spaziali europei. I membri del team di studiosi provengono dal JPL, dal NASA Goddard Space Flight Center, dal Planetary Science Institute e dal Massachussets Istitute of Technology. I partners scientifici europei sono l’ Istituto Max Planck per la ricerca sul sistema solare di Katlenburg, Germania; il DLR Institute for Planetary Research di Berlino; l’Istituto Nazionale Italiano di Astrofisica di Roma e l’Agenzia Spaziale Italiana.

Leonardo Debbia

Scoperta una lenta subsidenza della crosta terrestre sotto il Delta del Mississippi

Veduta aerea di Delacroix, Louisiana, per la maggior parte abbandonata per la crescita del livello del mare e la perdita di zone umide costiere.

La crosta terrestre sotto il delta del Mississippi affonda ad un ritmo molto più lento di quanto era stato calcolato. Questo è uno dei risultati della relazione geologica pubblicata i primi di aprile di quest’anno sulla rivista Earth and Planetary Science Letters. I ricercatori hanno tratto le loro conclusioni confrontando dettagliate ricostruzioni del livello del mare in diverse zone delle coste della Louisiana.

Il Delta del Mississippi si colloca allo sbocco naturale sul mare della sterminata pianura che si allunga in senso meridiano per centinaia di chilometri tra la regione dei Grandi Laghi a Nord, le Montagne Rocciose ad Ovest e i Monti Appalachi a Est, copre metà dei territori degli Stati dell’Alabama, della Georgia e del Mississippi e comprende il corso del fiume fino alla grande foce, nel Golfo del Messico. I depositi alluvionali recenti compaiono in spessi strati solo nel tratto inferiore del fiume, che sfocia su una linea di costa bassa, sabbiosa e paludosa, orlata di lagune e interrotta dalla costante e veloce avanzata del delta dello stesso Mississippi. Fa da cornice ad Est, la penisola della Florida, lo stato più meridionale degli Stati Uniti, antico tavolato in massima parte ricoperto da sedimenti calcarei che, con i suoi oltre 155mila Km quadrati ed una altitudine inferiore ai 105 metri s.l.m., si allunga in mare a dividere le acque atlantiche da quelle del Golfo del Messico.

Immagine satellitare del Delta del Mississippi. Il vecchio apparato deltizio inattivo (verso terra) è un tipico esempio di “delta lobato”.

“I risultati del nostro studio dimostrano il valore della ricerca sui vari aspetti della dinamica del sistema Terra durante lunghi periodi di tempo”, dice Thomas Baerwald, direttore del programma di Geografia e Scienze Spaziali del National Science Foundation (NSF) di Arlington, Virginia. “Abbiamo ottenuto nuove preziose informazioni sui fattori che influenzano le coste e le altre località dell’area del Golfo del Messico, sia attualmente che per il futuro”, afferma Baerwald. “Si è dimostrato che il basamento su cui poggia il Delta del Mississippi, compresa l’area di New Orleans, negli ultimi 7000 anni si è abbassato di circa due centimetri e mezzo per secolo, impiegando tempi più brevi rispetto all’area più stabile del sud-ovest della Louisiana” dice il co-autore dello studio, Torbjorn Tonrqvist, della Tulane University di New Orleans, Louisiana. Già nel 2008 Tonrqvist aveva osservato l’abbassamento del Delta e aveva già allora ritenuto che questo affondamento fosse limitato alla parte superiore dei sedimenti, mentre il basamento sottostante si manteneva molto più stabile. Lo sprofondamento era da attribuirsi, secondo Tornqvist, alla natura spugnosa dei depositi superficiali che, compattandosi, tendevano ad abbassarsi, favorendo in tal modo l’innalzamento del livello del mare.

Immagine del ramo attivo del delta del Mississippi, tipico esempio di “delta digitato”, in un ambiente con scarsa energia marina.

“Altri studi hanno ipotizzato che la subsidenza delle coste della Louisiana fosse il risultato di processi molto più profondi all’interno della crosta terrestre al di sotto del Delta del Mississippi e sia stata almeno trenta volte più veloce a causa del peso derivato dal rapido accumulo di sedimenti nel delta” dice Tornqvist. “Ritengo invece più plausibile che il fattore principale sia da ricercarsi nella compattazione che spreme via l’acqua dai sedimenti, li porta ad una rapida diminuzione di volume e provoca la subsidenza della superficie terrestre”. La differenza della velocità di subsidenza è comunque molto più bassa di quanto era stato stimato.

Per quanto riguarda le grandi strutture come i sistemi di difesa delle coste, queste potrebbero risultare relativamente stabili, a condizione che siano ancorate, attraverso i depositi molli superficiali, al basamento solido sottostante, ad una profondità di 60-80 metri sotto la superficie terrestre. Infatti, quanto più vicini alla superficie terrestre si vengono a depositare i sedimenti ricchi di acque, tanto più rapidamente sprofondano.
Tuttavia lo studio fornisce anche notizie più deludenti. “Queste velocità di subsidenza sono piccole rispetto alla velocità con cui cresce attualmente il livello del mare lungo la fascia costiera che va dalla Florida fino al Texas orientale”, dice Tornqvist. “La velocità di innalzamento del mare nel XX secolo in questa regione è stato cinque volte superiore rispetto al millennio pre-industriale, come risultato dell’interazione uomo-cambiamenti climatici indotta dall’attività antropica”.  Il livello del mare è aumentato di più di otto centimetri durante il secolo passato. “Guardando ai prossimi cento anni, la nostra preoccupazione principale è la continua accelerazione dell’innalzamento del livello del mare a causa del riscaldamento globale, che può calcolarsi arrivare fino ad otto-tredici centimetri”, afferma Tornqvist.

Leonardo Debbia