Sacchetti di plastica: un anno dopo l’addio

A partire dal 1 gennaio del 2011 è entrato in vigore in Italia il divieto di commercializzazione dei sacchetti di plastica in favore delle buste ecologie. A un anno di distanza i risultati raggiunti sono un passo avanti verso una maggiore attenzione alla sostenibilità ambientale ma forse si poteva e si deve fare di più.
Ad affrontare per la prima volta il problema dell’inquinamento legato ai sacchetti di plastica in Italia fu la manovra finanziaria del 2007, che prevedeva un periodo di prova per gli eco-shopper per tre anni – dall’esito poi deludente – e con termine stabilito per l’adozione delle buste biodegradabili entro il 1 gennaio 2010, poi derogato all’anno seguente con il decreto legge “milleproroghe”.
L’impatto ambientale negativo dovuto ai sacchetti di plastica è un problema evidente in mare e in particolar modo in una zona del Mediterraneo compresa tra Italia, Francia e Spagna: i rifiuti formano “un’isola” composta in buona parte proprio dalle buste per la spesa. Animali marini come tartarughe e cetacei, attratti dai colori vivaci, finiscono per ingerire pezzi di plastica e morire soffocati. A denunciare il problema dell’inquinamento del mare è stata Legambiente in collaborazione con l’Arpa Toscana e la struttura oceanografica Daphne che hanno redatto il rapporto.
L’Italia in questo contesto è una delle maggiori responsabili e il motivo lo spiega il vicepresidente nazionale di Legambiente, Stefano Ciafani: “Lo è sia perché è la prima Nazione per consumo di sacchetti di plastica“usa e getta”, visto che commercializza il 25% del totale degli shopper in tutta Europa, ma anche perché si affaccia sul mar Mediterraneo.”
Dopo i mozziconi di sigarette e le bottiglie di vetro, i sacchetti di plastica sono il rifiuto più disperso nell’ambiente ma anche il più persistente.
La battaglia ai sacchetti di plastica cominciò nel 2002 in Irlanda dove l’introduzione di una tassa sulla plastica sortì l’effetto desiderato: nel giro di un anno le abitudini degli irlandesi cambiarono in favore delle borse di stoffa, mentre i proventi ricavati finanziarono iniziative ambientali e di riciclaggio. L’introduzione di tasse di questo genere dovrebbero avere lo scopo preciso di far cambiare le abitudini dei consumatori e gli irlandesi lo hanno capito fin da subito.
Nel nostro Paese i provvedimenti si servirono di tempi più lunghi ma alla fine il Tar del Lazio prese la decisione di respingere il ricorso dell’Associazione che rappresenta le aziende italiane della trasformazione di materie plastiche, la Unionplast, e che di opponeva alla cessazione nell’utilizzo delle buste in plastica, anche se le associazioni ambientaliste già sostenevano l’esistenza di falle evidenti nella legge e nei controlli.
Infatti a un anno di distanza, i risultati non sono del tutto positivi. Se per le grandi catene il cambio è  stato effettuato secondo la normativa, lo stesso non si può dire per i piccoli e medi rivenditori. Il principale problema è il maggiore costo dei sacchetti eco-compatibili. Inoltre i consumatori stessi sono delusi: i sacchetti sono piccoli, si rompono facilmente e quindi difficilmente riutilizzabili. E’ anche vero che i cosiddetti sacchetti biodegradabili possono essere fatti in materiali diversi e non c’è chiarezza sulle differenze.
Di certo i diversi problemi hanno sortito due effetti principali: uno positivo e l’altro negativo. Quello positivo è il ritorno dell’utilizzo del sacco di stoffa. Che sia di cotone o di un altro tessuto, la borsa in stoffa ha la praticità di essere riutilizzabile e lavabile. L’effetto negativo e problematico è quello della contraffazione dei sacchetti bio che vengono messi sul mercato a prezzi inferiori ma non completamente biodegradabili.
Il Governo non aiuta in quanto negli ultimi tempi è scomparso dal decreto milleproroghe l’articolo che stabiliva i corretti criteri di biodegradabilità e compostabilità degli shopper secondo le normative europee. Dalle prime ricerche, sembrerebbe che la sparizione sia dovuta alle pressioni esercitate dalle piccole e medie imprese del Nord Italia per via dei problemi economici a cui andrebbero incontro con la riconversione della produzione di plastica alla produzione di bioplastica.
Dall’ufficio stampa di Legambiente arriva la replica di Ciafani: “[…] se fosse confermata la sua cancellazione in modo così subdolo, addirittura dopo l’annuncio del governo, sarebbe un chiaro tentativo di salvaguardare i profitti di alcune lobby a scapito dell’interesse generale, dei cittadini, dell’ambiente e dell’economia italiana. Ci auguriamo quindi – conclude il vicepresidente nazionale di Legambiente – che il Governo e il Parlamento rimedino al più presto a questo evidente tentativo di sabotaggio di un ottima norma che privata di determinati parametri rischia di perdere la sua efficacia.”
Gli italiani hanno comunque capito il danno che le buste di plastica possono causare all’ambiente ed è quindi crescente la richiesta di sacchetti biodegradabili. È però importante, a questo punto, fare una precisazione come fa notare Gianluca Bertazzoli, responsabile Comunicazione Corepla, il Consorzio nazionale per la raccolta, il riciclaggio e il recupero dei rifiuti di imballaggi in plastica: “Un sacchetto bio disperso nell’ambiente non si degrada con la facilità con cui lo farebbe in un impianto di compostaggio e, oltretutto, non è che perché una cosa è biodegradabile la si può gettare ovunque impunemente.”
Senso civico e di responsabilità, unito ad azioni e comportamenti eco-sostenibili, sono i punti fondamentali da seguire per ognuno, in attesa di una risposta governativa più decisiva e più chiara.

Massimo Gigliotti