SLA: a che punto siamo?

Ci sono patologie che trasformano la biologia del corpo umano in una gabbia per l’intelligenza emotiva e cognitiva: sebbene il cervello sia ancora attivo, le funzioni vitali subiscono un cortocircuito e il sistema collaudato di apparati vitali si trasforma in una interazione sempre meno efficiente, portando così la percezione del dolore a prendere le fattezze di un incubo inesprimibile.

Questa è la storia di un malato di Sclerosi Laterale Amiotrofica (SLA): un uomo affetto da patologia neurodegenerativa progressiva, che vede pian piano spegnersi i neuroni motori corticali del tronco encefalico e delle corna anteriori del midollo, fino alla atrofia dei muscoli volontari, al deficit deambulatorio e alla compromissione, in ultimo, delle funzioni vitali; per uscire su una sedia a rotelle si ha bisogno di due mani che la spingano, per rimanere nel letto tutto il giorno è necessario che qualcuno cambi le lenzuola, per alimentarsi serve qualcuno che imbocchi, per aspirare la tracheotomia o per pulire la peg non possono mancare esperti che lo sappiano fare.

«Per questo tipo di patologia non ci sono cure vere e proprie», spiegano dall’associazione ConSlancio, «ma si prescrivono integratori, a volte probiotici, e l’unico farmaco in commercio rimane, da oltre 20 anni, il Riluzolo, che avrebbe l’intento di ritardare la tracheotomia, allungando così la vita di soli tre mesi. Alcuni centri specializzati nel trattamento di questa patologia a volte reclutano pazienti per delle sperimentazioni in doppio cieco, ma finora nulla di concreto è stato pubblicato dai nostri ricercatori italiani».

Nel 1995 venne, infatti, approvato dalla Food and Drug Administration il Riluzolo quale farmaco capace di ridurre l’azione del glutammato (uno dei 23 aminoacidi naturali, il cui tasso elevato nei malati di SLA determina una iperattività nociva per il corretto funzionamento del corpo umano) e, dunque, di rallentare moderatamente la degenerazione motoria, conseguenza tipica di questa patologia. Attualmente, essendo ancora sconosciute le cause che provocano la SLA (idiopatica, cioè non dovuta a cause esterne note, per la maggioranza dei casi ed ereditaria per un modesto 10%), non esistono cure che possano sconfiggerla, ma solo trattamenti per renderne meno gravi i sintomi e tentare così di migliorare la qualità della vita dei pazienti, la cui sopravvivenza si aggira tra i 2 e i 4 anni dal momento della diagnosi (variabile a seconda dei vari fenotipi in cui può presentarsi la malattia).

Ma questa è anche la storia di un nuovo farmaco portato in Italia grazie a un malato coraggioso, Andrea Zicchieri, volato fino in Giappone per sperimentare sulla propria pelle l’Edavarone (o Radicut se si considera il nome commerciale), medicinale che, nel paese nipponico, era a disposizione già dal 2015. «Non sembrava vero che dopo 20 anni di nulla arrivasse finalmente la notizia di un nuovo farmaco, che avrebbe davvero rallentato la malattia» raccontano da ConSlancio, associazione di cui lo stesso Zicchieri è presidente. «Arrivò fino in Giappone per provare questo farmaco e al rientro ne raccontò i benefici al presidente dell’Associazione Italiana Sclerosi Laterale Amiotrofica (AISLA), iniziando così tutta la trafila burocratica per far sì che anche i malati italiani potessero beneficiare del farmaco».

Inizialmente furono 75 i malati che cominciarono ad acquistare il farmaco direttamente dal Giappone, ma vista l’esperienza molto positiva di Andrea Zicchieri e la sua battaglia insieme con l’AISLA, a luglio scorso l’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) accolse la richiesta di inserimento del Radicut nella lista dei farmaci erogabili dal Servizio Sanitario Nazionale, secondo quanto previsto dalla legge 648 del 1996, e cioè l’assenza di alternative terapeutiche valide. Caso unico in Europa, dato che, dopo il Giappone e gli Stati Uniti, che lo hanno legalizzato a maggio 2017, l’Italia si piazza al terzo posto nel mondo per utilizzo del Radicut nelle terapie a favore dei malati di SLA. «Alcuni lo considerano miracoloso», ha dichiarato Zicchieri sulle pagine di Vanity Fair pochi giorni dopo l’approvazione da parte dell’AIFA. «Io credo che non faccia prodigi, ma sono certo che aiuti molto, se usato con costanza: in tanti hanno riacquistato piccole funzioni che avevano perso, e io, rispetto ad alcune persone che si sono ammalate insieme a me, sto meglio».

Messo a punto per il trattamento degli ictus, il Radicut è stato oggetto negli anni di ripetuti studi sui suoi possibili effetti sulla SLA. Nonostante i primi risultati non proprio incoraggianti, i dati mostrarono una risposta interessante in alcuni pazienti, sui quali si sono concentrate poi le successive sperimentazioni. A confermarlo uno studio statunitense, uscito a maggio scorso sulla rivista scientifica The Lancet Neurology, nel quale si presentavano le prove di un significativo decremento del punteggio ALSFRS-R, cioè una scala di 12 funzioni (dal linguaggio fino all’insufficienza respiratoria) che permette di tenere sotto controllo l’evoluzione della malattia assegnando a ciascun item un voto da 0 a 4. Sebbene il farmaco abbia un meccanismo d’azione non ancora noto, la sua attività influisce positivamente sullo stress ossidativo, rallentando di molto il peggioramento funzionale in pazienti con determinate caratteristiche, quali una buona attività respiratoria, una discreta capacità deambulatoria, SLA definita o probabile da massimo due anni.

«L’euforia iniziale dei 6000 malati italiani venne velocemente offuscata dalla legge 648/96, che impone dei ristrettissimi criteri di inclusione affinché un farmaco possa essere somministrato gratuitamente dal SSN (in questo caso i risultati emersi dallo studio americano). I pazienti “fortunati” scendono così a 1400 circa, riducendo di molto le reali possibilità di tutti pazienti ad accedere a una terapia innovativa dopo più di vent’anni di stasi».

Intanto, si continua a portare avanti ricerche per offrire sempre più alternative valide alla cura dei malati di SLA, come lo studio Promise, nato dal dipartimento di Neuroscienze Cliniche della Fondazione IRCCS-Istituto Neurologico “Carlo Besta” di Milano, che conta già un partenariato di 24 centri di ricerca su tutto il territorio italiano. Designata per testare l’efficacia di un nuovo farmaco, Guanabenz, la sperimentazione clinica ha come obiettivo valutare le potenzialità del farmaco nel contrastare l’accumulo patologico di proteine e tentare così di rallentare il decorso della malattia.

Ciò rappresenta sicuramente motivo di speranza, seppur piccolo, per i molti malati sia in Italia che nel mondo. Stando ai dati pubblicati dal Ministero della Salute nel 2013 in Europa si registrano ogni anno tra gli 1,5 e 2,5 nuovi casi ogni 100.000 persone, mentre in Italia, secondo le stime 2012 di Eurals, vi sarebbe una maggiore prevalenza di malati e nuove diagnosi in tre regioni: Lombardia, Campania e Lazio. Nel mondo, invece, stando a una proiezione italo-americana pubblicata lo scorso anno dalla rivista Nature, si parla di circa 200mila malati nel 2015, che saliranno a 370mila nel 2040, con un aumento del 20% in Europa e del 35%negli Stati Uniti, fino a picchi del 50% in Cina e del 100% in Africa. Un dato allarmante, quindi, non soltanto per la sua incidenza futura in paesi finora poco coinvolti, ma soprattutto per i costi terapeutici elevati che rischiano di sottolineare ancora di più il divario tra nazioni ricche e continenti poveri.

Elisa Scaringi