Il razzismo non è cablato nella nostra mente

Scritto da:
Daniel Iversen
Durata:
1 minuto

 Il nostro radar razziale non è immutabile. Le persone, infatti, sembra che tendano a identificare inconsciamente gli altri più per come essi lavorano insieme che per il colore della pelle.

Il nostro cervello si è evoluto per riconoscere categorie razziali perché storicamente queste predicevano alleanze sociali, dice David Pietraszewski, psicologo della Yale University.

Avere un nemico in comune è un modo per dilure le barriere sociali, ma il fattore unificante deve per forza esserne antagonista?

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Per scoprirlo, David Pietraszewski insieme ai suoi collegi della University of California Santa Barbara [1] hanno introdotto a 1271 persone alcuni avatar simil-reali che lavoravano in una di due associazioni di beneficienza: la prima che costruisce case per i poveri e l’altra che fornisce cure mediche all’estero. Ogni associazione aveva due avatar bianchi e due avatar neri dello stesso sesso.

All’inizio ai partecipanti sono state fatte leggere 24 affermazioni su opere di beneficenza, ciascuna accompagnata dal viso di uno degli 8 avatar. Alcune di queste contenevano un suggerimento circa l’affiliazione dell’avatar, mentre altre erano generiche.

Dopodichè ai partecipanti è stato mostrata solo la dichiarazione e gli è stato chiesto di farle corrispondere dall’avatar corretto.

Trovare gli errori
Studiando gli errori che si sono fatti, il team è riuscito a dire se le persone tendevano a confondere l’avatar corretto con qualcuno della stessa razza o con qualcuno che faceva volontariato nella stessa associazione.

Quando tutti e otto gli avatar erano maschi, la tendenza di confondere l’avatar con qualcuno della stessa razza è scesa della metà rispetto a quando le dichiarazioni contenevano indizi sull’appartenenza alla loro associazione, rispetto a quando erano generiche. Quando, invece, gli otto avatar erano femmine, la tendenza a confonderli in base alla razza è scesa a zero.

Il team di ricercatori ha tenuto conto dei casi dove i partecipanti hanno confuso due avatar della stessa razza dentro la stessa associazione di beneficenza.

I risultati implicano che i partecipanti categorizzavano gli avatar in base all’associazione di beneficenza per cui lavoravano piuttosto che per la razza, spiega Pietraszewski. “Abbiamo visto che le persone potrebbero abbandonare il categorizzare le persone per razza e farlo invece basandosi sulle loro relazioni sociali con gli altri in un ambiente cooperativo“.

“Questo ci dice che la razza non è un concetto immutabile e costruito dentro la mente” spiega, anche se ammette che la differenza tra avatar maschili e femminili non è ben compreso.

“Questo studio conferma che almeno uno degli aspetti del razzismo e dell’etnocentrismo – ossia il trattare allo stesso modo tutti i membri all’interno dello stesso gruppo – non è incitato o soppresso da un nemico in comune, ma dipende solo dai segnali che fanno capire che i membri di ogni gruppo cooperano con un ‘altro su obbiettivi che sono diversi da quello di un’altro gruppo”, dice Stephen Pinker, psicologo cognitivo alla Harvard Uniersity, aggiungendo poi che fin tanto le persone cooperano verso un obiettivo, anche se non si tratta di difendersi contro un nemico, possono essere uniti psicologicamente in un singolo gruppo.

[1] doi.org/rnd

Daniel Iversen
3 marzo 2014