Resti fossili degli orecchi dei primi ominidi ed evoluzione umana

Scritto da:
Leonardo Debbia
Durata:
1 minuto
Ossicini dell’orecchio. Da sinistra: incudine, staffa e martello potrebbero fornire buoni indizi per l’evoluzione umana (fonte: Texas A.& M)
Ossicini dell’orecchio. Da sinistra: incudine, staffa e martello potrebbero fornire buoni indizi per l’evoluzione umana (fonte: Texas A.& M)

Un nuovo studio condotto da un antropologo dell’Università di Birmingham e pubblicato a metà maggio su Proceedings of National Academy of Science, potrebbe gettare una nuova luce sull’esistenza dei primi umani.

Lo studio ha analizzato i resti fossili degli ossicini dell’orecchio – staffa, incudine e martello – di due specie diverse di primi esseri umani rinvenuti in Sud Africa. Si tratta di reperti tra i più rari da poter recuperare.

A differenza delle altre ossa dello scheletro, le ossa dell’orecchio sono già completamente formate e sono di dimensioni notevoli già alla nascita. Questo indica che la grandezza e la forma sono sotto forte controllo genetico e, nonostante queste dimensioni siano piccole, se confrontate con le altre ossa, sono ricche di informazioni di tipo evolutivo.

Lo studio è stato condotto dall’antropologo Rolf Quam dell’Università di Birmigham e da un team internazionale di ricercatori provenienti da Stati Uniti, Italia e Spagna.

Sono stati esaminati gli ossicini di ominidi arcaici, due individui rappresentanti le specie Australopithecus robustus e Australopithecus africanus. In particolare, l’esame ha riguardato la catena completa, vale a dire tutte e tre le ossa dell’orecchio – incudine, staffa e martello – mai prima d’ora recuperate da un ominide fossile. La datazione li colloca sui due milioni di anni e la provenienza è dai ben conosciuti siti sudafricani di Swartkrans e Sterkfontein, giacimenti fondamentali dei resti umani primitivi.

Anatomia della catena degli ossicini dell’udito negli esseri umani moderni (Netter)
Anatomia della catena degli ossicini dell’udito negli esseri umani moderni (Netter)

I ricercatori riportano diversi dati significativi emersi dallo studio. Il martello è molto simile a quello degli umani attuali. Le dimensioni e la forma sono ben distinguibili da quelli dei nostri parenti più prossimi, scimpanzé, gorilla e oranghi.

Molti aspetti del cranio, dei denti e dello scheletro in questi primi antenati umani rimangono primitivi e scimmieschi, ma il martello è una delle poche caratteristiche di questi ominidi che è più simile alla nostra specie, l’Homo sapiens. Dal momento che entrambe le specie condividono il martello, l’alterazione anatomica di questo ossicino è avvenuta probabilmente molto presto nella nostra storia evolutiva.

Secondo Quam il bipedismo e la riduzione delle dimensioni dei canini sono stati a lungo una sorta di “marchio di garanzia di umanità”, le prove certe di appartenenza al genere umano.

Relazioni funzionali tra orecchio esterno ed orecchio interno.
Relazioni funzionali tra orecchio esterno ed orecchio interno.

 “Il nostro studio – dichiara ora Quam – vuole sottolineare l’importanza del martello come carattere evolutivo. In contrasto con il martello, infatti, gli altri due ossicini dell’orecchio, l’incudine e la staffa, appaiono più simili a scimpanzé, gorilla e oranghi.

Le differenze anatomiche che si trovano in questi ossicini, assieme alle differenze dell’orecchio esterno, sono coerenti con le differenti capacità uditive in questi primi modelli umani rispetto agli esseri umani attuali.

Anche se al riguardo lo studio non è esaustivo, il team ha in programma di osservare gli aspetti funzionali dell’orecchio dei primi ominidi mediante ricostruzioni virtuali in 3D, basate su scansioni TC ad alta risoluzione.

Un simile approccio è già stato utilizzato dallo stesso team di studiosi nell’analisi di fossili di 500mila anni d’età provenienti dalla Sierra di Atapuerca, nel Nord della Spagna. I fossili di quel sito erano antenati dei Neanderthal ma i risultati delle analisi hanno dimostrato che il loro modello di udito già assomigliava a quello dell’Homo sapiens.

L’estensione di questo tipo di analisi ad Australopithecus e Paranthropus dovrebbe fornire una nuova visione di come possa essersi evoluto il nostro modello umano dell’apparato uditivo.

Leonardo Debbia
31 maggio 2013