Presso l’Ospedale Bambino Gesù primo trapianto di rene da donatore vivente

All’ospedale Bambino Gesù di Roma qualche mese fa era stata fatto il primo trapianto pediatrico di rene da donatore vivente attraverso una tecnica mini invasiva denominata “hand assisted”. bambino gesù

Qualcosa di simile è stato effettuato dagli specialisti del Policlinico Gemelli di Roma su due adulti, l’operazione è stata suddivisa in due momenti, nella prima parte l’equipe guidata da Jacopo Romagnoli ha prelevato i reni, mentre il team di Franco Citterio li ha trapiantati. Si è tratta di una procedura con un’invasività molto limitata che porta dei vantaggi per il donatore come la brevità della degenza, l’assenza di dolore postoperatorio e l’assoluta sicurezza.

Questa tecnica permette al soggetto sottoposto all’intervento chirurgico di donare il proprio rene ad un familiare o ad un perfetto sconosciuto in completa tranquillità.La tecnica è stata messa a punto per la prima volta grazie alla collaborazione fra i medici del Bambin Gesù e della Mayo Clinic di Rochester, negli Stati Uniti.

Il prelievo/trapianto di rene è stato condotto nell’ambito del V Course on Pediatric Urology “How we do it” ed è parte di un progetto finalizzato allo sviluppo della donazione da vivente. Soddisfatto il direttore del Centro Nazionale Trapianti (CNT) Alessandro Nanni Costan ha dichiarato: «Il primo utilizzo della tecnica laparoscopica per il prelievo di rene da due donatori adulti viventi nella regione Lazio è un grande successo e una testimonianza dell’alta professionalità dei chirurghi e degli operatori della Rete Nazionale Trapianti.

I vantaggi che offre questa tecnica, sia sotto l’aspetto del ridotto decorso post-operatorio e della minore traumaticità dell’intervento, vanno, infatti, a favore di chi si trova a prendere in esame questa opzione. Mi auguro, che tecniche a bassa invasività, come quella utilizzata oggi, si diffondano sempre di più anche per facilitare l’incremento del numero delle donazioni e dei trapianti».

Il Consiglio Superiore della Sanità approva la pillola dei 5 giorni dopo

La pillola dei 5 giorni dopo, che agisce entro i cinque giorni dal rapporto sessuale considerato a rischio è stata approvatapillola-5-giorni-dopo dal Consiglio Superiore della Sanità. Questa decisione era attesa da molto tempo, ma si specifica che la prescrizione del farmaco avvenga solo dopo aver effettuato il test di gravidanza.

Il farmaco è stato approvato dalla Commissione Tecnico-Scientifica dell’Aifa (Agenzia italiana del farmaco) e ora manca solo il passaggio al consiglio di amministrazione. La pillola è già commercializzata in molti paesi europei con il nome di EllaOne dall’azienda Hra Pharma che subì dei ritardi dovuti alle eventuali conseguenze di un uso ripetuto.

Nello specifico, secondo la Commissione, “l’azione dell’ulipristal  va ad alterare la maturazione secretiva dell’endometrio e a ritardare l’ovulazione a livello ovarico, causando l’effetto contraccettivo. Pertanto, la Commissione esprime preoccupazione riguardo alle eventuali conseguenze di un uso ripetuto per il quale non si hanno dati disponibili circa la sicurezza e gli eventuali effetti collaterali possibili”.

Il nuovo farmaco per la contraccezione post-rapporto funziona come la pillola del giorno dopo, che in realtà ha un efficacia di 72 ore mentre in questo caso l’efficacia si prolunga di altri due giorni senza la comparsa di effetti collaterali.

A confermarlo uno studio pubblicato sul Journal of Obstetrics and Ginecologics, che prelude alla commercializzazione del farmaco negli Stati Uniti, in cui 1200 donne americane hanno fatto ricorso a questa pillola ottenendo un efficacia del 97,9%. Si specifica che non si tratta di un farmaco abortivo ma di un anticoncezionale che ha un effetto anti pro gestore inibendo temporaneamente i meccanismi dell’ovulazione, infatti ha effetto solo se quando viene assunto non è ancora avvenuta la fecondazione.

Le persone bilingue di fronte alle decisioni scelgono più in fretta

Secondo uno studio condotto dall’Università Vita-Salute e dall’Irccs San Raffaele di bilingueMilano in collaborazione con gli atenei di Hong Kong, Londra e Barcellona, per prendere in fretta una decisione che può fare la differenza è bene aver imparato due lingue in tenera età.

Gli scienziati hanno confrontato due gruppi di persone, uno formato da cittadini dell’Alto Adige, bilingui dall’infanzia ( tedesco-italiano) e il secondo monolingue, composto da persone della stessa età con lo stello livello educativo e socio-economico. Entrambi i gruppi sono stati sottoposti a compiti cognitivi, alcuni molto particolari, mentre i ricercatori attraverso tecniche avanzate di neuroimaging hanno misurato le attività cerebrali.

La “voxel-based-mophometry” che serve a misurare la densità di materia grigia nel cervello. “Abbiamo dimostrato che i bilingui hanno più materia grigia nella corteccia del cingolo anteriore, la struttura più importante nel monitorare le nostre azioni e decisioni. Abbiamo inoltre evidenziato che vi è una correlazione positiva tra la loro performance nel risolvere conflitti cognitivi e lo spessore della materia grigia del cingolo anteriore”.

Ha spiegato Jubin Abutaledi, docente di neuropsicologia al Vita-Salute San Raffaele e primo autore dello studio. Dallo studio risulta che i bilingui sono mentalmente più efficienti, infatti pur essendo più veloce usano meno risorse dal cervello. L’origine di questo vantaggio neuro-cognitivo potrebbe risiedere nella necessità di imparare fin da piccolissimi a tenere distinti due idiomi, senza mescolarli. “Il risultato di questo studio porta ulteriori evidenze a supporto dell’idea che imparare più di una lingua, il più precocemente possibile, possa conferire un vantaggio anche in termini di capacità che con il linguaggio non sono direttamente connesse”. Ha così concluso il docente.

Argus II, una protesi per tornare a vedere

Nei giorni scorsi è stato effettuato con successo il primo trapianto al mondo di protesi retinica su un paziente affetto da retinite pigmentosa, dopo una fase di sperimentazione durata più di nove anni, che ha evidenziato un’ottima tollerabilità del dispositivo nell’occhio umano e promettenti risultati dal punto di vista funzionale.

Il dispositivo impiantato si chiama Argus  II ed è stato messo a punto dalla Second Sight Medical argusIIProducts in California, ed è in grado di ripristinare una parziale capacità visiva in pazienti affetti da malattie degenerative della retina che causano una cecità quasi completa ad entrambi gli occhi.

L’operazione è durata ben 4 ore e si è svolta senza complicazioni presso il reparto di Chirurgia oftalmica dell’azienda ospedaliera-universitaria di Pisa tenuta dal Dott. Stanislao Rizzo e dal suo staff. Fra due settimane il dispositivo sarà attivato e calibrato per la funzione visiva del paziente, giusto il tempo di far riprendere l’occhio dallo stress subito.

La protesi retinica è costituita da minuscoli elettrodi collegati alla retina del paziente, che captano dei punti del messaggio visivo attraverso una telecamera molto piccola. Gli elettrodi dialogano con la retina compromessa dell’occhio malato traducendo un modello primitivo di vedere qualcosa come oggetti che si spostano nell’ambiente.

“Sono molto soddisfatto che il nostro ospedale possa offrire in Italia il primo trattamento approvato disponibile per le persone non vedenti affette da retinite pigmentosa. La medicina può ora fare qualcosa per i non vedenti. La retina è costituita da una minitelecamera montata su un paio di occhiali che trasmette wireless le immagini captate a un chip posto sopra la zona centrale della retina. Siccome gli elettrodi sono 60, il risultato è un’immagine composta da poche unità (pixel) e dunque assai poco nitida, ma pur sempre straordinaria per chi ha perso la vista.

Il marchingegno funziona solo se il nervo ottico è integro; per questo la retina al momento viene sperimentata solo su malati di retinite pigmentosa, una malattia genetica che causa la degenerazione del tessuto retinico fino alla cecità, ma che non danneggia il nervo ottico. Il risultato, secondo quanto riferito da tutti e 34 i pazienti della prima sperimentazione, è soddisfacente e in linea con le attese” Dichiara il Dott. Rizzo. Un grande passo in avanti, in cui la tecnologia si rende molto utile alla medicina, dando la possibilità di avere soluzioni che nessuno avrebbe mai immaginato molti anni fa.

Perchè il cervello fa le scelte sbagliate?

Cosa spinge ad avere comportamenti di dipendenza o di abuso di sostanze, come il fumo di sigarette, l’alcool, il cibo, o il gioco compulsivo e la cleptomania? Le ricerche in campo neurobiologico stanno indagando da molti anni e l’ultimo risultato viene ora dall’Università della California a Berkeley, dove un gruppo di neuro scienziati ha individuato il punto del cervello in cui vengono elaborate le informazioni che danno come risultato il comportamento compulsivo.

Gli studiosi dell’UC Berkeley hanno trovato in che modo l’attività neurale della corteccia orbitofrontale e del cingolato anteriore regolano le nostre scelte, ed ora la loro speranza è  quella di poter ispirare nuovi trattamenti efficaci per i comportamenti di abuso. “Quanto più conosciamo il cervello nei meccanismi di presa di decisioni, tanto meglio possiamo sperare di individuare una terapia mirata sia essa di tipo farmacologici, comportamentale o di stimolazione cerebrale profonda”, ha spiegato Jonathan Wallis professore di psicologia e neuroscienze dell’UC Berkeley.

Wallis si è chiesto cosa fa al cervello la sostanza o il comportamento da rendere così difficile fare una scelta diversa e più salutare; per trovare risposta ha analizzato l’attività neurale di alcuni macachi coinvolti in un gioco dove il riconoscimento di alcune figure portava alla ricompensa di un succo di frutta. Le scimmie imparavano presto quali figure erano associate ad una quantità maggiore di succo di frutta consentendo di evidenziare quali elaborazioni mentali avvenissero e in quali regioni cerebrali. I risultati hanno mostrato come la corteccia orbito frontale permetta di passare velocemente dall’analisi di situazioni in cui occorre una decisione importante, a decisioni banali.  Nelle persone con un danno alla corteccia orbitofraontale, l’attività neurale non cambia in base all’importanza della decisione, portando a problemi quando tali soggetti devo fare alcune scelte.

In ultimo, per quanto riguarda la corteccia cingolata anteriore, quando funziona in modo normale permette di capire più rapidamente se una decisione presa sia conforme alle nostre aspettative; nei soggetti con un malfunzionamento in questa regione questi segnali vengono a mancare inducendoli a ripetere una scelta che va a loro danno.

Occhi azzurri in pochi secondi

Un gruppo di ricercatori di Los Angeles ha ideato una tecnica laser capace di modificare in pochi secondi il colore degli occhi .Saranno felici tutte le persone che hanno sempre desiderato avere degli occhi azzurri senza dover utilizzare le famose lenti a contatto colorate; la tecnica consiste nell’utilizzare un fascio laser che in 20 secondi distrugge il pigmento di melanina che rende scuro il colore degli occhi. Dopo poche settimane di trattamento si avrà un cambiamento graduale del colore dell’iride; sembra una scoperta molto interessante anche se alcuni dubbi restano sulla sicurezza del trattamento, infatti nel caso ci sia la possibilità di rilascio di melanina nell’occhio, questa resterà nell’occhio e ancora non son ben chiari gli effetti che potrebbe avere sulla vista. Alcuni ricercatori dell’Università dell’Illinois sono rimasti perplessi  in quanto sostengono che un simile trattamento potrebbe provocare il glaucoma pigmentario, la cui causa sembra essere collegata all’infiltrazione di melanina nel liquido che è all’interno dell’occhio causando la perdita della vista. “La tecnica necessita ancora di un periodo di sperimentazioni che potrebbero durare circa un anno e soltanto tra qualche anno sarà possibile praticarla correntemente. “ afferma il Dott. Homer, responsabile della ricerca.

La donna è più a rischio di depressione ed attacchi di panico

La donna, secondo le stime effettuate dall’Associazione Europea Disturbi di Attacchi di Panico (Eurodap), risulta essere maggiormente a rischio di depressione e di disturbi di attacchi di panico. Questo perché tre volte più stressata rispetto all’uomo in quanto abbandonata nel gestire famiglia e lavoro. Vivere di continuo una situazione emotivamente negativa può portare all’insorgere di una vera e propria malattia da stress, e oggi due donne su tre che lavorano, dicono di essere molto stressate, perché oltre al lavoro hanno sulle spalle la responsabilità dell’andamento della famiglia. C’è poi il problema della competitività con il sesso forte, ancora molto sentita soprattutto negli ambiti manageriali, in cui la donna deve dimostrare di essere al pari dell’uomo e di meritare anche gli stessi compensi.Vivere situazioni stressanti per lungo tempo è destabilizzante e la donna, insieme donna-madre e donna-lavoratrice, rischia alla lunga un crollo emotivo se non riesce a trovare il suo giusto equilibrio. E’ palese, dunque, che la vita lavorativa di una donna, specialmente se in carriera, è molto più difficile di quella di un uomo, e le donne più vulnerabili sono soprattutto quelle tra i 30 e i 40 anni, età in cui oggi è più frequente la maternità, che diventa un altro fattore di stressante confronto tra i due sessi.
Le ricerche dimostrano che le donne soffrono prevalentemente di attacchi di panico, sindrome ansioso-depressiva, ansia generalizzata, disturbi depressivi e di sindromi da disadattamento, per una percentuale che si aggira intorno al 39,4%; lo stress altera la produzione di sostanze chimiche come il cortisolo e l’interluchina, sostanze che, se non sono mantenute al livello giusto, producono effetti dannosi sulle difese immunitarie e creano la base per l’insorgere di varie malattie. E’ qui che entra in gioco la prevenzione, per fare in modo che i costi personali e sociali delle patologie da stress possano essere evitati