Alzheimer: quando una delle cause è la troppa igiene

AlzheimerSecondo uno studio inglese condotto dall’Università di Cambridge, tra le cause dell’Alzheimer ci sarebbe l’eccessivo igiene tipico dei Paesi sviluppati. Sembrerebbe infatti che una troppa pulizia, impedendo al sistema immunitario di venire a contatto con i germi e di reagire secondo natura, lo rende più debole, e di conseguenza permette alla malattia di diffondersi.

La teoria elaborata si basa su un’analisi effettuata su 192 nazioni, da cui emerge, come in quelle occidentali, in cui le condizioni di vita sono migliori, il morbo è maggiormente riscontrabile. Statistiche matematiche precise con un margine di errore minimo, che mettono in luce come l’Alzheimer sia quasi del tutto sconosciuto nei cosiddetti Paesi del Terzo Mondo, in quelli in via di sviluppo o in quelli in cui il territorio è per la maggior parte rurale.

Sembrerebbe che il legame tra la malattia progressiva e il livello di pulizia sia da ricercare nei linfociti T, ovvero in quelle cellule che svolgono una funzione rilevante nella gestione del sistema immunitario. Chi vive in una realtà come la nostra, in cui lavarsi continuamente le mani con il sapone e si utilizzano molto frequentemente i docciaschiuma, non sviluppano abbastanza cellule di questo tipo, che risultano essere decisamente ridotte nel cervello dei malati di Alzheimer.

Un bilancio, questo, che fa riflettere i medici coinvolti nella scoperta: se al momento sono circa 30 milioni i malati, nel 2050 una persona su 85 sarà affetta da questa sindrome.

Come si può leggere sulla rivista Evolution Medicine and Publich Health, su cui è stato pubblicato lo studio, il dottor  James Pickett, a capo dell’equipe, ha spiegato: “Sappiamo da tempo che il numero di persone affette dal morbo varia da Paese a Paese. Il fatto che questa discrepanza possa essere legata alle condizioni igieniche è una teoria avvincente, e si lega bene alle connessioni che esistono tra infiammazione e malattia”.

Davide Basili
11 settembre 2013

2 kiwi al giorno per ritrovare energia e buonuomore

kiwiSe il buongiorno si vede dal mattino, è merito del kiwi, che grazie agli effetti benefici della vitamina C contenuta al suo interno, offrono un surrogato di positività e sprint per iniziare la giornata al  meglio.

Questo il risultato di una ricerca australiana condotta dai ricercatori dell’Università di Otago, in Nuova Zelanda. Il kiwi, uno dei simboli per eccellenza del Paese, è stato al centro di un esperimento condotto su 54 studenti universitari di sesso maschile poco inclini a frutta e verdura, tanto da eliminarle dai loro pasti quotidiani.

I partecipanti sono stati divisi in due gruppi: il primo doveva mangiare due kiwi al giorno, il secondo mezzo kiwi. Dopo sei settimane, al termine di quella che è stata immediatamente ribattezzata la “dieta del kiwi”, si è riscontrato che i ragazzi che avevano consumato la razione più abbondante del frutto erano più in forma degli altri sia a livello fisico che mentale, e mostravano inoltre una maggiore resistenza allo stress.

Tutto merito dell’alto tasso di vitamina C contenuta nel kiwi, come ha illustrato Margareth Vissers, una delle autrici dello studio alla rivista Journal of Nutritional Science, su cui è stata pubblicata la ricerca. “Due kiwi al giorno hanno assicurato che i livelli di vitamina C del gruppo di studio fossero ottimali, e questo è stato necessario per vedere un effetto sull’umore e sull’energia” ha spiegato, focalizzandosi su come il frutto abbia una concentrazione ottimale della vitamina C, componente fondamentale per consentire un ottimo guadagno energetico a livello celebrale.

È infatti risaputo che 100 gr di kiwi contengono circa 93 mg di vitamina C, più del doppio di quella contenuta in 100 gr. di succo di limone, che ammonta a circa 39 mg.

Davide Basili
28 agosto 2013

Staminali: ricostruito il primo cuore di topo

staminaliGli scienziati della University of Pittsburgh School of Medicine hanno brillantemente condotto la prima operazione di ricostruzione di cuore di topo. L’organo, dopo che le proprie cellule sono state sostituite con quelle staminali umane, è tornato nuovamente a battere. 

Le cellule umane utilizzate sono state quelle progenitrici dei tessuti cardiovascolari, che partendo da una piccola biopsia cutanea, sono state prodotte dai fibroblasti. Il risultato ha portato all’ottenimento di staminali pluripotenti indotte, che sono state trattate al fine di specializzarle in 3 tipi di cellule cardiache: le cardiomiociti, quelle endoteliali e quelle muscolari lisce. 

Durante la prima fase del processo, soprannominata “decellularizzazione”,  diversi membri del team, in un intervento delicato durato circa 10 ore, hanno rimosso tutte le cellule dal cuore, lasciandone intatta solo l’impalcatura. Dopodiché i medici hanno utilizzato le cellule staminali cardiovascolari (MCP) che crescono sullo “scheletro” dell’organo  per rimpiazzarle. 

Un paio di settimane più tardi,  il cuore si è rigenerato con le cellule umane ed è nuovamente tornato a battere, con una frequenza di 40/50 battiti al minuto. Un ottimo successo dal punto di vista della scienza, anche se l’equipe ha puntualizzato che è necessario proseguire con il lavoro, al fine di regolarizzare la contrazione del cuore, in modo che possa essere in grado di pompare il sangue in modo funzionale. 

Lei Yang, uno dei ricercatori senior ed assistente alla cattedra di biologia dello sviluppo presso l’università, come pubblicato oggi sul periodico on-line Nature Communications, ha commentato: “Negli Stati Uniti, una persona muore di malattie cardiache ogni 34 secondi e più di 5 milioni di persone soffrono di scompenso cardiaco, il che significa una ridotta capacità di pompare il sangue. La possibilità di sostituire un pezzo di tessuto danneggiato da un attacco di cuore, o forse un intero organo, potrebbe essere molto utile per questi pazienti”.

Davide Basili
20 agosto 2013

L’Uva passa contrasta diabete e malattie cardiovascolari

uva-passaSecondo una ricerca americana condotta dall’Eastern Illinois University e pubblicata sulla rivista scientifica Journal of Food Science, l’uva passa, comunemente chiamata uvetta, può essere usata come rimedio naturale contro il diabete e le malattie cardiovascolari.

Dalle analisi effettuate, infatti, sembra che le sostanze contenute al suo interno siano in grado di assicurare una più corretta gestione da parte del corpo dei livelli di glucosio nel sangue. Questo anche per via dell’ampia varietà degli antiossidanti presenti nell’uva passa, in grado di favorire il benessere dell’uomo aiutandolo a perdere peso.

I ricercatori, duranti i loro esperimenti, hanno potuto trovare un collegamento tra il consumo di questo particolare tipo di frutta secca con un abbassamento della pressione sanguigna, sia quella sistolica che quella diastolica, consigliando di inserire l’uva nella propria dieta. Uno spuntino a base di uvetta, specie nel pomeriggio, al posto della solita merenda, può inoltre aiutare a mantenere un livello basso del colesterolo e a contrastare alcuni vizi “sbagliati”, come il consumo di bevande alcoliche o di cibi grassi.  Sembrerebbe infatti che chi è abituato a consumare l’uva passa, riesca più facilmente a mangiare frutta, verdura e altre sostanze salutari, evitando quelle che, inevitabilmente, favoriscono i chili di troppo.

Proprietà benefiche, queste, che sono da associare al reveratrolo, l’antiossidante contenuto nella buccia dei chicchi d’uva che è considerato un ottimo alleato contro l’invecchiamento.

Libero sfogo, dunque, al consumo dell’uvetta, mettendo da parte le false notizie che la considerano una delle cause delle carie ai denti: grazie allo studio americano condotto dalla dottoressa  Ashley R. Waters, è emerso che l’uva passa è in grado di contrastare lo Streptococcus mutans, il batterio responsabile dello sviluppo del problema dentale.

Davide Basili
1 luglio 2013

Trapianto di testa: il neurochirurgo si difende così

sergio-canaveroL’annuncio della possibilità in breve tempo di un trapianto della testa ha scosso il mondo medico e generato reazioni discordanti ma Sergio Canavero, il neurochirurgo di Torino secondo cui entro due anni sarebbe possibile realizzare questo tipo di intervento, ha replicato: “È soltanto l’incompetenza di chi parla senza conoscere la materia”.

Secondo Canavero, entro due anni sarebbe davvero possibile questo nuovo e delicato tipo di intervento, non si tratta di qualcosa di illegale, bensì potrebbe essere un’alternativa all’eutanasia. Una semplice proposta, la sua, in quanto, almeno al momento, il professionista sembra non essere intenzionato ad entrare nel merito delle questioni etiche. Si è limitato a sostenere: “Io sono soltanto uno strumento. Spetta alla società stabilire se utilizzarlo o meno. Credo, però, che i tanti Welby (in riferimento a Piergiorgio Welby, coloro che chiedono disperatamente che venga staccata loro la spina, ndr) che ci sono in Italia, e non solo, potrebbero avere prospettive ben diverse da quelle di chi cerca l’eutanasia a tutti i costi”.

Non sono bastate queste parole ad evitare un dibattito di natura mondiale, visto che, in sostanza, il progetto denominato Heaven– curioso il nome stesso, che richiama l’idea di morte (“heaven” in inglese vuol dire “paradiso”, ndr) getta le basi per qualcosa di davvero incredibile: allungare la vita umana. Ma anche in questo caso Canavero ha fatto presente che “la società dovrebbe già cominciare a pensare al modo per regolamentare questa procedura, prima che un intervento rivoluzionario, progettato per fornire una terapia radicale a malati profondamente sofferenti, diventi una pratica spregiudicata nelle mani di chirurghi senza scrupoli”.

E ha addirittura lanciato una sfida, per dimostrare la validità dei suoi studi: è in cerca di un finanziamento di 10 milioni di euro. “Spero che l’Italia decida che questo progetto vale la spesa” ha affermato, sottolineando come “illegale è trapiantare un cervello. Ma questo è un trapianto di corpo, una donazione multiorgano”

Davide Basili
23 giugno 2013

Danni cerebrali: un componente della marijuana può essere la soluzione

marijuanaSecondo quando scoperto dai ricercatori israeliani dell’Università di Tel Aviv, sembra che una bassa concentrazione di  THC, il  principale principio attivo, nonché componente psicoattivo della marijuana, sia in grado di proteggere i danni al cervello causati da lesioni, convulsioni e ipossia (mancanza di ossigeno, ndr).

Lo studio, pubblicato sulla rivista scientifica Behavioural Brain Research and Experimental Brain Research, infatti, mette in evidenza come dosi minime di questa sostanza, possano avere un ottimo effetto sulle cellule cerebrali, preservando così nel tempo le varie funzioni cognitive. Si tratta di dosi inferiori di 1.000 a 10.000 volte di quelle normalmente contenute in uno spinello, che possono essere sfruttate in tempi diversi.

In base a quanto sperimentato, si parla di un periodo che va da uno a sette giorni prima della lesione, e da uno a tre dopo la sua comparsa, come spiegato dal dottor Yosef Sarne,  a capo dell’equipe.

Durante i primi test è emerso che il THC previene la morte delle cellule, promuovendone la crescita e, in seguito a questa scoperta, sono state condotte alcune campionature sugli animali. Così facendo è stato possibile non solo  verificare la capacità neuroprotettiva del principio attivo, ma anche constatare che, dopo aver somministrato la dose alle cavie affette da lesioni cerebrali, queste mostravano una risposta migliore. Infatti, dopo circa 3-7 settimane dopo il trauma, queste hanno mostrato uno stimolo a livello cognitivo, comportamentale, di apprendimento e di memoria superiore a quello mostrato dal gruppo non trattato con THC.

Sarne ha inoltre spiegato che questo nuovo approccio terapeutico apre nuove strade alternative per sfruttare al meglio quel componente psicoattivo a lungo sottovalutato.

Davide Basili
3 giugno 2013

Disturbi cardiaci: una maglietta hi-tech per il controllo a distanza

maglietta-controllo-patologie-cardiacheUna novità tecnologica in campo sanitario: si tratta di una maglietta che permette, in tempo reale, di monitorare a distanza pazienti affetti da patologie cardiache, evitando così loro il ricovero in ospedale, che per molti risulta essere traumatico.

Il progetto “Happy Heart”, al momento in via sperimentale, è stato avviato dal reparto dell’Ospedale Infantile Regina Margherita della Città della Salute e della Scienza di Torino, ed è stato presentato, in anteprima assoluta, durante il Forum della Pubblica Amministrazione di Roma.

Nel pomeriggio, la dottoressa Gabriella Agnoletti, durante la Tavola Rotonda dal titolo “La prospettiva dei leader internazionali sul futuro dei sistemi sanitari”, ha illustrato questa invenzione che permette di cancellare il ricovero. La maglietta, prodotta dalla Mtm Tech, un’azienda torinese, in collaborazione con atenei e centri di ricerca scientifica, è confezionata su misura di ogni singolo bambino affetto da aritmia, ed è aderente al corpo.

Grazie alla particolare tecnologia di cui è dotata, è in grado di rilevare 24 ore su 24 la portata cardiaca, la saturazione d’ossigeno e la frequenza respiratoria. Per mezzo dei sentori tessili di cui è dotata, è in grado di trasmettere il tracciato ECG del piccolo paziente e la sua posizione, e, per mezzo di una connessione Bluetooth, trasmette i dati rilevati allo smartphone in dotazione al soggetto, che a sua volta li passa all’ospedale di riferimento.

L’utilizzo di questo strumento innovativo permette il monitoraggio del paziente ovunque egli si trovi: a casa, al parco o in vacanza, e il controllo continuo permette di limitare gli accessi alle strutture ospedaliere solo ed esclusivamente per le situazioni di emergenza, senza più doverci andare, per esempio, per la lettura  Holter del ritmo cardiaco.

Un accessorio senza dubbio in grado di far risparmiare del 30% le 150 famiglie che, ogni anno, potranno beneficiarne: è stato dimostrato che il costo del progetto viene ammortizzato in un periodo inferiore ai 3 mesi, considerando le spese di ricovero e del personale non impegnato. Il tutto, offrendo comunque un’ottima qualità del servizio e una completa disponibilità.

Davide Basili
30 maggio 2013