OGM: i Nobel contro Greenpeace

I Nobel sono per gli OGM. Si sa. Non è infatti la prima volta che ne prendono le parti. Ma ora la questione sembra farsi più scottante. 107 premi Nobel (su 296 ancora viventi) scrivono a Greenpeace, alzando di molto i toni della tanto tormentata discussione intorno agli organismi geneticamente modificati. Ne fanno addirittura una questione di vita o di morte, alludendo (nel finale di lettera) a un possibile rischio di genocidio contro l’umanità se si continuasse a perseverare sulla via del no.

Waag Society
Waag Society

Si pensi alla carenza di vitamina A nell’alimentazione (chiamata VAD – Vitamin A Defiency -),  causa ogni anno tra uno e due milioni di morti (dati Unicef). Patologia alla quale si potrebbe porre un freno coltivando Golden Rice (riso dorato), una particolare specie che, grazie alla modificazione genetica, apporterebbe all’alimentazione di milioni di persone una quantità di vitamina A sufficiente a evitare l’insorgenza della VAD appunto. Introducendo infatti due geni esogeni nel DNA della parte commestibile del riso, sarebbe possibile innescare la biosintesi metabolica del precursore beta-carotene della provitamina A.

Greenpeace, però, continua a opporsi con fermezza contro l’inquinamento genetico, ritenuto una seria minaccia per la biodiversità e le coltivazioni tradizionali. In realtà non esistono studi scientifici che supportino la lotta contro gli organismi geneticamente modificati. È di maggio scorso uno studio estensivo di 420 pagine, curato dalla National Academies of Sciences, Engineering and Medicine, che esclude rischi per la salute umana derivanti dal consumo di OGM ed evidenze conclusive di causa-effetto su problemi ambientali.

Sebbene non siano stati condotti studi epidemiologici per valutarne gli effetti a lungo termine, la minore esposizione ai pesticidi e il maggior apporto nutrizionale legati alla modificazione genica porterebbero solamente benefici alla salute umana e alla salvaguardia della biodiversità ambientale. Si pensi, ad esempio, a Norman Borlaug, premio Nobel per la pace nel 1970. Nanizzando il frumento, a partire da una varietà sintetizzata dal nostro Nazareno Strampelli, riuscì a creare coltivazioni più resistenti alla siccità, avviando quella rivoluzione verde che tra gli anni Quaranta e Settanta del Novecento permise di affrontare senza difficoltà il crescente aumento della popolazione mondiale. In quel caso la modificazione genetica del frumento ebbe la capacità di innescare una vera e propria rivoluzione, consentendo a molti paesi poveri di coltivare una specie adatta alle difficili condizioni climatiche del proprio territorio.

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In Italia la posizione dei Nobel non si è discostata di molto da quella espressa nella lettera a Greenpeace. Nel 2001 il quotidiano “La Stampa” pubblicò il manifesto Libertà per la scienza a firma di 1150 studiosi. Guidati dai Nobel Renato Dulbecco e Rita Levi Montalcini, il loro intento fu quello di salvare la ricerca italiana in materia di organismi geneticamente modificati. Senza successo, però. L’Italia rimase ferma nella sua posizione di assoluta negazione degli OGM. E ancora oggi la coltivazione sul nostro territorio ne è assolutamente bandita.

Chissà se a livello mondiale i Nobel riusciranno a spuntarla. O la battaglia contro l’ingegneria genica segnerà la morte definitiva dell’innovazione in campo agricolo.

Super batteri vs antibiotici: 1 a 0

I super batteri protagonisti di un film di successo? Sarebbe possibilissimo nell’industria cinematografica di Hollywood: il cattivo venuto a minacciare la sicurezza dell’umanità; quest’ultima capace di salvare in qualche modo le sorti del pianeta Terra. Forse un giorno potremo pagare il biglietto per uno sci-fi apocalittico, magari intitolato “super batteri vs antibiotici”.

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National Institutes of Health (NIH)

Ora, accontentiamoci della realtà. Perché i super batteri esistono davvero, ma l’uomo purtroppo non è ancora un eroe da saga cinematografica. Anzi, potremmo dire che lui stesso abbia contribuito in larghissima parte alla nascita di questi piccoli e pericolosi micro organismi. È in corso, infatti, una sorta di vendetta della natura: il corpo umano che reagisce al cattivo uso dei medicinali. Soprattutto antibiotici. Utilizzati erroneamente per curare malattie respiratorie o infezioni urinarie (entrambe di origine virale), il loro abuso ha contribuito al declassamento “forzato” del principio attivo, non più in grado di attaccare i batteri contro i quali erano stati pensati i farmaci. Risultato: micro organismi liberi di mutare geneticamente, acquisendo una forza tale in grado di neutralizzare l’azione di qualsiasi medicinale. Guai futuri, quindi. Non solo per la salute, ma anche per le tasche dei pazienti. Le aziende farmaceutiche si stanno infatti già impegnando a studiare nuove formule, ma è notizia recente di una donna americana trovata positiva alla escherichia cali, batterio resistente a tutti gli antibiotici conosciuti. Compresa la colistina, ultima spiaggia contro i batteri più difficili da neutralizzare, i cosiddetti “nightmare bacteria”.

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EMSL

Già nel 2014 l’economista Jim O’Neill aveva allarmato con una apocalittica previsione: entro il 2050, 10 milioni di persone uccise da infezioni resistenti ai farmaci. Scenario non molto lontano dalla realtà, purtroppo. Se teniamo presente anche il larghissimo consumo di carne a livello mondiale. Ebbene sì, perché non si tratta soltanto di un problema prettamente medico. L’uso di antibiotici negli allevamenti intensivi per prevenire focolai di epidemie o curare malattie del bestiame ha effetti anche sulla salute dell’uomo. I batteri presenti nel tratto gastro-intestinale del bestiame possono infatti contaminare il cibo macellato e l’ambiente circostante. Contribuendo così ad accentuare la problematica batterica legata all’abuso di antibiotici per problematiche strettamente mediche.

Il fenomeno dell’antibiotico resistenza preoccupa anche l’Italia, che si mantiene molto al di sopra della media europea. Stando ai dati dell’Istituto Superiore di Sanità (sorveglianza dell’Antibiotico Resistenza), è nel centro e nel sud del paese che si registra la situazione più preoccupante. I numeri italiani parlano di una forte resistenza soprattutto ai carbapenemi, ultima frontiera per i patogeni multi resistenti. Mentre, per quanto riguarda lo staphylococcus aureus resistente alla meticillina, nel solo 2013 l’Italia si è attestata addirittura al 36%, superando di ben 11 punti i 7 paesi UE su 30 che hanno segnalato percentuali maggiori rispetto alla media comune.

Prepariamoci, quindi, a una dura battaglia contro i super batteri. E chissà che dal cinema non possa venire una soluzione a questa guerra appena iniziata.

Elisa Scarlingi

Le donne preferiscono gli antibiotici

L’omeopatia sta gradualmente passando di moda. L’incidenza di coloro che hanno preferito alla medicina tradizionale l’omeopatia è scesa, infatti, in Italia, dal 7% del 2005 al 4,1% del 2013 (dati Istat). Si assiste, invece, a un forte rialzo nell’uso di antibiotici. +27% di prescrizioni, secondo uno studio coordinato dall’infettivologa Evelina Tacconelli (prestata all’Università tedesca di Tubingen) e uscito sul Journal of Antimicrobial Chemotherapy, che ha analizzato 11 studi sulle prescrizioni effettuate in Italia, Danimarca, Regno Unito, Spagna, Israele, Germania, Nuova Zelanda, Svezia e Belgio.

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Carattere comune ai due piatti della bilancia il genere e l’età di coloro che ne fanno maggior uso. Sono infatti le donne tra i 35 e i 54 a preferire gli antibiotici (+40%), usati soprattutto per curare le infezioni delle vie respiratorie. E sono sempre loro, questa volta fino ai 44, a superare gli uomini nell’uso di rimedi omeopatici (7,3%).

Entrambe le soluzioni, però, non rivelano nulla di buono. Prima di tutto perché l’abuso di antibiotici provoca l’insorgenza di batteri resistenti a infezioni molto comuni. Questi ultimi, infatti, sviluppano una tale capacità di adattamento a condizioni ambientali differenti, da provocare nelle infezioni stesse un mutamento: da “comuni” si trasformano in nuovamente “letali” per tutti i soggetti che ne hanno sviluppato, appunto, la resistenza da abuso di antibiotici. Tanto che, molti concordano nel definire l’epoca odierna come “era post-antibiotica”, durante la quale infezioni curate per decenni con successo (colera, tifo, tubercolosi) potrebbero nuovamente uccidere, a causa appunto del dilagare di “superbatteri” con una specifica “antibiotico-resistenza”. Tutto questo causato, semplicemente, da una falsa percezione degli antibiotici, utilizzati senza cautela e per curare sintomi facilmente curabili senza il loro utilizzo.

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Per quanto riguarda, invece, le cure omeopatiche la questione è ancora molto dibattuta. Se a consigliarne l’uso sono soprattutto farmacisti (22,6%) e amici (21,7%), la comunità scientifica (italiana, e non solo) rimane ancora molto scettica (solo il 15% dei medici di base e il 14% degli specialisti consiglia ai propri pazienti di utilizzare prodotti omeopatici). Stando ai dati europei, sarebbero 100 milioni, solo nel vecchio continente, coloro che preferiscono la medicina alternativa (omeopatica) a quella tradizionale, con picchi in Francia e Germania. In Italia, piazzata al terzo posto della classifica europea, l’omeopatia rappresenta un metodo di cura preferito soprattutto nel nord del paese (Bolzano e Trentino in testa), con una maggiore incidenza tra coloro che hanno un’istruzione superiore (e un tenore economico abbastanza elevato, dato che il costo dei prodotti omeopatici è a totale carico dei consumatori).

La questione “omeopatia sì – omeopatia no” deriva fondamentalmente dalle sue origini “scientifiche”. Si tratta, infatti, di una preparazione alchemica che, attraverso un complicato meccanismo di diluizione e dinamizzazione, trasformerebbe il “veleno” della sostanza attiva in “farmaco” omeopatico. Spesso però in questi prodotti è molto difficile trovare traccia di sostanze attive, a causa della loro forte diluizione. Senza contare l’assenza di studi scientifici validi a supporto di questa metodologia alternativa, nata alla fine del XVIII secolo dalle formulazioni del medico tedesco Samuel Hahnemann. La stessa Organizzazione Mondiale della Sanità, nel 2009, promosse una campagna per l’Africa, condannando l’uso di rimedi omeopatici per la cura di patologie come l’HIV, la tubercolosi e la malaria, in quanto questa non rappresenterebbe una cura e non apporterebbe alcun beneficio.

Elisa Scarlingi

Epilessia: per l’Italia possibile in futuro una riduzione delle crisi

CCL2. Ecco il nome della molecola che potrebbe cambiare la qualità della vita di molti pazienti affetti da epilessia. E ridare nuova speranza a persone che ancora oggi vivono spesso situazioni di isolamento sociale, dovute alla secolare stigmatizzazione di una malattia (l’epilessia appunto), conosciuta già all’epoca dei babilonesi e spiegata come espressione soprannaturale.

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© Thompson Rivers

Uno studio tutto italiano, condotto dal Centro di Biologia integrata CIBIO dell’Università di Trento e dall’Istituto di Neuroscienze del CNR di Pisa, ha aperto la strada alla sperimentazione di nuove terapie contro l’epilessia, disturbo cronico (e non trasmissibile) che colpisce il cervello. La CCL2, una proteina della famiglia delle chemochine (piccole molecole che vengono rilasciate dalle cellule per influenzare il funzionamento delle altre), avrebbe infatti un effetto scatenante sull’insorgenza delle crisi epilettiche. Bloccandone l’eccessiva produzione da parte delle cellule gliali (comunemente soprannominate “il collante del sistema nervoso”), mediante l’uso di farmaci già disponibili e di nuovi da sperimentare, si potrà ridurre il numero delle crisi, agendo appunto su una delle molecole che ne stimolano l’insorgenza.

Solo nel nostro paese, secondo la Società Italiana di Neurologia, sono 500mila le persone che soffrono di epilessia. Di queste, l’80% è compreso nell’età infantile e adolescenziale. Rispetto al totale, almeno 125.000 pazienti soffrirebbero di una forma epilettica non rispondente alla terapia farmacologica. Nel mondo, stando ai dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, sarebbero invece 50 milioni le persone affette da epilessia, con forti concentrazioni (l’80% del totale) in paesi a basso o medio reddito, dovute a concause quali: presenza di condizioni endemiche come la malaria, alta incidenza di incidenti stradali, mancanza di infrastrutture mediche adeguate e di programmi di cura accessibili.

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© Intercongress GmbH

Il tipo più comune, cioè l’epilessia idiopatica, colpirebbe 6 persone su 10. Di questa, purtroppo, non esistono ancora cause identificabili contro le quali poter agire. L’epilessia secondaria, detta anche sintomatica, insorgerebbe, invece, in seguito a danni al cervello provocati da: lesioni prenatali,  malformazioni cerebrali, traumi cronici gravi, ostruzioni che limitano l’apporto di ossigeno al cervello attraverso il sangue, infezioni dell’apparato encefalico (quali meningiti o tumori).

La dicitura “crisi epilettica”, infatti, abbraccia una molteplice varietà di sintomi neurologici, tutti accomunati da una scarica elettrica anomala, sincronizzata e prolungata, di cellule nervose presenti nella corteccia o nel tronco cerebrale. Secondo l’International League Against Epilepsy e l’International Bureau for Epilepsy, “l’epilessia è un disordine del cervello caratterizzato da una duratura predisposizione nel generare crisi epilettiche e dalle conseguenze neurobiologiche, cognitive, psicologiche e sociali di questa condizione. La definizione di epilessia richiede il verificarsi di almeno un attacco epilettico”. Oltre ai tipi più comuni (l’epilessia primaria e secondaria), esistono, ad esempio, le cosiddette “crisi parziali semplici”, descritte come crisi focali durante le quali la coscienza e la memoria sono conservate. In questo caso, le scariche sono localizzate in centro nervosi autonomi, dando vita a sintomi quali: contrazioni muscolari da un lato del corpo, pallore, sudorazione, disagio nella regione addominale, sensazioni anomale di tipo visivo o uditivo, percezione di aver già vissuto (“déjà vu”) o mai vissuto (“jamais vu”) una particolare situazione.

Elisa Scarlingi

Bentornato pomodoro “Varrone”

OGM sì. OGM no. Il grande dilemma che fa pendere la bilancia verso pareri negativi. Spessissimo, infatti, il sentire comune si oppone all’utilizzo di questi organismi, confermando posizioni non supportate da fondamenta scientifiche. Si pensa che facciano male alla salute e all’ambiente, ma senza conoscerne le reali applicazioni (positive) per il comparto agricolo. Modificando il DNA di molti prodotti, ad esempio, è possibile ottenere piante resistenti ai pesticidi o ai parassiti e piantagioni che richiedono una ridotta quantità di acqua o un minor apporto di fitofarmaci. Miglioramenti che andrebbero quindi a favore dell’alimentazione, riducendo l’utilizzo di sostanze chimiche con una netta diminuzione dei costi di produzione.

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Ma anche nel nostro paese vince la fazione dei no, supportata dal mondo politico. In realtà molti non sanno che già durante il regime fascista l’Italia coltivava prodotti geneticamente modificati. Grazie infatti a Nazzareno Strampelli (agronomo, genetista e senatore) ci fu un ragguardevole aumento delle rese medie di frumento, con benefici evidenti sulla disponibilità alimentare per gli italiani dell’epoca. Le decine di varietà di grano che realizzò, denominate “sementi elette”, vennero anche esportate, registrando un notevole successo. Tanto che il premio Nobel Norman Borlaug, migliorando geneticamente proprio il frumento di Strampelli, divenne il padre della rivoluzione verde, nata nell’America Latina degli anni Sessanta.

Oggi torna in Italia il pomodoro “Varrone” creato dal genetista italiano. Strampelli si occupò infatti non solo di grano, ma anche in nuove varietà agrarie da impiegare nella rotazione con il frumento. Unendo insieme la varietà inglese chiamata “Sutton’s Best of All” con pomodori italiani resistenti alla peronospora (malattia causata da organismi parassiti), il risultato venne apprezzato talmente tanto da essere menzionato anche nell’Enciclopedia Treccani (“il Varrone – ibrido Strampelli, pianta vigorosa e produttiva, così riconosciuta in numerose coltivazioni; frutto a polpa soda, di colore rosso vivo; raccomandabilissima”). Il pomodoro “Varrone”, nonostante le pregevoli caratteristiche agro-botaniche, venne però soppiantato dalle moderne varietà industriali (nane). Ora l’Italia ne riscopre le doti, dopo il ritrovamento presso la banca del germoplasma di San Pietroburgo (la prima banca genetica al mondo), creata nei primi del Novecento dal botanico e genetista russo Nikolai Vavilov.

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“I semi sono stati riportati in Italia e impiegati in una prima serie di prove atte a stabilire la corrispondenza delle caratteristiche manifestate dalla varietà odierna con quelle illustrate negli anni Venti”, spiega Roberto Papa, professore di genetica agraria della Politecnica delle Marche e tra i coordinatori della ricerca.

In occasione, quindi, del 150° anniversario dalla nascita di Nazareno Strampelli (che si celebrerà quest’anno nel mese di maggio), l’Italia gli offre il proprio omaggio recuperando una varietà che potrà rappresentare anche una occasione di promozione di percorsi produttivi alternativi. Chissà che un domani si possa omaggiare il genetista italiano con uno spaghetto Cappelli (pasta ottenuta dall’omonimo senatore coltivando il grano duro di Strampelli, ancora oggi in produzione) al sugo di pomodoro Varrone.

Elisa Scarlingi

Alzheimer: 600mila solo in Italia

Sempre più malati di Alzheimer in Italia. E sempre più cure casalinghe. A dirlo sono i dati del Censis, raccolti in collaborazione con l’Associazione Italiana Malattia di Alzheimer. Dei 600.000 pazienti affetti da questa patologia degenerativa, per metà sono i figli a occuparsene, il 34,3% abita solamente con il coniuge, mentre il 38% ha il supporto di una badante. Anche le spese sono quasi totalmente a carico delle famiglie: rappresentano infatti il 73% degli 11 miliardi di euro previsti per l’assistenza ai malati di Alzheimer.

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Si stima che, a livello mondiale, secondo l’Alzheimer’s Disease International, ci siano oltre 9,9 milioni di nuovi casi l’anno, uno ogni 3,2 secondi. L’Italia, a causa dell’invecchiamento della popolazione, con i suoi 13,4 milioni di ultrasessantenni, è destinata ad avere un numero sempre crescente di pazienti affetti da questa patologia degenerativa.

In aumento anche l’età media, sia dei malati (78,8 anni) che dei caregiver impegnati nelle loro cure (59,2 anni). L’assistenza diretta ammonta a una media di 4,4 ore al giorno, mentre la sorveglianza arriva fino a 10,8 ore giornaliere. Ciò implica pesanti effetti sullo stato di salute di coloro che offrono le cure, soprattutto tra le donne: stanchezza (80,3%), insonnia (63,2%) e depressione (45,3%).

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Rispetto al 2006, diminuisce di dieci punti percentuali il numero di pazienti seguiti da un centro pubblico (56,6%), soprattutto quando la patologia è a uno stadio avanzato (46%). A soffrire è tutto il comparto dei servizi per l’assistenza e la cura dei malati di Alzheimer: i centri diurni vedono un calo dal 24,9% al 12,5%, i ricoveri in ospedale o in strutture riabilitative e assistenziali scendono dal 20,9% al 16,6%, l’assistenza domiciliare integrata e socio-assistenziale cala dal 18,5% all’11,2%. A subire una diminuzione è anche il comparto di coloro che accedono ai farmaci specifici: dal 59,9% al 56,1%.

“I tre studi realizzati da Censis e Aima negli ultimi sedici anni evidenziano come stia progressivamente cambiando il mondo dei malati di Alzheimer e delle loro famiglie», ha detto Ketty Vaccaro, responsabile dell’Area Welfare e Salute del Censis. “È un mondo che invecchia e cresce l’impatto della malattia in termini di isolamento sociale. La famiglia è ancora il fulcro dell’assistenza, ma può contare su una disponibilità di servizi che nel tempo si è ulteriormente ristretta, mentre sono ancora presenti le profonde differenziazioni territoriali dell’offerta”.

Elisa Scarlingi

Cure sanitarie in Italia: la mappa delle disparità

Gli italiani spendono di più dei loro cugini europei per prestazioni sanitarie, divisi su un territorio che non risponde equamente ai bisogni di salute dei propri cittadini. E uno su quattro lamenta difficoltà di accesso alle prestazioni sanitarie dovute sia a motivi economici che alle liste d’attesa. Questa la sintesi fotografata dall’Osservatorio civico sul federalismo in sanità realizzato da Cittadinanzattiva.

Università Campus Bio-Medico di Roma

Rispetto alla media OCSE del 2,8%, la spesa sostenuta privatamente dagli italiani nell’anno 2015 per le prestazioni sanitarie è del 3,2%, con forti differenze tra il nord e il sud del paese. In Valle D’Aosta, infatti, la spesa è di 781,2 euro, contro i 267,9 euro della Sicilia. Parlando invece della spesa sanitaria pubblica pro capite, relativa al 2013, la situazione si ribalta. Se la Provincia Autonoma di Trento spende 2.315,27 euro, la Campania si ferma a 1.776,85 euro.

Alcune Regioni, ancora troppo poche, hanno saputo interpretare il federalismo sanitario come strumento per rispondere alle esigenze dei cittadini”, spiega Tonino Aceti, coordinatore nazionale del Tribunale per i diritti del malato di Cittadinanzattiva. “La sfida per il futuro del federalismo sanitario e del Servizio Sanitario Nazionale è portare le Regioni più critiche ai livelli delle più virtuose e proiettarle tutte verso il miglioramento dei servizi per i cittadini. È evidente la necessità di aggiornare gli indicatori di monitoraggio; ottimizzare i flussi informativi esistenti; garantire terzietà al monitoraggio LEA introducendo il punto di vista dei cittadini e prevedendo la partecipazione di rappresentanti di cittadini nella Commissione nazionale LEA. La riforma costituzionale in corso in ambito sanitario, qualora fosse confermata, renderebbe più forte il livello centrale, e irrobustirebbe contemporaneamente quello delle regioni, attribuendo loro non solo l’organizzazione dei servizi, ma anche la programmazione sanitaria. Affidare però la soluzione di tutti i problemi alla sola approvazione di una legge, seppur di rango costituzionale, è illusorio. E il Rapporto lo dimostra chiaramente: troppe norme approvate e sbandierate negli anni come soluzioni sono rimaste solo sulla carta o utilizzate per far quadrare i conti”.

Degli oltre 26mila italiani che si sono rivolti al Tribunale per i diritti del malato nel 2015, uno su quattro ha lamentato difficoltà di accesso alle prestazioni sanitarie: per il 58% si è trattato di liste di attesa troppo lunghe, mentre per il 31% il ticket è risultato troppo oneroso. A rinunciare sono soprattutto i cittadini del Sud (11,2%), seguiti da quelli del Centro (7,4%) e dal Nord (4,1%). Questo perché tempi d’attesa e ticket sono molto più bassi nel Nord d’Italia. Per una visita cardiologica con EGC nel Nord Ovest l’attesa è di 42,8 giorni, contro gli 88 del Centro; per una riabilitazione motoria nel Nord Est si aspettano 13 giorni, mentre al Sud aumentano a 69. Per quanto riguarda i ticket, sulle stesse 16 prestazioni, nel Nord Est 10 hanno un costo molto basso, mentre al Sud per la metà i prezzi risultano i più elevati.

Anche sul fronte prevenzione le differenze regionali sono molte. Sulla base del monitoraggio realizzato dal Ministero della Salute nel 2013, su 16 regioni, 8 risultano inadempienti (Abruzzo, Calabria, Campania, Lazio, Molise, Piemonte, Puglia, Sicilia). Per quanto riguarda invece i nuovi farmaci per la cura dell’epatite C, se nel Lazio sono 11 i centri prescrittori per una media di 533.677 persone, in Piemonte il rapporto è 10 centri per 443.680 cittadini. Disparità anche per i centri di procreazione medicalmente assistita: se al Centro e al Sud la prevalenza è del privato (rispettivamente 68% e 58%), nel Nord Est la percentuale si equivale, mentre nel Nord Ovest la prevalenza è dell’offerta pubblica.

È ora di passare dai piani di rientro dal debito ai piani di rientro nei Livelli Essenziali di Assistenza, cruciali per la salute dei cittadini e la riduzione delle diseguaglianze.” Continua Tonino Aceti, coordinatore nazionale del Tribunale per i diritti del malato di Cittadinanzattiva. “Per andare dietro alla sola tenuta dei conti, oggi alcune regioni in piano di rientro hanno un’offerta dei servizi persino al di sotto degli standard fissati al livello nazionale, ma con livelli di Irpef altissimi e ingiustificabili dai servizi resi. L’Irpef diminuisca proporzionalmente al diminuire del debito, sino a tornare, al momento dell’equilibrio, ai livelli precedenti al Piano di Rientro”.

Elisa Scarlingi