Il Delta del Niger : dove il petrolio inquina la natura e calpesta i diritti umani.

Fino al 1956 lungo il Delta del fiume Niger si estendeva un’oasi incontaminata. Le foreste di mangrovie formavano intricati  labirinti nei quali si sviluppava un delicato ecosistema in cui le popolazioni locali vivevano in equilibrio con nigeriala natura, traendo da essa il loro sostentamento quotidiano.  In quell’anno, nel delta vennero scoperti i primi giacimenti petroliferi che hanno trasformato quell’oasi  in un inferno che ancora oggi continua a bruciare. Da allora le compagnie petrolifere, in particolare la Shell che controlla circa la metà del greggio complessivo, la Total, la Chevron e l’italiana Eni,  hanno colonizzato il territorio, appoggiate da governi militari deboli e corrotti, che nel corso degli ultimi 50 anni hanno svenduto le risorse naturali del loro paese in cambio di mazzette e profitti illeciti, ed hanno messo a tacere le ingiustizie che le popolazioni locali sono costrette a subire giornalmente. Nel Delta del Niger (una regione di circa 70.000 kmq con 27 milioni di abitanti), si produce la maggior parte del petrolio nigeriano, circa 2,4 milioni di barili al giorno.

L’inquinamento criminale viene causato dalla perdita del greggio che fuoriesce da tubature vecchie ed usurate dal tempo che si estendono nel territorio per centinaia di chilometri, riversando così il petrolio nell’acqua del fiume e lungo le sue sponde. Le persone che vivono in questo luogo respirano aria inquinata, mangiano pesce contaminato e bevono acqua mista a petrolio.   Sono 36 mila i  km² di mangrovie, corsi d’acqua e lagune invasi dalla melma nera; per rifornirsi di acqua potabile, le popolazioni locali sono costrette a scavare nel sottosuolo fino a 50 metri di profondità, causando instabilità del terreno e ponendo la zona a rischio di frane.

 Il recente rapporto del PNUE, cioè il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente, denuncia apertamente questa catastrofe ambientale. Sono stati esaminati più di 4mila campioni estratti dai 780 pozzi della zona. Il risultato è sconcertante: le popolazioni bevono, cucinano e si lavano con acqua proveniente da pozzi contaminati dal benzene, in cui i livelli di tossicità sono 900 volte superiori a quanto consentito dall’Organizzazione Mondiale della Sanità(OMS).

Anche l’aria viene contaminata dai gas, sottoprodotti delle estrazioni petrolifere, che vengono bruciati a cielo aperto dal 1985, pratica definita “gas flaring” (gas esplosivo) che fa sprecare ogni anno una quantità di gas pari al 30% del fabbisogno europeo.  Questo gas potrebbe essere reinserito nel sottosuolo oppure utilizzato per i fabbisogni energetici della Nigeria. Invece viene bruciato dalle multinazionali perché  ciò rende l’estrazione del petrolio molto più veloce, abbassando così i costi di gestione e di produzione.

Il solo inquinamento ambientale prodotto dal “gas flaring” nel mondo, diventa pari alle emissioni di 77 milioni di auto o di 125 centrali a carbone.  Le fiammate ardono continuamente di giorno ed illuminano la notte, rendendo irrespirabile l’aria, facendo aumentare considerevolmente la temperatura attorno alle trivellazioni e causando problemi respiratori, malattie della pelle e degli occhi, disturbi gastrointestinali, leucemie e cancro.  La legge nigeriana vieta la pratica del “gas flaring” perché viene ritenuta pericolosa per l’ambiente e per la salute umana, ma i governi non sono mai riusciti ad imporre la soluzione del problema. I vertici dello stato nigeriano dovrebbero rafforzare la regolamentazione circa l’estrazione del petrolio, in modo da obbligare le aziende petrolifere a rispondere dell’inquinamento ambientale, prevenendo così ulteriori abusi.

 Oltre ai problemi di salute e quelli ambientali, la popolazione deve anche subire l’ingiustizia sociale: nonostante l’immenso valore economico dei 606 pozzi petroliferi, dopo circa 50 anni di estrazioni che ogni anno creano l’80% del Pil nazionale, la Nigeria resta uno tra i più poveri paesi africani. L’aspettativa di vita dei 27 milioni di persone che abitano il delta del Niger – delle quali il 60% sopravvive grazie alle attività direttamente collegate all’ecosistema – arriva a poco più di 40 anni. La distribuzione delle risorse non è equa. Il tasso di disoccupazione varia tra il 75 e il 95%, perché a lavorare nei pozzi petroliferi è soprattutto manodopera specializzata proveniente dall’estero. Gli unici ad arricchirsi con il petrolio sono le multinazionali ed i politici locali corrotti. Negli ultimi decenni però queste disuguaglianze hanno esasperato la popolazione che, attraverso proteste e mobilitazioni, subendo repressioni violente da parte dello Stato e dagli agenti della sicurezza privata delle multinazionali,  è arrivata a rivendicare la fine del saccheggio indiscriminato del territorio, chiedendo la bonifica dei corsi d’acqua e dei terreni, una più equa distribuzione dei proventi del petrolio, nonché il risarcimento del debito ecologico.

Nel 2005 è stato anche costituito un gruppo armato, il MEND (Movimento di Emancipazione del Delta del Niger) che ha compiuto numerose operazioni di sabotaggio dei pozzi,  delle condutture e si è reso responsabile del rapimento di alcuni lavoratori delle multinazionali. Il movimento dichiara di combattere per il controllo del petrolio in tutto il Delta del Niger e per consentire alle persone di trarre dei benefici dalle estrazioni.

La popolazione cerca di sopravvivere riprendendosi il proprio territorio saccheggiato e devastato dalle logiche imperialistiche, che mietono vittime e sacrificano gli equilibri naturali in tutto il mondo, non solo in Africa, non solo in quello che un tempo era un paradiso ed oggi è solo l’opaco ricordo di una natura violentata. La Nigeria cerca di rialzarsi, ma l’opinione pubblica  internazionale sembra non appoggiare concretamente questa lotta a cui non concede neppure il giusto risalto mediatico.

Elisabetta Carlin