Studiando il suolo potremo prevedere il futuro dell’atmosfera terrestre

Scritto da:
Leonardo Debbia
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1 minuto
Raccolta di campioni di suolo vicino a Ephraim, Utah (per gentile concessione della Brigham Young University).

Un nuovo studio condotto dai ricercatori della BYU (Brigham Young University, Utah), sotto la direzione del biologo Rogers Duke, in collaborazione con l’ USDA (U.S.Department of Agricolture), ha rilevato il ruolo e l’importanza che il suolo riveste nel controllare l’evoluzione dell’atmosfera del nostro pianeta. I ricercatori hanno cercato di scoprire il modo con cui gli ecosistemi stanno rispondendo all’aumento del livello di anidride carbonica nell’atmosfera attuale.

Il suolo è lo strato superficiale della crosta terrestre, quello con cui abbiamo un contatto diretto e continuo, formato per la maggior parte da una quantità di detriti a prevalente composizione inorganica, associata ad una minore componente organica. E’ la zona in cui si svolgono i processi biologici e biochimici, in cui è costante l’interazione tra gli organismi viventi (animali e piante) e gli elementi inerti naturali dell’ambiente di contatto, quali acque, aria, vapori, sostanze di scarto, molto spesso inquinanti.

Le differenze di tipologia dei suoli sono note fin dalla preistoria, da quando si iniziò a praticare l’agricoltura, allorchè fu compresa l’importanza della “rotazione delle colture”.
L’esperienza fu il motore principale di cui si è servito il genere umano nel corso dei secoli e sotto ogni latitudine per garantirsi i raccolti e la produzione agricola in genere. Già nell’antica Roma l’agronomo Lucio Giunio Moderato Columella tentò una prima catalogazione dei suoli, mentre si cercavano anche seminagioni sempre più redditizie. Per un approccio scientifico con la materia erano però necessarie conoscenze cui si poteva giungere solo con l’ausilio di altre discipline, quali la fisica, la chimica, la microbiologia.

Il fondatore della pedologia, dello studio scientifico del suolo, è ritenuto un geografo russo, Vasilij Docukaev, che solo verso la fine del XIX secolo, accomunò le teorie di botanici, geografi e geologi, arrivando a formulare il teorema della metamorfosi dei terreni. L’occasione venne data da una seria siccità che aveva messo in crisi la produzione cerealicola russa in quegli anni. I primi studi trovarono poi applicazione pratica nel 1938 negli USA, con la nascita della Soil Taxonomy, messa a punto per fronteggiare i gravi problemi connessi con i catastrofici cicloni che caratterizzarono gli anni ‘20 negli Stati del Sud e la desertificazione dei suoli che ne derivò.
Furono quindi individuati i vari fattori fisici, chimici e biologici che presiedevano i processi relativi alla diversità dei suoli, i cui studi avrebbero permesso di migliorare la produttività e anche di comprendere a fondo la funzione del suolo in genere.

L’oggetto principale di questa indagine è uno di questi processi, precisamente l’azione sul suolo da parte dell’atmosfera e dei suoi componenti, in particolare dell’anidride carbonica o CO2.
“Nel suolo il contenuto di carbonio è due volte e mezzo maggiore di quello atmosferico ed ora ci si deve preoccupare dell’aumento di questo carbonio atmosferico” aveva già sostenuto Mark Bradford, della Scuola di Ecologia UGA Odum della Georgia, in uno studio del 2008. Attualmente, il livello di anidride carbonica nell’atmosfera terrestre è di 390 parti per milione; in crescita, se si considerano le 260 parti per milione che risultavano agli inizi della rivoluzione industriale. Questo dato, con ogni probabilità, pare destinato ad aumentare addirittura fino a 500 parti per milione nei prossimi decenni.

Lo studio di Duke è stato avviato sì per analizzare l’interazione tra piante e suolo, ma più specificatamente per seguire i modi in cui gli ecosistemi rispondono agli effetti dei crescenti livelli di anidride carbonica nell’atmosfera.
I risultati dello studio sono stati pubblicati su Nature Climate Change. La ricerca ha dimostrato che, anche in assenza di cambiamenti climatici, gli esseri umani hanno comunque un impatto sugli ecosistemi legati alla vita. Prendendo in esame la composizione dell’atmosfera terrestre, è stato osservato che l’incremento di CO2 atmosferica ha causato cambiamenti nella composizione delle specie vegetali ed ha avuto ripercussioni sulla disponibilità di acqua ed azoto.

I ricercatori temono che se nel corso del tempo dovesse verificarsi una saturazione della capacità delle piante e dei terreni di assorbire il carbonio disponibile, l’aumento di anidride carbonica nell’atmosfera procederà molto più rapidamente di quanto sia accaduto in passato. Il team di BYU-Duke ha studiato gli effetti dell’aumento di CO2 nel suolo durante gli ultimi 12 anni. Il prof. Richard Gill, co-autore dello studio, in questa ricerca ha rivestito un ruolo particolare: monitorare e misurare i cambiamenti nel ciclo dell’azoto e le dinamiche del carbonio legate alla CO2 atmosferica. Per far questo, Gill ha prelevato campioni di terreno da un sito di ricerca del Texas e li ha portati con sé alla BYU, facendo esperimenti sul suolo nel proprio laboratorio.

Ora, è risaputo che in natura, quando una pianta muore, l’azoto rilasciato viene riassorbito dal terreno e immesso nuovamente nell’atmosfera a seguito di un processo detto “di nitrificazione” ad opera di batteri nitrosanti o notrosatori. Questi batteri hanno l’optimum di attività a pH neutro o leggermente alcalino e necessitano della presenza di carbonati di calcio e di potassio. Gill ha scoperto che un aumento di anidride carbonica, se da una parte aiuta le piante a crescere bene in una prima fase, poi fa sì che l’azoto venga trattenuto nei “rifiuti vegetali” e i batteri che di solito lo decompongono per rilasciarlo nuovamente nel processo di nitrificazione, incontrino difficoltà a svolgere il loro ruolo. Questa difficoltà sarebbe dovuta, in condizioni di aumento di CO2 e di riscaldamento, ad un adattamento dei batteri alle nuove condizioni ambientali. I batteri, in altre parole, modificherebbero la loro respirazione, adattandosi al nuovo ambiente e ridurrebbero la loro respirazione, che tornerebbe a livelli normali solo dopo anni.

Individuato l’anello debole della catena, Gill conlude: “Non dovremmo curarci tanto dei cambiamenti climatici, quanto dovremmo occuparci piuttosto delle altre variazioni chimiche dell’atmosfera, come l’aumento della CO2. A livello globale stiamo cambiando l’atmosfera terrestre e sappiamo che questo sta andando ad influenzare i sistemi da cui dipendiamo. Per prevenire tali cambiamenti è necessario capire a fondo ciò che sta accadendo nel suolo, proprio sotto i nostri piedi.”

Leonardo Debbia