In Campania si preservano le razze autoctone

capre del cilento
Capre del Cilento.

La Campania era conosciuta come una Regione a forte tradizione agricola e pastorale, il recente passato industriale e la cementificazione selvaggia e abusiva hanno drasticamente alterato questa peculiarità. Tale passato ha favorito, assieme alle specificità geomorfologiche della nostra Regione, l’evolversi di numerose varietà di animali domestici perfettamente inseriti all`interno del contesto ambientale campano.

Un progetto, rientrante nel PSR Campania 2007-2013, mira alla salvaguardia ed al recupero di ciò che rimane di questo importante patrimonio di biodiversità. Si tratta di R.A.R.E.Ca (Razze Autoctone a Rischio d`Estinzione nella Regione Campania). I TGA (tipo genetico autoctono) presenti in Regione Campania, iscritti al RA e/o LG (AIA-ARAC), ed oggetto della misura PSR sono il Bovino Agerolese, il Cavallo Napoletano, il Cavallo Salernitano ed il Cavallo Persano, l’Ovino Laticauda e l’Ovino Bagnolese, la capra Cilentana ed il Suino Casertano.

I capi iscritti al RA per ogni razza rappresentano circa il 40% del totale, pertanto sono in corso ulteriori censimenti.  Il ruolo che questi animali svolgono all’interno della società è duplice. Offrono un`importante produzione, rispetto alle specie e alle razze cosmopolite,  utilizzando le risorse peculiari del territorio anche in ambienti difficili; tale peculiarità li rende un’ottima risorsa: «in momenti di crisi come questo – afferma il prof. Vincenzo Peretti, del Dipartimento di Scienze Zootecniche e Ispezione degli Alimenti dell’Università di Napoli Federico II – la qualità sarà il futuro».

Parallelamente, rappresentano degli ottimi biomonitors, in quanto sottoposti a controllo sistematico e continuo sugli effetti dell’inquinamento ambientale mediante la valutazione di modificazioni morfologiche, fisiologiche e soprattutto genetiche. L’intimo legame tra queste razze ed il territorio che occupano, e da cui traggono nutrimento, comporta una continua esposizione alle eventuali sostanze tossiche che lo contaminano, sostanze che sono trasferite all’uomo tramite i prodotti dell’animale e che causano l’instabilità genetica che predispone l’insorgere di tumori.

La valorizzazione degli adattamenti specifici di ogni razza, quindi, viaggerà di pari passo con la tutela degli ecosistemi di cui sono parte, ed avrà conseguenze sia sulle attività economiche sia sul patrimonio culturale e ambientale della Campania.  Al progetto partecipano il Dipartimento di Scienze Zootecniche e Ispezione degli alimenti dell`Università Federico II di Napoli, l`Istituto per il Sistema Animale in Ambiente Mediterraneo del CNR, e l`Istituto Zooprofilattico Sperimentale per il Mezzogiorno. Il responsabile scientifico è il prof. Vincenzo Peretti. L`obbiettivo di  R.A.R.E.Ca è la tutela di razze e popolazioni adattate a particolari condizioni ambientali, in quanto portatrici di patrimoni genetici praticamente irripetibili.

Stefano Erbaggio

Legambiente lancia l’allarme sulla qualità dell’aria nelle città italiane

lagambiente: mal'aria, allarme qualità dell'aria
Mal'aria. Il report 2012 sulla qualità dell'aria.

Legambiente ha presentato il suo annuale studio sulla qualità dell’aria nelle città italiane, il dossier Mal’aria. L’inquinamento atmosferico costituisce una enorme problema per la salute dei cittadini italiani, e la filiera istituzionale (dallo Stato ai Comuni) non si è dimostrata in grado di prendere provvedimenti adeguati per contrastare tale fenomeno: il 67% dei capoluoghi di provincia monitorati non ha rispettato il limite consentito di superamenti della soglia di PM10, un aumento del 12% rispetto all’anno precedente. Torino, Milano e Verona sono in testa con 158, 131 e 130 superamenti registrati nella centralina peggiore di ognuna delle tre città.

Secondo la normativa, il Dlgs. 155/2010, la quantità limite di Pm10 (ovvero il particolato formato da particelle con dimensioni inferiori ai 10 micron ) è di 50 μg/m3, in riferimento alla media giornaliera, e non può essere superata più di 35 giorni l’anno. Nel 2011, secondo la classifica di Legambiente “PM10 ti tengo d’occhio”, sulle 82 città monitorate, 55 hanno esaurito i 35 superamenti all’anno. L’area della Pianura Padana si conferma per l’ennesima volta la più critica, dove solo sei città non hanno superato i limiti consentiti. Un dato allarmente emerge sugli altri: il divario tra il numero di superamenti tra il 2010 e il 2011, probabilmente dovuto ai pesanti tagli applicati al trasporto pubblico che ha provocato un aumento dell’uso dell’automobile. Rispetto al 2010, in alcune città la situazione è peggiorata in modo drammatico: Cremona ha registrato quasi tre mesi in più di aria irrespirabile, Verona due mesi in più, Treviso 50 giorni, e numeri allarmanti si leggono anche per Milano (44 giorni in più), Terni (42), Cagliari e Vercelli (entrambe hanno registrato un aumento di 38 giorni).

Assieme ai dati relativi ai Pm10, sono stati analizzati anche quelli relativi alle emissioni di ozono e di biossido di azoto. Sono 18 quelle in cui gli sforamenti di ozono sono stati più del doppio di quelli concessi. Addirittura il triplo a Lecco, Mantova e Novara. Le causa dell’inquinamento atmosferico sono molteplici, ma analizzando le fonti di emissioni a livello cittadino emerge l’incisività del trasporto su gomma per quanto riguarda le polveri fini e per gli ossidi di azoto. Un’altra fonte sempre più influente in città è quella dei riscaldamenti, che in alcuni casi supera anche il contributo delle automobili, come ad esempio a Bolzano, Trento, Cagliari. “Al traffico – commenta Rossella Muroni, direttore generale di Legambiente – si risponde troppo spesso con interventi occasionali di emergenza. La soluzione è possibile, richiede però più coraggio da parte degli amministratori e più responsabilità da parte dei cittadini”. Ridurre il traffico cittadino in funzione di una migliore qualità dell’aria (e quindi della vita) è possibile solo potenziando il trasporto pubblico locale e la mobilità sostenibile nelle città. Secondo Legambiente, aumentare di mille unità i treni in circolazione o investire a lungo termine per portare i passeggeri ad almeno 4 milioni, porterebbe benefici non solo alla qualità della vita, ridurrebbe le congestioni da traffico, e comporterebbe un risparmio di emissioni in atmosfera stimate da Legambiente in una riduzione dal 3,3% al 5,5% di PM10.

Stefano Erbaggio

L’acidificazione degli oceani influenza il comportamento dei pesci

Gli effetti negativi sugli organismi marini provocati dagli elevati livelli di anidride carbonica negli oceani sono costantemente monitorati e indagati. Due studi, condotti da Paolo Domenici dell’Istituto per l’ambiente marino e costiero del Consiglio Nazionale delle Ricerche di Oristano (Iamc-Cnr) con i ricercatori della James Cook University e dell’ Università di Oslo, sono stati pubblicati su Biology Letters e su Nature – Climate Change lo, spazio interamente dedicato ai cambiamenti climatici all’interno della famosa rivista scientifica. I risultati delle ricerche fanno temere per il futuro delle specie ittiche presenti nei nostri oceani, le cui capacità di spostamento e di allontanamento dai predatori soffriranno molte disfunzioni a causa del costante aumento di CO2 .

“Il primo studio, effettuato nella barriera corallina australiana e pubblicato su Biology Letters, dimostra, con i livelli di CO2 previsti nel 2100, la perdita della lateralizzazione, ovvero della preferenza per il lato destro o sinistro durante gli spostamenti quando si trovano davanti a un ostacolo”, spiega Domenici. “Un altro, appena pubblicato su Nature Climate Change, rileva che i pesci invertono la capacità di allontanarsi dall’odore di un predatore, con ovvie e pericolose conseguenze per la loro sopravvivenza”. Già nel 2008, alcuni studiosi della Stazione Zoologia Anthon Dorhn di Napoli, in collaborazione con ricercatori francesi, inglesi e israeliani, illustrarono su Nature i risultati di una ricerca condotta sui fondali dell’isola di Ischia, nel Golfo di Napoli, sugli effetti dell’acidificazione degli oceani. Questo fenomeno è dovuto alle reazioni tra biossido di carbonio e acqua che causano rilevanti variazioni nelle concentrazioni di bicarbonato e acido carbonico. Tra le conseguenze di tale fenomeno vi sono la graduale scomparsa delle alghe calcaree lungo il gradiente di Ph, una generale perdita di biodiversità, e una variazione nel comportamento dei pesci.

“Ora abbiamo scoperto che queste disfunzioni comportamentali, di cui non si conosceva il meccanismo, sono dovute al malfunzionamento del GABA-A, un recettore del sistema nervoso centrale con fondamentali effetti su diversi tipi di neuroni che dipende dalle quantità relative di ioni quali cloro e bicarbonato, a loro volta alterate dall’esposizione a livelli elevati di CO2”, prosegue il ricercatore Iamc-Cnr.

I ricercatori hanno dimostrato tale meccanismo mediante un esperimento: “Dopo essere stati sottoposti alla alta concentrazione di anidride carbonica, i pesci venivano esposti alla gabazina, una sostanza che blocca il recettore GABA-A: dopo trenta minuti di trattamento tornavano a sfuggire ai predatori e riguadagnavano la loro preferenza laterale”, conclude Domenici. “Poiché tale recettore è quasi universalmente presente nel sistema nervoso centrale degli organismi è perciò possibile che l’incremento negli oceani della CO2, aumentata del 40% negli ultimi due secoli e stimata per la fine del secolo tra 700-900 parti per milione contro le attuali 380 ppm, abbia enormi conseguenze sul comportamento e la sopravvivenza di numerose specie marine”.

Stefano Erbaggio

Da Durban nessuna soluzione concreta e immediata

Da Durban nessuna soluzione concreta e immediata
Da Durban nessuna soluzione concreta e immediata

La Conferenza sul Clima a Durban si è conclusa confermando le previsioni dei più realisti, cioè con dei risultati fondamentalmente mediocri. In breve è stato confermato il Kyoto 2 dalla maggioranza dei paesi partecipanti, esclusi gli Usa (tra i non firmatari anche nel ’97), la Russia, l’Australia e il Giappone; è stato avviato un percorso per la ratificazione di un accordo vincolante entro il 2015, che entrerà in vigore solo nel 2020; sono stati confermati, ma con numerose incertezze, i 100 miliardi di dollari del Fondo Verde, da fornire entro il 2020 come sussidio per le politiche ambientali dei paesi in via sviluppo.

Anche stavolta l’Europa ha svolto un ruolo centrale, nonostante le difficoltà interne dovute alla crisi economica. Tra i protagonisti anche l’Italia. Rispetto a 20 anni fa «quello che è cambiato radicalmente – spiega il Ministro all’Ambiente, Corrado Clini – è la geografia dei rapporti di forza. I piu’ grandi investitori in tecnologie a basso contenuto di carbonio – osserva – sono i Paesi emergenti, con la Cina in testa. Ci sono invece ritardi dagli Usa e dal Canada, anzi battute d’arresto».

È stato proprio il Governo Italiano il principale interlocutore del colosso asiatico, oltre al quale, al seguito del Vecchio Continente, si aggiungono le maggiori economie emergenti: Brasile e India. Considerando i continui veti posti da questi paesi durante gli ultimi incontri internazionali, questo appare un risultato più che buono. Il principale problema irrisolto è ancora il così detto “gigatonne gap”, cioè la differenza tra la riduzione delle emissioni di CO2 stabilita dai Governi dei vari stati, e quella realmente necessaria per evitare l’irreversibilità dei cambiamenti climatici. I provvedimenti che s’intendono attuare, infatti, si limitano a contenere l’aumento della temperatura media del pianeta di 4°C, quando la comunità scientifica consilia di non superare i 2°C. «L’Europa – ha dichiarato il presidente di Legambiente Vittorio Cogliati Dezza – da subito si deve fare promotrice, con il sostegno dell’Italia, di un piano per colmare questo gap e aggiornare al 30% il proprio impegno di riduzione delle emissioni di gas-serra al 2020. Per l’Europa si tratta di un impegno che non richiede grandi sforzi aggiuntivi e in linea con le politiche climatiche ed energetiche adottate a livello comunitario. L’Unione europea, infatti, è già a un passo dal raggiungimento dell’obiettivo del 20% al 2020 visto che nel 2010 le emissioni dei ventisette paesi sono già diminuite del 15,5% rispetto al 1990». Ci si stupisce del fatto che, a quasi vent’anni dalla prima Conferenza internazionale e nonostante la mole di materiale scientifico pubblicata negli ultimi decenni, la politica internazionale non sia ancora in grado di dare una risposta, assecondando il bene della nostra specie rispetto a ciò che pretendono i poteri economici forti. Tra i più speranzosi ed attivi, durante quest’incontro, proprio i rappresentanti dei Governi delle piccole isole, le cui popolazioni sono le più esposte alle conseguenze dei cambiamenti climatici. Mariagrazia Midulla, responsabile Policy Clima ed Energia del WWF Italia che ha seguito i negoziati a Durban, ha dichiarato: «I Governi hanno fatto il minimo indispensabile per portare avanti i negoziati, ma il loro compito è proteggere la loro gente. E in questo, qui a Durban, hanno fallito. La scienza ci dice che dobbiamo agire subito, perché gli eventi meteorologici estremi, la siccità e le ondate di caldo causate dal cambiamento climatico peggioreranno. Ma oggi è chiaro che i mandati di pochi leader politici hanno avuto un peso maggiore delle preoccupazioni di milioni di persone, mettendo a rischio le persone e il mondo naturale da cui le nostre vite dipendono. “Catastrofe” è una parola dura, ma non abbastanza da descrivere un futuro con 4 gradi di aumento della temperatura globale».

Lo sbadiglio è segno di empatia

Lo sbadiglio è segno di empatia
"Lo sbadiglio è segno di empatia"

Uno studio condotto da Ivan Norscia ed Elisabetta Palagi, dell’Università di Pisa e dell’Istituto di Scienza e Tecnologie della Cognizione del Cnr di Roma, pubblicato su PlosONE, fornisce l’evidenza etologica che la trasmissione dello sbadiglio è una forma di “contagio emotivo”.

Il fenomeno della diffusione dello sbadiglio è un fatto noto, ma lo studio dei due ricercatori dimostra come questa sia più veloce e frequente tra persone che condividono un legame empatico. «Lo sbadiglio spontaneo, non sollecitato da altri sbadigli, è un comportamento evolutivamente molto antico, presente già nei pesci ossei che popolano il nostro pianeta da almeno 200 milioni di anni.

A seconda del gruppo animale nel quale si ritrova, può indicare stress, noia, stanchezza o segnalare un cambio di attività, ad esempio dal sonno alla veglia e viceversa», spiega Elisabetta Palagi, dell’Unità di primatologia cognitiva dell’Istc-Cnr. «Lo sbadiglio “contagioso” è un fenomeno completamente diverso, più “moderno”, dimostrato finora solo in alcune scimmie (scimpanzé e babbuini gelada) e nell’uomo e ipotizzato anche per animali con capacità cognitive e affettive sviluppate come il cane. Nell’essere umano normalmente lo sbadiglio può essere evocato da un altro sbadiglio entro 5 minuti».

Lo studio si basa su una raccolta di dati effettuata in un anno in Madagascar ed in Italia, che ha coinvolto più di 100 soggetti adulti, di cui 400 coppie “sbadiglianti”, che condividevano legami affettivi di vario tipo (dal semplice conoscente, al rapporto di lavoro fino ad uno stretto legame di parentela) osservati in svariati momenti della giornata e contesti sociali La ricerca è stata sostenuta anche dal Giardino zoologico di Pistoia, dal Parco Zoo Falconara (An) e dal Parco Zoo Punta Verde di Lignano Sabbiadoro (Ud). «Un’analisi statistica basata su modelli lineari misti (Lmm, Glmm) ha rivelato che la presenza e la frequenza di contagio non sono influenzate da differenze di contesto sociale o dalle modalità di percezione (sentire uno sbadiglio evoca una risposta tanto quanto vederlo, o vederlo e sentirlo), né da differenze di età, di genere o di nazionalità», prosegue Ivan Norscia, dell’Università di Pisa. «Ciò che influenza il contagio è la qualità della relazione che lega chi sbadiglia e chi “riceve”. È più probabile che una persona “ricambi” se ad aver sbadigliato è una persona amata. Lo studio rivela un trend preciso: il contagio è massimo tra familiari o coppie e diminuisce progressivamente tra amici, conoscenti e sconosciuti, in cui è minimo. Anche la latenza di risposta, cioè il tempo di reazione, è minore in familiari, amanti e amici rispetto a conoscenti o sconosciuti».
A favore di questa ipotesi ci sono anche dati neurobiologici. «Esistono studi che mostrano come le zone del cervello che si attivano durante la percezione di uno sbadiglio altrui sono in parte sovrapposte a quelle legate alla sfera emotiva», conclude Elisabetta Visalberghi, coordinatore Unità di primatologia cognitiva – Istc-Cnr. «Possiamo quindi dire che lo sbadiglio può essere indice non solo di noia, ma di empatia».

Un rimedio contro l’Hiv arriva dal tabacco

Pianta Tabacco rimedio Hiv
Pianta del tabacco: una nuova frontiera contro l'Hiv

Il tabacco è al centro di un rinnovato interesse scientifico. Ciò si deve ad alcune proprietà che lo renderebbero la pianta ideale per la sintesi di nuovi biofarmaci, in maniera efficiente ed economica, in grado di contrastare virus come l’HIV e altre gravi malattie. Queste sono le conclusioni del progetto di ricerca internazionale Pharma-Planta, partecipato dai ricercatori del Consiglio nazionale delle ricerche (Istituto di biologia e biotecnologia agraria Ibba-Cnr e Istituto di genetica vegetale Igv-Cnr), dal Laboratorio Biotecnologie dell’Enea (Agenzia nazionale per le Nuove tecnologie, l’Energia e lo Svilppo Economico Sostenibile) e dell’Università di Verona (Dipartimento di Biotecnologie).

“La missione principale di Pharma-Planta è stata quella di sviluppare metodologie innovative per la produzione di nuovi anticorpi e vaccini dalle piante”, spiega Alessandro Vitale dell’Ibba-Cnr. “I farmaci sviluppati su base vegetale – rispetto a quelli prodotti per via biotecnologica in microorganismi o cellule animali – hanno costi di produzione notevolmente inferiori, e ci si aspetta che siano altrettanto efficaci e più sicuri”. Il progetto è partito nel 2004 e, finanziato dalla Commissione Europea con 12 milioni di euro, ha coinvolto 40 gruppi di ricerca appartenenti a 33 istituzioni di ricerca e industriali e rientra nel 6° Programma Quadro UE. Si pone l’obiettivo di utilizzare organismi vegetali geneticamente modificati per la produzione di farmaci, oltre ad avviare una regolamentazione normativa sulla questione.

“Grazie a piante geneticamente modificate di tabacco è stato prodotto e purificato un anticorpo umano che neutralizza ad ampio spettro molti isolati del virus HIV-1 e potrebbe presto diventare strategico per ridurre la diffusione del virus nei paesi più poveri e più colpiti”, prosegue Eugenio Benvenuto, responsabile del Laboratorio Biotecnologie dell’Enea. “I risultati di laboratorio sono stati sviluppati in una vera linea industriale e la quantità di farmaco prodotta è stata sufficiente per la sperimentazione clinica, che ha avuto inizio nel giugno 2011 presso l’Università del Surrey (Regno Unito). L’impianto realizzato per questo primo farmaco ‘verde’ potrà essere utilizzato per produrre e purificare dalle piante altre proteine ricombinanti con effetti farmacologici”.

I ricercatori di tutto il mondo fanno uso delle numerose metodologie per lo sviluppo di biofarmaci da piante sviluppate dal progetto Pharma Planta. Inoltre, all’interno del progetto, sono stati prodotti circa 200 articoli su riviste scientifiche internazionali, sottoscrivendo un accordo per il libero accesso ai risultati e ai prodotti del progetto (copyright, brevetti, varietà vegetali).

“I risultati ottenuti nell’ambito del progetto – conclude Mario Pezzotti, dell’Università di Verona – hanno portato alla costituzione di Officina biotecnologica, spin-off del nostro ateneo che ha come obiettivo la produzione in foglie di tabacco di un autoantigene umano potenzialmente efficace per la prevenzione del diabete autoimmune”.

Stefano Erbaggio

poiana

Uno studio illustra lo stato dei rapaci diurni della Campania

L’ASOIM (Associazione Studi Ornitologici Italia Meridionale – Onlus) pubblica la sua decima monografia, intitolata “I rapaci diurni della Campania (Accipitridi, Pandionidi, Falconidi)”. poianaL’opera è stata curata dagli ornitologi Stefano Piciocchi, Danila Matronardi e Maurizio Fraissinet, e si spinge oltre la semplice schedatura dei Falconiformi campani, offrendo anche una quadro completo della loro conservazione in natura e dello stato di salute dei singoli individui, grazie all’ausilio dei CRAS (Centri di Recupero di Animali Selvatici); ne viene inoltre illustrato l’aspetto ecologico, in una Regione in cui l’ambiente naturale è continuamente mortificato dalle attività antropiche, lecite o illecite che siano. Per ciascuna specie nidificante, migratrice e svernante c’è un’ampia trattazione che ne illustra l’areale, l’ecologia, lo status popolazionistico e conservazionistico a livello planetario ed italiano, per poi soffermarsi sulla situazione campana.

I rapaci diurni, in qualità di top predator, rappresentano un parametro molto importante per valutare la qualità ambientale di un territorio, ed in Campania la loro presenza in determinate zone è davvero sorprendente. La Campania è la Regione italiana con la più alta densità abitativa, ben 436,71 ab./km2, il doppio rispetto alla media nazionale di 201,45 ab./km². Questo scenario si caratterizza per una forte eterogeneità, con la Provincia di Benevento che conta 139,39 ab./km2 e la Provincia di Napoli con 2.629,98 ab./km².  Le conseguenze di tale densità abitativa (specialmente nel napoletano) sono la frammentazione e la riduzione degli habitat naturali, sostituiti da un immenso agglomerato urbano. A queste condizioni si sono verificate eccezionali aumenti delle popolazioni di specie sinantropiche, quali Falco Pellegrino e Gheppio, mentre il Falco Pecchiaiolo riesce a sopravvivere esclusivamente nelle limitate superfici boscose di alcune Aree Protette.

Gli autori spiegano che la sistematica utilizzata è quella della Lista CISO-COI degli Uccelli Italiani, punto di riferimento per tutta l’ornitologia italiana, che raggruppa la totalità dei rapaci diurni in un singolo ordine, quello dei Falconiformes, suddiviso a sua volta nelle tre famiglie degli Accipitridae, Pandionidae e Falconidae. Allo stato attuale, in Campania sono note 19 specie di Accipitridae, di cui 8 sono nidificanti, 6 migratrici e 5 accidentali; 1 di Pandionidae, il Falco Pescatore, migratore; e 9 di Falconidae, di cui 4 nidificanti, 4 migratrici e una, il Falco Sacro, avvistato solo due volte.

I dati utilizzati per il censimento sono stati raccolti dal 2005 al 2011, sempre nel periodo compreso tra il 1° febbraio ed il 15 agosto, all’interno del progetto “Night and Day”. Durante tale periodo, ogni presenza accertata di Falconiformi portava allo studio di nove parametri riguardanti la nidificazione, possibile e certa. È stato importantissimo anche l’ausilio dei CRAS, grazie ai quali è stato possibile studiare gli aspetti medico veterinari della fauna selvatica ricoverata. Un esempio sono le analisi epidemiologiche. Su un totale di 112 esemplari esaminati, le percentuali di positività sono risultate 12,5% per Salmonella spp., 6,25% per Campylobacter spp. e 2,67 per Yersinia spp.; ovviamente nelle specie maggiormente campionate, cioè Gheppi e Poiane, gli isolamenti sono stati più numerosi: il 37% dei Gheppi è risultato infetto da uno di questi tre batteri, mentre nel caso delle Poiane la percentuale si attesta al 42%.

I rapaci diurni della Campania
I rapaci diurni della Campania, foto di Maurizio Fraissinet.

Stefano Erbaggio