Equilibrio psichico tra adattamento ed ambiente. Può ristrutturare casa aiutare a ritrovare il benessere psicofisico?

Questo guida sugli effetti delle ristrutturazioni sul benessere psicofisico è a cura degli esperti FacileRistrutturare.

I cambiamenti possono essere qualcosa che scuotono la nostra esistenza ed il nostro equilibrio psicofisico, ma tante volte sono anche il metodo per uscire fuori da una crisi o da un’impasse in una particolare momento della nostra esistenza.

Se i cambiamenti possono talvolta sconvolgerci la vita e buttarci in uno stato di difficoltà, modificare l’ambiente che ci circonda, il nostro nido, il posto in cui ci sentiamo al sicuro, aiutarci ed essere un primo punto di partenza per reagire?

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Benessere psichico, adattamento e cambiamento
La soggettività è un fulcro di stimoli e risposte all’ambiente circostante, agli eventi che ci accadono nel corso della nostra vita e agli stimoli emotivi che riceviamo nell’interazione con le altre persone. Proprio per questa struttura ricettiva della soggettività l’io si definisce anche nel modo in cui risponde e reagisce agli stimoli dall’esterno.

Molte correnti psicologiche si sono infatti rifatte all’idea di adattamento per definire la specificità dell’essere umano. Spesso si parla di un adattamento passivo, quello con cui l’uomo si adatterebbe agli stimoli esterni come quelli ambientali, e uno attivo secondo il quale l’uomo modificherebbe ciò che viene dall’esterno seguendo le proprie spinte volitive e pulsionali; tuttavia queste due forme dell’adattamento non devono essere viste come due cose distinte, ma più che altro come due facce della stessa medaglia.

Lo psicologo Jean Piaget considerava l’adattamento come un equilibrio tra l’individui che venivano dall’esterno e un disadattamento come un adattamento inadeguato, un disequilibrio che può creare dei disagi psichici e comportamentali all’individuo.

A un disadattamento che può verificarsi sia per cambiamenti che si verificano nella vita dell’individuo, che per eventi scatenanti si deve rispondere cercando di riequilbrare l’adattamento che si richiamerà ri-adattamento.

Ma che si chiami adattamento, armonia, equilibrio, come fare a trovare questa dimensione quando la psiche è turbata?

Innanzitutto bisogna imparare ad avere una buona capacità di analisi e identificazione dei nostri problemi: nominare e dare un volto a quelle che sono le cose che ci creano turbamento è il primo passo per reagire e superarle.

Intendere un momento di difficoltà come disarmonia, disequilbrio, disadattamento significa innanzitutto presupporre la possibilità di ritrovare armonia, di ri-equilibrarci e riadattarci.

Questo può avvenire riappropriandoci delle nostre emozioni capendo che sono qualcosa che appartiene a noi e che sebbene possono essere una risposta a quel che accade all’esterno non possono essere determinate dall’esterno. Capire che siamo noi i fautori ed i responsabili delle nostre emozione ci fa capire che siamo noi, e solo noi, coloro che possono gestirle, anche in una situazione di immensa difficoltà e dolore.

La guarigione o il superamento di una situazione di criticità parte proprio da questa rinnovata consapevolezza del fatto che siamo gli unici proprietari e gestori delle nostre emozioni. In secondo luogo queste si rappresentano come qualcosa di fluido ed in movimento che si oppongono alla stasi e alla stagnazione che si apre a partire dall’evento critico o traumatico.

La terapia psicoanalitica è essa stessa una processualità che nel flusso del proprio lavoro cerca di decostruire quelle etichette, le quali sembrano imprigionare i comportamenti del paziente: depresso, alcolista, maniaco, in lutto, non sono delle caselle nei quali il paziente deve essere incasellato per sempre, ma sono stadi provocati da certi eventi che devono essere superati attraverso un percorso fatto di cambiamenti di atteggiamento, di meccanismi di difesa e di schemi di pensiero.

Stimolare quindi un cambiamento positivo nei meccanismi di reazione del paziente è un aspetto molto importante della terapia psicoanalitica e psicologica. Tuttavia non bisogna pensare che sia il terapeuta a guarire il paziente, ma come osservò Berne nella sui modello psicologico transazionale il terapeuta durante la terapia stimolerà il potenziale curativo che è resente nel paziente stesso. Il terapeuta non deve cambiare il paziente, ma deve essere in grado di far riemergere nel paziente il potere insito che ha dentro di sé di cambiare. Dunque possiamo dire che il terapeuta debba restituire al paziente la propria forza di cambiare, di uscire da un momento difficile, deve ridonargli la sua automia smarrita.

Il cambiamento positivo come elemento di guarigione da un momento di disagio emotivo o mentale può essere infatti visto come un recupero dell’autonomia perduta.

Nei momenti in cui infatti si vive un disagio psicologico tale autonomia di reagire al presente e all’esterno viene perduta ad appannaggio di schemi spesso nocivi ed autodistruttivi. Questi schemi ci fanno rispondere come se stessimo seguendo un copione che ci fa agire senza una reale consapevolezza del presente, ma filtrando il momento presente attraverso traumi ed eventi legati al nostro passato vissuto e psichico.

Recuperare l’autonomia significa anche cambiare i nostri automatismi psichici, uscire da questo copione e riacquistare la consapevolezza e la spontaneità di reagire al presente solo in funzione del presente senza sovraccaricarlo di significati e carichi emotivi inibenti.

Il cambiamento non è una formula magica o un evento mistico, ma una pratica alla portata di tutti. Il terapeuta deve restituire al paziente la propria capacità a cambiare e ad approcciarsi con consapevolezza ed autonomia al presente.

Tuttavia bisogna sottolineare come questi approcci pongano la centralità assoluta dell’autonomia del paziente, dunque dobbiamo intendere che il processo di cambiamento può avvenire solo se questi sente in parte il bisogno o il desiderio di operare un cambiamento. Come già ripetuto più volte sarà infatti lui a dover operare tale cambiamento, il terapeuta potrà solo indicargli la via per farlo, insegnargli di nuovo a farlo.

Il cambiamento si inscrive infine in un ambito ri-decisionale, ovvero, come un superamento di un momento critico in cui si riacquistare la possibilità di decidere autonomamente per la propria vita, ma lo si fa con una nuova consapevolezza e in base a nuovi significati.

Benessere psichico e ambiente circostante
Bisogna però sottolineare che la Psicologia si è a lungo focalizzata solo sull’interiorità dell’uomo, sbilanciandosi troppo tra le emozioni e i processi interiori tralasciando spesso l’importante funzione e influenza che svolgono l’ambiente e l’architettura sulla nostra psiche e sulla nostra identità.

Possiamo infatti osservare come quella umana sia la specie con la più grande capacità di modificare l’ambiente circostante per adattarlo ai propri scopi e ai propri desideri, e come questo aspetto influisca la anche i processi mentali dell’uomo.

La psicologia ambientale e quella urbanistica ad esempio studino a il benessere umano in riferimento al suo rapporto con l’ambiente socio-fisico in cui si inserisce.

Quindi anche l’ambiente circostante, le nostre città, come le nostre case hanno un’influenza diretta sulla nostra psiche.

Inoltre è un fattore innegabile che esista una strettissima correlazione tra qualità dell’abitare, qualità della vita e benessere psicofisico. Insomma vivere in un ambiente che ha su di noi un influsso positivo e appagante può essere qualcosa che influenzi positivamente la nostra psiche.

Dunque appare necessario quando si progetta un ambiente o un edificio cercare di creare una qualità ambientale sia in termini percettivi che in termini di comfort ed utilità.

Ma quali sono gli elementi che determinano la qualità ambientale?
Innanzitutto l’armonia, ovvero un certo bilanciamento nella disposizione degli elementi architettonici o d’arredamento che determini un’organizzazione degli ambienti piacevoli alla percezione. In secondo luogo la comprensibilità dell’ambiente come chiarezza della disposizione fisica degli elementi in modo da rendere l’ambiente di facile fruizione dalla persona a cui è rivolto.

Tuttavia un altro elemento importantissimo quando si parla di qualità di un ambiente non può non essere che la componente affettiva. Se infatti un ambiente interagisce sull’indivuduo in maniera non solo funzionale, ma anche psichica questo deve essere considerato in anche sotto il punto di vista cognitivo-affettivo.

I luoghi possono essere dei veri e propri veicoli di emozioni e sensazioni e portano con sé oltre che alle caratteristiche fisiche, le attività che si svolgono all’interno di esso, le rappresentazioni cognitive delle persone che li abitano ed i ricordi che in esso si costruiscono.

Se un luogo quindi non si riduce all’esistenza di una mera entità spaziale, ma è considerato come centro in interazione con gli impulsi psichici degli individui possiamo iniziare a comprendere a partire da questo concetto la centralità della casa per il benessere psicofisico di un individuo.

La casa ed il benessere psicofisico: quando ristrutturare può aiutare a riacquistarlo
La casa è una sorta di nido spaziale della nostra interiorità psichica. Qui torniamo dopo i nostri impegni, il nostro lavoro, le nostre giornate. Nei suoi ambienti costruiamo i nostri progetti ed i nostri desideri e in essa accumuliamo gli oggetti insieme ai ricordi ed ai pezzi di vita.

Quando qualche evento o situazione compromette il nostro equilibrio psichico la casa può dimostrarsi tanto culla nella quale rifugiarsi e riacquistare la propria serenità lontani dalle fonti di disagio, quanto un mare spaventoso e in tempesta nel quale si amplifica il nostro disagio interiore.

Sono tanti gli eventi della vita che possono farci perdere la bussola: una perdita di una persona cara, una separazione, un cambiamento nel nostro sentire che non ci fa più incontrare noi stessi e sentire smarriti. Cosa succede se l’ambiente in cui viviamo smette di rappresentare i nostri sogni, i nostri progetti, il nostro rifugio, i nostri desideri? Cosa succede se la nostra casa appare come qualcosa che non ci appartiene più, come qualcosa di ancora troppo saldamente ancorato ad un passato che ci impedisce di andare avanti, di cambiare e di superare una crisi?

La nostra casa può infatti essere un elemento esterno che ci trattiene verso quel fondo indefinibile della nostra psiche che si frappone tra noi ed un necessario cambiamento. Carica di ricordi dolorosi, di elementi che non riconosciamo più come nostri, o di angoli che ci ricordano un doloroso abbandono.

In questo caso l’idea di ristrutturare casa di cambiarne qualcosa all’interno del suo assetto potrebbe essere un primo passo per riacquistare la propria consapevolezza ed autonomia, un primo passo verso il cambiamento.

Infatti attraverso una ristrutturazione dell’appartamento o un cambiamento all’interno della nostra casa potremo porre le basi per creare uno spazio che ricominci a significare per noi un luogo di qualità, qualcosa a partire dal quale possiamo trovare la forza per ristabilire un equilibrio perso.

Se infatti, ad esempio, si perde una persona a noi cara, o un compagno ci abbandona, ristrutturare casa significa porre le basi per superare quell’evento attraverso la definizione di una possibile progettualità futura di cui noi diventiamo fautori. Questo significa liminare ricordi dolorosi senza cancellarli, ma privandoli della loro carica inibente sulla nostra vita, renderci conto che siamo i fautori delle nostre emozioni e gli unici che possono fronteggiarle e determinarle.

Sarà invero necessario fermarsi a riflettere su noi stessi e sui nostri desideri, per comprendere come plasmare un ambiente che possa tornare ad essere per noi gradevole da vedere, vivere, e abitare. Sarà necessario tornare a domandarsi cosa davvero conta per noi e mettere sé stessi al primo posto insieme ai propri desideri, così come potrebbe rivelarsi necessario liberarsi di oggetti e cose che ci ancorano pesantemente a un passato doloroso, fatto di immobilismo, che da tempo ci ha portato a ripiegarci su sé stessi.

Certo ristrutturare una casa, ridipingere una stanza, cambiare dei mobili nella nostra casa non è ovviamente un rito taumaturgico di guarigione, ma potrebbe essere un primo passo per uscire da quel copione che ci impediva di vivere la nostra vita in autonomia e consapevolezza, di operare quel cambiamento necessario per la riappropriazione del nostro equilibrio.

Se infatti l’adattamento definisce l’equilibrio tra uomo ed esterno e questo equilibrio può essere perso è necessario uno sforzo consapevole e continuativo per riacquistarlo. E se anche i luoghi con la loro carica emotiva e cognitiva sono in grado di influenzare la nostra psiche ed i nostri cambiamenti, la nostra casa, il nostro nido, è sicuramente quello in grado di farlo più potentemente.

Mettere sé stessi al primo posto ed imparare di nuovo a sentire la propria voce e la propria individualità per costruire qualcosa, mettendo talvolta tra parentesi il passato è quello che può portarci a fare una ristrutturazione. E forse a partire da meri pensieri sul colore delle pareti o sul tavolo più adatto alla nostra cucina, potremmo riuscire ad imparare di nuovo ad ascoltare noi stessi, a trovare di nuovo la forza ed il coraggio per cambiare qualcosa, ad uscire dall’immobilismo e a stracciare il copione.

Marketing: tutto parte dal cervello

Le scienze sociali e in particolar modo l’economia per molto tempo hanno predicato il concetto di homo oeconomicus, insegnandoci che l’attore economico si comporta inesorabilmente come un massimizzatore di profitto, unicamente interessato al calcolo dell’utilità. La realtà ci ha mostrato molto spesso che le decisioni non vengono prese razionalmente, anzi sono proprio le emozioni ad essere decisive nel processo decisionale e che probabilmente quello dell’homo oeconomicus è un mito. Tuttavia questa teoria ha funzionato per molto tempo e ha ancora molti estimatori.

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È ancora frequente trovare persone che trattano le scienze sociali alla stregua delle scienze esatte, tralasciando il fatto che, laddove c’è di mezzo la libertà umana non può esserci esattezza.

Crollato il mito dell’homo oeconomicus cosa resta? Probabilmente l’uomo vero colto nella sua immensa complessità irriducibile a uno schema, ma questo non significa che il processo decisionale, poiché non disciplinato dalla ragione, sia del tutto imprevedibile. Qui non vogliamo fare filosofia, ma vogliamo solo mostrare come oggi le neuroscienze entrano prepotentemente nel mondo delle scienze sociali e gli offrono una nuova luce.

Sapere come funziona il cervello, o meglio sapere come reagisce a determinati stimoli e come questi orientano le nostre decisioni, è un vantaggio competitivo che ogni esperto di marketing non può lasciarsi sfuggire.

Il marketing pervade ogni cosa, dalla politica all’economia, dall’arte all’informazione: tutto è marketing! Oggi ad un esperto di marketing non basta saper analizzare solo il mercato e conoscere le tecniche di vendita, deve avere anche competenze di filosofia, sociologia, neuroscienza ecc… Sì, perché quando si ha a che fare con il cervello le cose cambiano e molto, perché il cervello non è un organo statico, ma una straordinaria macchina semantica che cresce su se stessa, per cui quello che funzionava ieri potrebbe non funzionare oggi.

Sempre più spesso sentiamo così parlare di neuromarketing, una parola che destra stupore e tremore. Sia chiaro, le tecniche di vendita hanno sempre funzionato perché sfruttavano a loro vantaggio le modalità di funzionamento del cervello, ma ora sapere che basta una tac o una risonanza magnetica per vedere se una campagna funziona o meno ci fa sentire un po’ topi da laboratorio. La prima volta che sentii parlare di neuromarketing fu nel 2010 leggendo un articolo su focus di Eugenio Spagniuolo: http://www.focus.it/tecnologia/cosi-ci-spingono-a-comprare_C12.aspx, e rimasi molto scosso anche se l’articolo terminava con una rassicurazione, che suonava un po’ così: “quante più aziende conosceranno i nostri bisogni e i nostri desideri inconsci, tanto più utili potranno essere i prodotti che potranno mettere sul mercato”. Curioso il fatto che la parola utile, che avevamo liquidato all’inizio, torni ad essere protagonista della discussione in una rinnovata veste, spostando dal consumatore al produttore il testimone dell’utilità. Quindi quell’attore economico che si comporta come il massimizzatore del profitto e che opera razionalmente interessato al calcolo dell’utile, non è il consumatore sempre più governato dalla propria amigdala, ma il produttore che sempre più razionalmente crea prodotti o servizi atti soddisfare i sempre nuovi bisogni che si producono.

Bisogna chiedersi cosa significa tutto questo: da una parte vediamo un consumatore sempre più emotivo che partecipa, consapevolmente o inconsapevolmente al processo di produzione, dall’altra un produttore sempre più razionale che ascolta e asseconda sempre più i bisogni del consumatore. Qualche anno fa se volevo acquistare un libro andavo in libreria, oggi vado su Amazon, se volevo un paio di scarpe o una maglietta mi facevo una passeggiata in centro e cercavo qualche bel negozietto dove provavo tante cose, oggi vado su Zalando, se voglio acquistare musica vado su iTunes (e mi fermo qui perché la lista sarebbe lunghissima). Il progresso cambia le abitudini, cambia la visione del mondo. I ragazzi, i nativi digitali, vivono tutto questo in maniera naturale, chi invece è nato quando i computer non esistevano rimane spiazzato di fronte a tutto questo. Il cambiamento mette sempre paura e ogni epoca ha sempre visto con diffidenza e terrore i grandi cambiamenti. Siamo in un’era di grandi e continue rivoluzioni, i tempi si sono accorciati drasticamente e questa crisi insuperabile che ci avvolge è la semplice testimonianza di un rapporto tra tempo e pensiero che si risolve diversamente da come lo abbiamo conosciuto nel passato. Prima era possibile seguire i percorsi già tracciati, oggi i modelli invecchiano subito e bisogna avere l’abilità di tracciare sempre nuove strade, un tempo che ci chiama a spostare la nostra prospettiva dalle procedure ai significati. Il futuro ci riserverà grandissime sorprese, e il nostro cervello sarà sempre capace di crescere e raccogliere le nuove sfide, il fatto che la scienza e la tecnologia vengano in aiuto al marketing non deve spaventarci perché, per quanto si possano inventare sempre nuove tecniche di persuasione e di manipolazione, il nostro cervello riuscirà sempre a superarle. I nostri comportamenti sono sempre stati prevedibili, tuttavia non siamo mai sottomessi a questa prevedibilità.

Valerio Tedeschi
11 giugno 2014

Convegno sulla filantropia a Milano

Gli anni Dieci, gli anni della crisi economica mondiale, sono paradossalmente anche gli anni del boom della Venture Philantrophy, la moderna dimensione della filantropia che si declina attraverso donazioni mirate e concrete, volute generalmente da magnati dell’imprenditoria multimilionari, con l’obiettivo di “restituire alla società” parte delle proprie fortune.

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La mera donazione di denaro si è tramutata oggi in un vero e proprio investimento aziendale per la realizzazione di opere concrete che migliorino la vita della comunità, con benefici sul lungo periodo che alla larga ricadranno anche sugli stessi finanziatori.

E’ il fenomeno della “filantropia catalitica” raccontato da Bill Gates, senza dubbio uno dei più importanti filantropi del mondo, che spiega come il restituire al mondo parte delle proprie fortune porti giovamento non solo ai beneficiari, ma anche agli stessi filantropi, che avranno appagato il proprio senso del dovere e avranno contribuito a rigenerare un’economia traballante, per la gioia delle stesse imprese.

Anche in Italia il fenomeno della filantropia è ormai dilagante, tanto che le più grandi aziende di casa nostra stanno riservando degli interi comparti all’individuazione, gestione e realizzazione di opere filantropiche.

Finanziare a partire dai risultati, non dalle attività”

Nei giorni scorsi a Milano si è svolto un convegno dedicato proprio alla Venture Philantrophy, organizzato dalla Fondazione Lang Italia e svoltosi presso la sede della Fondazione Umanitaria di Milano. Ospite d’onore della convention, che ha visto la partecipazione di oltre 200 persone, è stato l’imprenditore Mario Morino, passato dall’eclatante successo impresariale degli anni Ottanta all’altrettanto grande successo delle fondazioni filantropiche da lui fondate.

La tavola rotonda, moderata dalla giornalista del Corriere della Sera Maria Teresa Cometto, ha ospitato i rappresentati di grandi fondazioni italiane dedite alla filantropia, dalla Fondazione De Agostini alla Fondazione Paideia, da Oxfam Italia a Bank Vontobel.

Un punto molto importante su cui tutti i relatori si sono trovati d’accordo, è la necessità di incrementare gli interventi benefici:

“Il Privato socialmente responsabile – ha detto Tiziano Tazzi, Presidente della Fondazione Lang Italia – e, in particolare, le Fondazioni che supportano le organizzazioni no profit che si occupano di assistenza in vari campi, sono, nell’attuale situazione di crisi, ancor più sollecitati ad ampliare i loro interventi, in presenza però di risorse scarse. Occorre perciò rivedere i criteri con cui vengono gestiti i fondi pubblici e privati dalle non profit, partendo dall’individuazione dei leader, che nel loro specifico campo di intervento hanno dimostrato di saper combinare al meglio l’efficacia sociale con l’efficienza economica”.

Proprio per questo i finanziamenti andrebbero erogati partendo da un’attenta progettazione, che valuti i risultati da ottenere piuttosto che le singole attività.

Questo nuovo modo di concepire la beneficenza, e dunque portare risultati concreti, è stato abbracciato anche da Francesco Corallo, il re italiano delle slot machine, che da anni dedica tempo e risorse per portare servizi, infrastrutture e supporto tecnologico nei luoghi del mondo dimenticati dall’uomo, compiendo ogni anno dei viaggi filantropici che documenta e racconta sul suo blog personale, monitorando costantemente l’evoluzione concreta delle opere da lui finanziate e supportandone l’attività.

Sulla scia filantropica di Corallo operano anche altri imprenditori italiani, il cui operato segue fondamentalmente una linea comune, che la Venture Philantrophy Partners ha codificato in sei regole di base, sei forme di sostegno attivo di cui si è parlato ampiamente anche durante la conferenza di Milano:

  • Alto grado di Coinvolgimento, partecipazione alle decisioni pià importanti dell’organizzazione non profit sostenuta);
  • Finanziamento su misura, che può essere una donazione vera e propria oppure un prestito, la garanzia sui prestiti di terzi, o ancora un contributo in conto capitale;
  • Sostegno Pluriennale, ossia un’attività filantropica di lungo periodo, (generalmente dai 3 ai 7 anni);
  • Sostegno Non Finanziario, applicato direttamente al management dell’Organizzazione non profit tramite consulenza;
  • Sostegno alla crescita, un approccio che punta a sostenere un’intera struttura organizzativa attraverso la ricerca di un leader (manager) e la sua formazione;
  • Misurazione della Performance, stabilita insieme all’ organizzazione supportata, per individuare i risultati conseguiti (detti outcomes).

Valerio Tedeschi

Dal telefono allo smartphone: l’evoluzione passa agli occhi?

Il passaggio evoluzionistico della telefonia mobile diviene stendardo di trionfo del progresso tecnologico. Dai telefoni cubitali al nuovo htc one mini il futuro dove si concentrerà? Google apre nuove aspettative, Glass la risposta.

Glass. I nuovi occhiali proposti da Google: leggeri, resistenti e versatili. Un vero gioiellino dell'era 2.0. Comunica in tempo reale, avvia videochiamate, condividi sui social network.
Glass. I nuovi occhiali proposti da Google: leggeri, resistenti e versatili. Un vero gioiellino dell’era 2.0. Comunica in tempo reale, avvia videochiamate, condividi sui social network.

Grande, scomodo, duro e pesante: erano proprio così i primi telefoni, dei mattoni da esibizione che, almeno oggi, altro non provocherebbero che un beffardo sorriso in tutti noi.

L’evoluzione delle tecnologie ha permesso a quel grande mattone di rimpiccolirsi diventando, anno su anno, sempre più piccolo, pratico e talvolta comodo. Poi il passaggio radicale, non solo telefonate e costosi messaggi ma una vera e propria nuova idea di concepire il telefono: lo smartphone. Un pratico computer “ridotto” sia in prestazioni, funzioni che dimensioni ma estremamente funzionale per quelle che, ad oggi, consideriamo funzioni primarie: scrivere mail, inviare messaggi tramite programmini istantanei, comunicare in tempo reale grazie ad un piano dati.

Migliaia di funzioni a portata di palmo, una miriade di porte per soddisfare i più iracondi bisogni: dai videogiochi alla comunicazione, da operazioni di lavoro a vere e proprie professioni svolte in gran parte su di esse, conservando poi, integralmente, tutte le funzioni di un normale telefono.

È dunque questo il fenomeno smartphone, un fenomeno conteso da tre grandi Pilastri: Google, con il sistema operativo Android, Microsoft con Windows Phone e Apple con iOS.

Quando tre colossi si contendono un primato è inevitabile una forte spinta nel settore novità portando ad una costante ricerca di innovazioni in grado di rivoluzionare, positivamente, il mercato smartphone. E se il leader del mercato mondiale resta Android, le battaglie interne – tra le case potduttrici di smparthone – sembrano non esser da meno Google e Asus presentano i nuovi modelli Nexus, mentre – la vera battaglia – è Galaxy S4 vs HTC One.

Di tendenza ed estrema comodità è senz’altro la funzione vocale, integrata ormai su buona parte degli Android. De facto, la medesima Google, ha ormai introdotto i “Google Glass”, degli occhiali aventi un microschermo integrato. Qualcosa che tenta di rivoluzionare l’idea di telefono e di smartphone andandosi ad integrare comodamente come un paio d’occhiali in grado di: comunicare in tempo reale (non solo tramite chiamata, ma persino tramite webcam: voi vedete loro e loro ciò che state guardando voi), di interagire senza l’uso delle mani (con soli comandi vocali), di scattare foto e fare video, di condividere in tempo reale sui social network ed una serie di altre funzioni già predisposte dalla stessa Google, o customizzabili con comode App scaricabili online.

Valerio Tedeschi
9 agosto 2013

Cordless green: ridurre le conseguenze dannose delle onde elettromagnetiche

onde-elettromagneticheMolti studi sono stati condotti negli ultimi anni sulle onde elettromagnetiche emesse da telefoni cellulare e cordless (così come dalla reti wi-fi), ma nessuno di questi ha potuto fornire dati certi e univoci.

Il problema è definire il contesto della ricerca:

–          È innanzitutto difficile identificare il target dell´utilizzatore abituale di tali dispositivi: alcune ricerche lo identificano con chi fa almeno una telefonata alla settimana e almeno per 6 mesi, ma molto può cambiare a seconda ad esempio di dove vengono effettuate queste telefonate.
–          In secondo luogo i danni eventualmente causati al cervello da tali onde (si parla in particolare di uno specifico tipo di tumore al cervello) hanno tempi di sviluppo molto lunghi, dai 20 ai 30 anni. E considerando quindi che l´utilizzo dei cellulare si è diffuso negli anni 90´, i campioni esaminati potrebbero non essere adatti.

I risultati delle ricerche finora condotte sono stati, per questi ed altri motivi, contraddittori tra di loro insieme alle notizie riportate dai media e ai pareri ufficiali pubblicati dalle istituzioni della salute pubblica.

Ciò che di certo si è potuto stabilire è il collegamento, se non altro potenziale, tra l´esposizione prolungata alle onde elettromagnetiche e il formarsi di tumori nella parte della testa più esposta alle onde – qui le ultime cure per i tumori al cervello.

Esistono quindi degli accorgimenti da osservare per ridurre questi effetti dannosi:
–          Utilizzare il più possibile l´auricolare per le telefonate, prolungate e non; anche per evitare il fastidioso riscaldamento delle parti interessate
–          Tenere sempre l´apparecchio lontano dalle parti delicate, come la testa e i genitali
–          Evitare le telefonate all´interno di auto, treno e metropolitana (gli abitacoli metallici riflettono infatti le onde, aumentandone la potenza)
–          Spegnere il telefono durante la notte (e il computer)
–          Tenere lontani i bambini sotto 14 anni dai telefonini (più sensibili alle onde)

Alcune case produttrici di telefoni cellulari e cordless hanno inoltre pensato a delle tecnologie apposite per ridurre tali onde dannose.

I modelli di telefoni cordless Gigaset ad esempio sono dotati di tecnologie ECO Plus ed ECO DECT: le emissioni di onde radio vengono ridotte fino al 100 percento e inoltre il consumo di energia elettrica è ridotto fino al 60 percento rispetto a un cordless tradizionale.

Valerio Tedeschi
24 giugno 2013

Profiloplastica: rinoplastica e mentoplastica insieme

profiloplasticaIl viso è senza dubbio la parte più evidente del nostro corpo, quella che è sempre esposta, in ogni stagione e in ogni momento. Per questo la regolarità dei lineamenti del viso è ritenuta estremamente importante, ed è sul viso che si concentrano i maggiori interventi di chirurgia estetica. Il volto deve infatti presentare una giusta proporzione tra tutti i suoi elementi, ovvero fronte, naso, occhi, guance, bocca e mento.

Naturalmente questo è un discorso generico, il mondo è bello proprio perché è vario e spesso dei piccoli difetti al volto possono diventare interessanti segni distintivi. La strada della chirurgia plastica è da scegliere nei casi di inestetismi che provochino senso di disagio nella persona, che siano insomma fonte di imbarazzo e di fastidio.

La rinoplastica, ovvero l’intervento di chirurgia estetica al naso, è uno degli interventi più richiesti in assoluto, proprio per il ruolo preminente del naso all’interno del volto. A volte però, per ottenere un lavoro ben fatto, e un bel profilo, si può scegliere di abbinare alla chirurgia al naso anche un’operazione di mentoplastica. I due interventi messi insieme (rinoplastica e mentoplastica) costituiscono di fatto un’operazione di profiloplastica, che va dunque a intervenire per modificare e migliorare nel complesso il profilo di una persona.

I chirurghi plastici più scrupolosi infatti non valutano più i singoli difetti, ma l’intero profilo nel suo complesso. In questo modo quindi possono progettare l’operazione più adeguata per conferire un aspetto naturale ed equilibrato a tutto il volto. Questo nuovo modo di operare implica un approfondito studio delle caratteristiche fisionomiche di ciascun paziente per decidere poi insieme le procedure chirurgiche più adatte per un volto ben proporzionato. La profiloplastica consente così risultati ottimali, proprio perché valuta il volto nel suo insieme e permette di rispettare l’armonia delle forme e soprattutto garantire un aspetto naturale che tenga conto di vari elementi come le particolarità del viso, il sesso e l’età del paziente.

La correzione dei difetti estetici con un intervento di chirurgia al naso quindi può essere abbinata a un intervento di aumento o riduzione della sporgenza del mento. Il problema della mandibola inferiore sporgente, detto prognatismo o, al contrario, un mento sfuggente, vengono risolti praticando un’incisione sulla mucosa interna del labbro attraverso la quale si procede alla riduzione ossea o all’inserimento di una protesi.

L’intervento di rinoplastica e quello di mentoplastica possono essere tranquillamente eseguiti insieme, grazie al progresso delle tecniche chirurgiche che permettono interventi meno invasivi e tempi di recupero più brevi. L’intervento viene realizzato in day hospital in anestesia locale con sedazione profonda e non dà luogo a cicatrici visibili, dato che si interviene dall’interno. Il risultato sarà un viso delle proporzioni ideali.

Valerio Tedeschi
19 aprile 2013

Riconosciuta con decreto l’efficacia dei farmaci a base di cannabinoidi

farmaci-cannabinoidiIl decreto è di gennaio, per l’esattezza del 23 gennaio 2013, e la sua pubblicazione divulgata con la Gazzetta Ufficiale dell’8 febbraio, dalla quale si evidenzia il riconoscimento, da parte del Ministero della Salute, della Cannabis come farmaco.

Questo ulteriore passo nell’ambito dell’impiego medico di sostanze psicoattive, come in primo luogo la cannabis, è assolutamente di rilevante importanza, in quanto, dopo aver assistito negli ultimi mesi a livello locale ad iniziative di successo dei vari consigli regionali riguardo alla possibilità di utilizzare cannabinoidi per fini terapeutici, il mese scorso è giunto questo significativo ed ulteriore atto da parte del Ministro Balduzzi.

La conoscenza e gli studi sui semi di cannabis femminizzati, sui vari ceppi della canapa e sulle proprietà palliative della cannabis sono ormai noti da molto tempo ed evidenti a tutti; il riferimento è naturalmente a quelle peculiarità che sono molto utili nell’alleviare il dolore dei pazienti durante il trattamento di diversi tipi di malattie, quali sclerosi multipla e tumori, e nel contribuire a guarire patologie come la disfagia o a combattere altri disturbi come l’ansia. Particolarmente significativo è il fatto che, come recita il decreto, i medicinali di origine vegetale a base di cannabis siano stati inseriti nella Tabella II, sezione B, ovvero quella in cui sono presenti le sostanze considerate a minor rischio di dipendenza e abuso.

Ciò significa che il testo del provvedimento legislativo, sostenuto anche dal parere autorevole del Consiglio Superiore di Sanità e dall’Istituto Superiore di Sanità, conferma quanto diversi esperti e addetti ai lavori avevano già sostenuto: la cannabis non può essere considerata alla stessa stregua delle altre droghe più pesanti e nocive.

Indubbiamente una buona notizia, dunque, in particolar modo per tutti quei malati che d’ora in avanti, nel richiedere ed ottenere i farmaci di cui necessitano, troveranno verosimilmente davanti a loro molti meno ostacoli e procedure più snelle ed adeguate, oltre che tempistiche ragionevoli.

Come ci si aspettava, il decreto è stato un’ulteriore occasione per rinverdire e rinvigorire il dibattito relativo alla marijuana, che vede due diverse fazioni e punti di vista distinti; come sempre il punto di incontro più giusto e ragionevole si trova nel mezzo. Se da una parte, infatti, sarebbe completamente privo di senso rinunciare all’aiuto che determinati farmaci possono dare per lenire le sofferenze di persone malate, dall’altra non bisogna porre sullo stesso piano l’uso medico con un utilizzo personale e scriteriato della cannabis, la quale, pur essendo una droga leggera assolutamente non paragonabile alle sostanze veramente dannose per il nostro organismo, può rappresentare, in determinati contesti e per individui con certe problematiche psicologiche, il primo passo verso un utilizzo di droghe più pesanti.

Proprio per questo motivo, per una maggiore responsabilizzazione e regolamentazione, ma senza cadere nel proibizionismo, sarebbe probabilmente opportuno iniziare a legiferare anche in questo senso, proprio come è stato fatto a proposito dei farmaci in ambito medico, in un periodo in cui, in Italia, è già fattibile e tutt’altro che impossibile procurarsi semi di marijuana autofiorenti per la coltivazione, vaporizzatori per il fumo e altre sostanze psicotrope di origine vegetale.

Valerio Tedeschi
26 febbraio 2013